E&M

2001/6

Claudio Dematté

L’altalena degli umori verso le imprese della new economy: la necessità di una bussola

Scarica articolo in PDF

Sono passati pochi anni da quando è partita l’onda della new economy, espressione, questa, coniata negli Stati Uniti per descrivere sia la straordinaria fase di espansione economica che sembrava sfidare sia le leggi del ciclo sia l’avvento di una ricca e baldanzosa nuova imprenditorialità sorta per lo sviluppo e per l’utilizzo delle nuove tecnologie, soprattutto di quelle che vanno sotto l’acronimo ICT (Information and Communication Technologies). Sono passati pochi anni eppure sembra di essere entrati in un’altra e diversa era.

Allora, e fino a poco più di un anno fa, c’era un clima di euforia, anzi di eccitazione: c’era la sensazione che l’insieme delle innovazioni che si erano accumulate fino a quel momento, culminate nella realizzazione di una prima versione di Internet, accessibile in banda stretta, e quelle che si profilavano come prossime avrebbero cambiato profondamente i comportamenti delle persone, delle imprese e più in generale delle istituzioni. Si era diffusa la convinzione che si fosse aperta una grande finestra di opportunità: per gli appassionati di tecnologia si trattava di un magnifico terreno di sperimentazione e di innovazione; per altri di una straordinaria possibilità di avviare nuove attività economiche.

Su quest’onda di ottimismo sono sorte migliaia di nuove imprese finalizzate allo sviluppo e all’installazione delle nuove infrastrutture; altre ne sono nate sull’idea di poter rivoluzionare attività storiche, come il commercio, avvalendosi delle nuove tecnologie. Sull’onda di questa nuova imprenditorialità sono fiorite anche le società di venture capital e quelle di private equity; le une e le altre pronte ad appoggiare nuovi progetti industriali o imprese appena avviate, ansiose di non perdere un treno che sembrava partito e destinato a non fermarsi più. Lo stesso mercato azionario era uscito dalla sua storica tradizione di accogliere in quotazione solo imprese consolidate per appoggiare imprese più recenti con valutazioni per le nuove emissioni che sfidavano le leggi economiche note.

Ora, nel giro di un anno, è cambiato tutto. I risultati promessi dalle nuove imprese, o attesi dal mercato anche se non promessi, non si sono realizzati o hanno subito ritardi e ridimensionamenti. I corsi azionari hanno subito pesanti decurtazioni. Le società di venture capitale quelle di private equity si sono bloccate, in crisi esse stesse per le difficoltà incontrate da molte loro partecipate e per l’impossibilità di rientrare rapidamente, come programmato, dai loro investimenti. La borsa si è chiusa alle nuove quotazioni.

Molte nuove imprese – anche quelle con progetti validi – si sono trovate in mezzo al guado, senza risorse per portare a termine i loro progetti, con gli intermediari e il mercato finanziario restii a finanziare i nuovi investimenti.

Se non bastasse questo, sul campo sono rimasti anche milioni di azionisti vecchi e nuovi accorsi al richiamo del facile guadagno, decimati nei loro investimenti e segnati da un’esperienza che verosimilmente condizionerà i loro comportamenti futuri.

Questa altalena di prospettive, di fortune e di umori ha lasciato un segno profondo nella società: dapprima aveva prolungato, soprattutto nell’epicentro del fenomeno (gli USA), una fase espansiva oltre ogni aspettativa, tanto da far parlare di nuova economia esente da fenomeni ciclici; poi ha innescato una frenata negli investimenti, un’erosione nella fiducia dei consumatori, un rallentamento dei consumi che, saldandosi insieme, hanno poi portato a una stagnazione. L’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre ha fatto il resto, diffondendo in tutto il mondo occidentale un pesante clima di pessimismo che grava sulle coscienze, ma anche sull’intera economia. Per la prima volta da anni tutti e tre i grandi blocchi industriali – Stati Uniti, Europa, Giappone – sono in frenata, incapaci di fare da locomotiva. Per di più, tutti e tre sono in rallentamento non solo su una o sull’altra delle grandi componenti di formazione della domanda aggregata (investimenti, consumi, esportazioni), ma su tutte e tre contemporaneamente.

Di poco sollievo per le economie occidentali sono l’elevato tasso di sviluppo della Cina (anch’esso peraltro in rallentamento) e i segni di ripresa dell’ex Unione Sovietica. La loro capacità di traino rimane per il momento ancora contenuta.

Di fronte a un capovolgimento della situazione così netto è naturale e opportuno che ci si interroghi su ciò che è accaduto, sui motivi di questa brusca inversione, se vi sono stati errori e responsabilità, e naturalmente sugli insegnamenti che se ne devono trarre. Ma, più importante ancora, è opportuno che si rifletta su ciò che si deve fare d’ora in poi per uscire da questo momento di generale pessimismo e di difficoltà. Per le nuove imprese nate su quest’onda di innovazioni e di entusiasmo la questione è più pressante ancora, anzi vitale: per loro si tratta di trovare il modo affinché i progetti sui quali sono sorte vengano adeguati alle nuove condizioni e si trovino le risorse necessarie per portarli a termine, risorse che nel nuovo clima di pessimismo sembrano essersi dileguate.

Le imprese della new economy: sogni senza fondamento o progetti “frenati”?

Il primo quesito cui occorre dare risposta è il seguente: l’ondata di nuove imprese sorte per lo sviluppo e per l’utilizzo delle nuove tecnologie ICT è campata sul vuoto oppure si fonda su una potenzialità autentica e non passeggera? Ora che il vento ha cambiato direzione sono in molti, specie fra gli scettici di antica data desiderosi di prendersi una rivincita, ad affermare che le tecnologie ICT, con Internet in testa, non vanno incontro ad alcun bisogno forte dell’umanità e quindi non hanno grandi prospettive. Posizioni, queste, che riecheggiano quelle avanzate a suo tempo all’apparizione del telefono fisso o della radio e, più recentemente, del cellulare. Nel sostenere queste posizioni ora trovano qualche elemento di appoggio in un sopravvenuto effettivo rallentamento nella diffusione di Internet presso le famiglie, in un utilizzo inferiore rispetto a quello atteso dei vari servizi che le imprese di telecomunicazione hanno finora apprestato, in una cautela da parte delle imprese a muoversi verso l’ebusiness (cioè nell’uso di queste tecnologie non solo per fare commercio elettronico o costruire siti vetrina, ma per trasformare in profondità i processi gestionali). La difficoltà da parte delle imprese più innovative a trarre i presunti vantaggi insiti nella applicazione delle nuove tecnologie, per il contestuale bisogno di cambiare i comportamenti e la cultura organizzativa, accentua ulteriormente la prospettiva negativa.

Questo scetticismo si fonda su un errore, lo stesso, fra l’altro, anche se di segno opposto, che hanno commesso gli entusiasti del primo momento: quello di scambiare il faticoso sviluppo in questo momento per il segno di un’intrinseca incapacità delle nuove tecnologie a produrre un significativo valore aggiunto. Lo sviluppo rallentato rispetto alle attese è un segnale importante che va attentamente analizzato, ma nulla può dire rispetto al potenziale. Questo va valutato per altra via.

Come si determina il potenziale delle nuove tecnologie? Ci sono diversi sistemi: alcuni induttivi, altri che si avvalgono di strumenti empirici. Con i primi si cerca di valutare – una volta comprese le funzioni, il valore aggiunto e i costi delle nuove tecnologie – il mercato potenziale attraverso un processo logico che porta a stimare gli effetti di sostituzione rispetto a prodotti o servizi esistenti, ad accertare il ruolo che tali tecnologie hanno nei processi di produzione, di distribuzione o di gestione, e che consente di stimare gli effetti sui costi, sui ricavi, sulla capacità di interpretare e servire i bisogni della clientela, sul risparmio di capitale investito (grazie alla migliore gestione delle scorte) di coloro che le adottano. E si esaminano anche le attività nuove che possono sorgere, sempre grazie a dette tecnologie. Un abbozzo di questi ragionamenti è stato presentato in precedenti editoriali. Ma la letteratura sul tema è ormai ricca e tutta, anche quella più critica, converge nell’indicare lo straordinario potenziale di innovazione che può essere indotto da un’applicazione intelligente e diffusa di siffatte tecnologie.

Se non bastassero queste valutazioni – alcune delle quali hanno di sicuro errato per eccesso, ma non per la direzione di marcia – si può ricorrere all’esame delle esperienze che già erano disponibili allora e che ora cominciano a essere numerose. Là dove le tecnologie Internet vengono applicate a dovere, non solamente per costruire un sito di presentazione, ma per fluidificare e creare automatismi di transito o di elaborazione nei flussi informativi aziendali, sia in quelli interni all’impresa sia in quelli esterni verso i fornitori o verso i clienti diretti o indiretti, i benefici sono tangibili e sostanziali, misurabili in termini di minori costi e di scorte più contenute, di maggiore celerità, di superiore accuratezza, di accresciuta capacità di interagire fra i soggetti che intervengono nella filiera produttiva, di riduzione del time to market per i nuovi prodotti. È sufficiente studiare in profondità aziende come Dell Computer o Cisco – per citarne due di quelle che sono andate più avanti nella trasformazione verso l’e-business – per avere prova tangibile degli straordinari benefici che queste tecnologie possono apportare alla gestione delle imprese.

Nell’addestramento con supporti informatici e con l’impiego della rete, per esempio, è provato che si possono ridurre i costi fino a un quinto dei costi tradizionali, con l’aggiunta di altri benefici forse ancora più importanti, quali la possibilità di accelerare la formazione della forza vendita e il lancio dei prodotti sul mercato, o di diffondere in breve tempo una nuova direzione di marcia su un’intera organizzazione sparsa nel mondo.

C’è infine un altro modo di valutare il potenziale. È quello che procede dall’alto, esaminando le ragioni di un tasso di crescita così sostenuto realizzato dal paese che è stato al centro di questa trasformazione, gli Stati Uniti. Robert Hall, percorrendo questa strada è giunto alla conclusione che l’alto tasso di crescita degli anni novanta è frutto non tanto di un incremento di produttività del lavoro o del capitale fisico per sé, quanto piuttosto dell’investimento massiccio in un nuovo tipo di capitale, quello che definisce “e-capital”.[1] Questo scaturisce dal forte impiego di personale laureato o comunque istruito – le cui remunerazioni sono per questo motivo aumentate negli anni novanta in termini relativi rispetto a quelle del personale meno qualificato – per mettere a punto nuovi processi produttivi basati sulle nuove tecnologie. Questo investimento non è visibile né nella contabilità aziendale né in quella nazionale perché i costi relativi al personale sono stati, nella maggior parte delle imprese, spesati e non capitalizzati. Hall, con l’uso di un modello, arriva anche a quantificare la dimensione di questo e-capital, riscontrando che esso è di 9 $ per ogni dollaro di investimento in ICT. È possibile che la borsa abbia sovrastimato questo tipo di capitale, sostiene, ma il dato importante è che l’ha rilevato e registrato.

Letto nella nostra prospettiva questo nuovo tipo di capitale è il segno del potenziale delle nuove tecnologie: potenziale che si manifesta solo se queste vengono inserite in profondità nei processi produttivi per aumentarne l’efficienza o per migliorare la capacità di soddisfare la clientela. Hall cita a questo riguardo un settore che a prima vista potrebbe sembrare allergico a trasformazioni di questo tipo: quello della distribuzione. Egli afferma: “l’e-capital sta trasformando settori a bassa tecnologia quale la distribuzione – Wal Mart è un caso esemplare di una moderna impresa basata sull’e-capital. Questa impresa è stata in grado di sfruttare la moderna tecnologia ottenendo enormi miglioramenti nella produttività e nella soddisfazione dei clienti”.[2]

La risposta al quesito posto all’inizio di questo paragrafo è dunque chiara: le imprese sorte per lo sviluppo e lo sfruttamento delle tecnologie ICT non sono fondate sul vuoto, ma su un potenziale autentico. Nessuno è in grado di determinarlo con precisione e chi presume di poterlo fare è un millantatore. È possibile che sia molto di meno di quanto è stato indicato con una certa disinvoltura da alcuni famosi centri di ricerca. Ma anche se fosse una frazione di quei valori, rimane pur sempre un potenziale rilevante, segno tangibile che su di esso c’è spazio per costruire attività economiche importanti.

Se il potenziale c’è ed è rilevante, perché questa brusca inversione degli umori e dei valori relativi alle imprese che operano in questo campo? Due sono stati gli errori: da parte delle imprese della nuova economia la sottovalutazione degli attriti nell’adozione delle nuove tecnologie; da parte degli intermediari finanziari e della borsa questa stessa sottovalutazione, con l’aggiunta di una sopravvalutazione del potenziale medesimo.

La sottovalutazione degli attriti nell’introduzione delle nuove tecnologie

Come ho accennato poco sopra, se c’è un errore che hanno commesso i pionieri delle nuove tecnologie è stato non tanto la sopravvalutazione del potenziale, che può anche esservi stata, ma piuttosto un errore di stima circa il tempo necessario per trasformare questo potenziale in flussi di domanda da parte della clientela e quindi in ricavi. Nelle scelte di gestione l’esistenza e la dimensione di un mercato potenziale entra in campo nel momento in cui si deve decidere se entrare in una nuova attività. Ma se il mercato potenziale, ancorché non stimato con precisione, è tale da consentire la presenza di più operatori, cessa di diventare una variabile strategica: ciò che conta è la previsione dei tempi di trasformazione del potenziale in domanda e quale strategia impostare per acquisire il più presto possibile un vantaggio competitivo difendibile. A questo fine diventano più rilevanti le previsioni sul tasso di penetrazione del potenziale, quindi sul verosimile flusso di domanda nel corso del tempo. Da queste previsioni e in funzione della specifica strategia prescelta nascono le previsioni dei flussi di ricavi specifici per l’azienda, sui quali occorre calibrare gli investimenti e i costi, ove si tenga fermo l’obiettivo del raggiungimento di un break-even point e di un payback period consono all’ottenimento di un rendimento adeguato.

L’avere intravisto nelle nuove tecnologie un grande potenziale ha ingannato molti operatori.

Li ha indotti a vedere la miniera d’oro e ad avventarsi su di essa senza riflettere sui tempi necessari per trasformare questo potenziale in domanda, senza ragionare sugli attriti che si sarebbero frapposti alle applicazioni, senza pensare alla lentezza che caratterizza il cambiamento dei costumi e delle abitudini. Si è pensato, per esempio, che fosse sufficiente l’impianto di una piattaforma per l’acquisto in rete per vedere accorrere i compratori a migliaia, scordandosi le infinite diverse motivazioni che regolano un processo di acquisto e scordandosi la complessità logistica della consegna a domicilio.

Lo stesso errore per l’e-learning: si è sottovalutata la complessità dei processi di apprendimento, sono state sottovalutate le difficoltà di una grande parte delle persone a usare i nuovi strumenti, si è dimenticato che il cambiamento delle abitudini è molto più lento del mero inserimento di una tecnologia. Infine, sono state trascurate oggettive difficoltà anche tecniche: per esempio, la lentezza nel predisporre reti a banda larga, essenziali per un potenziamento della formazione in rete, che è la versione più avanzata dell’e-learning.

In breve, sono stati sottovalutati gli elementi più genuinamente di management: l’esistenza di una tecnologia, per quanto promettente, non si è mai tradotta in un’attività economica redditizia sic et simpliciter. È l’execution– direbbe qualcuno – ciò che fa la differenza: la capacità di prevedere i mille e più osta-coli che si frappongono all’avvio di una nuova attività; la necessità di sperimentare e di rimanere flessibili, ma al contempo di misurare e pianificare i passi; l’esigenza di misurare le risorse necessarie; l’impossibilità di imporre i propri servizi, se il cliente non è maturo per accoglierli. È la sottovalutazione di tutti questi elementi che ha indotto molti nuovi imprenditori a sopravvalutare i flussi di ricavi e a calibrare male gli investimenti e le strutture di costo sostenibili.

A dire il vero, molti dei nuovi imprenditori hanno peccato anche di superbia: la loro superiore dimestichezza con le nuove tecnologie li ha inorgogliti al punto da pensare che per loro le discipline di management fossero superflue.

Qualcuno, oltretutto, era andato predicando che nella nuova economia, o nella economia di rete, le vecchie leggi economiche erano obsolete, per cui era molto meglio non dare retta alle logiche gestionali consuete. Alcuni concetti di management, di per sé validi se ben interpretati e applicati, sono poi serviti a mettere i nuovi imprenditori sulla cattiva strada. Per esempio, l’idea del first mover advantage – che attribuisce un vantaggio reputato incolmabile a chi per primo si posiziona nel mercato – non è sbagliata in sé, ma è stata da diversi operatori interpretata come indicazione a investire somme considerevoli in pubblicità, ancora prima di avere il prodotto o il servizio ben rodato, al fine di creare un’immediata consapevolezza e un marchio della nuova impresa, aggravando però il conto economico in una misura che in molti casi si è rivelata fallimentare. Un’altra idea che, male interpretata, ha indotto in errore è stata quella che ha fatto pensare agli imprenditori che la crescita del fatturato fosse un indicatore sufficiente di successo, dimenticando il rapporto ricavi-costi ed entrate-uscite. Il fatto che le banche di investimento attribuissero un grande peso al tasso di crescita nelle valutazioni ha concorso ad aggravare la situazione, data l’ansia di molti imprenditori di accedere alla borsa il più presto possibile.

In questa fretta a quotarsi che ha colto i nuovi imprenditori c’è un elemento positivo e uno negativo. Quello positive è il riconoscimento, in contrasto con la cultura consolidata, che se un’impresa vuole crescere velocemente non può fare affidamento esclusivamente sulle risorse dell’imprenditore e della sua famiglia e deve essere disponibile, se necessario, anche a perdere la maggioranza. L’elemento negativo è che alcune iniziative imprenditoriali sono sorte deliberatamente con l’obiettivo di capitalizzare il valore della mera idea imprenditoriale fin da subito, anche attraverso una quotazione in borsa prematura, sfruttando i ricchi sovrapprezzi che il mercato in quelle fasi di euforia era disponibile a riconoscere. Il caso Freedomland è emblematico a questo riguardo.

È l’insieme di questi errori ciò che ha dapprima frenato e poi letteralmente azzoppato la marcia trionfale della nuova economia. La fede acritica nella tecnologia e la sottovalutazione degli attriti e delle resistenze che tutti i cambiamenti sociali frappongono al nuovo hanno indotto a sopravvalutare i flussi di domanda che si sarebbero materializzati nel tempo, a impostare decisioni di investimento e strutture di costo squilibrate rispetto alla dinamica dei ricavi, a non vedere il volume di risorse finanziarie necessario prima che i flussi di cassa operativi trovassero il loro equilibrio.

Errori di gioventù, verrebbe da dire, considerando la giovane età della maggior parte di questi nuovi imprenditori: errori commessi per un eccesso di entusiasmo (verso il potere della tecnologia) non mitigato dal raziocinio e dall’esperienza. Ma errori che hanno lasciato un segno profondo sulle nuove imprese, sul mercato azionario, sulla marcia di introduzione delle nuove tecnologie.

La complicità degli scenaristi e del sistema finanziario

Che giovani imprenditori, per debito d’età, abbiano commesso errori di valutazione (e di presunzione) non dovrebbe meravigliare più di tanto. Ciò che dovrebbe fare riflettere è la complicità – solo colposa, ci auguriamo – di molti altri soggetti che per esperienza e per ruolo avrebbero dovuto fungere da contraltare.

Per primi gli scenaristi che hanno tracciato profili di espansione dimostratisi fuori da ogni realtà. Alcuni di questi sono grandi società di ricerca multinazionali, dotate di analisti di grande professionalità, di strutture poderose e di mezzi. Come hanno potuto errare in modo così clamoroso? Come hanno potuto sottovalutare gli attriti e le resistenze che qualsiasi nuova tecnologia, per quanto potente, incontra quando si deve misurare con la vischiosità dei comportamenti umani, con la necessità di modificare processi sociali e produttivi consolidati, con i mille altri cambiamenti che avrebbero dovuto fare seguito all’introduzione delle nuove tecnologie per renderle familiari e produttive? È difficile dare una risposta a questo interrogativo: se si tratti solo di un errore di valutazione o una strategia di “ottimismo” perseguita dalle imprese di ricerca in un’ottica di corto raggio per fare crescere la vendita dei propri rapporti, per alimentare il flusso di nuove quotazioni nel cui prospetto informative spesso erano incluse prospettive di scenario da loro predisposte. Ma i loro errori di valutazione pesano come macigni sulla dinamica degli avvenimenti per i comportamenti indotti dalla credibilità delle loro previsioni, per la complessità delle questioni oggetto delle loro valutazioni, che le rendeva difficilmente sindacabili da terzi non esperti, per l’impatto diffuso che avevano i loro rapporti. Enorme è stata la loro influenza sia sulle decisioni degli imprenditori sia su quelle degli investitori e forse anche delle banche di investimento che accompagnavano in borsa le nuove imprese.

Fra i soggetti che portano qualche responsabilità per la bolla speculativa, ma soprattutto per la depressione successiva, vi sono senz’altro anche questi ultimi intermediari finanziari. Sono loro che hanno accompagnato alla quotazione imprese spesso immature; sono loro che le hanno presentate agli investitori con quotazioni che ex post sembrano ancora più inverosimili; sono loro che hanno spesso emesso sentenze di buy o di strong buy nei confronti di titoli già in circolazione, talvolta alla vigilia di drastiche inversioni delle fortune dell’impresa (vedasi World-on-line). Anche in questo caso, come è stato possibile che il mercato azionario venisse alimentato con tanta disinvolta leggerezza da parte di istituzioni il cui ruolo dovrebbe essere quello di screening e di valutazione a tutela degli investitori?

Anche qui è difficile scoprire quali elementi abbiano concorso nel produrre questi comportamenti che ora appaiono chiaramente inadeguati. Verrebbe da dire che si sono saldate insieme una serie di circostanze: i rapporti troppo ottimistici da parte di istituti di ricerca ritenuti qualificati e professionali su temi con forti contenuti tecnici; la reazione entusiasta degli investitori alle prime offerte; la concorrenza per l’acquisizione dei mandati di quotazione, spesso giocata sulla base di chi prometteva le migliori valutazioni in sede di collocamento; i modelli di valutazione delle imprese fatti più per giustificare gli alti valori formatisi su un mercato effervescente che per riportarli ai loro livelli più giusti.

A ben guardare – ed ex post è più facile farlo – coloro che avrebbero dovuto dare razionalità ai mercati ne sono stati travolti. Sembra che si siano detti: se gli investitori sono disposti a pagare le azioni 150 volte gli utili, questo è il prezzo e le valutazioni devono giustificarlo. Ma, così facendo, gli intermediari sono venuti meno al loro ruolo istituzionale, alla loro indispensabile funzione dialettica di valutazione e di screening per garantire la migliore allocazione del capitale. Le conseguenze sono state una bolla speculativa, perdite e delusione per molti risparmiatori, prosciugamento dell’offerta di capitale di rischio. L’effetto è stato molto più grave in quei paesi, come il nostro, dove il mercato azionario ha alle spalle anche una lunga storia di tosature ai danni degli azionisti di minoranza, come ben illustra un recente lavoro.[3] Invece di inseguire l’onda della folla, gli intermediari avrebbero fatto bene a governarla, come ha cercato di fare, peraltro senza molto successo, il governatore della Federal Reserve System americana Alan Greenspan che a più riprese aveva esplicitamente dichiarato che il mercato sopravvalutava il valore delle azioni. A dire il vero, alcuni istituti si sono opposti alla tendenza generale, rinunciando a consistenti quote di mercato nelle quotazioni, ma nessuno sembra apprezzarli per questa loro rinuncia: la memoria degli investitori sembra essere corta, a dispetto di quanto si ritiene comunemente.

In questo contesto di errori collettivi anche molte società di venture capital e di private equity sono venute meno alle loro funzioni. Molte di esse hanno cavalcato l’onda della nuova economia aggregando fondi in tutta fretta e appoggiando imprese più con un criterio assicurativo che da intermediari finanziari: bastava loro riuscire a collocare in borsa a prezzi gonfiati poche partecipazioni per compensare tanti altri investimenti maldestri. In un mercato azionario in forte rialzo, la rapidità del disinvestimento attraverso la cessione o la quotazione è diventata la regola per assicurare tassi di ritorno elevati sui fondi. Ma così facendo la loro funzione di “allevamento”, di consulenza, di test per il successivo passaggio delle azioni sul mercato è venuta meno. Sono approdate in borsa aziende non ancora rodate, lontane dal break-even point, con sistemi di governo approssimativi e quindi ad alto rischio: con rischio superiore a quello che un mercato di massa è in grado di reggere.

Il crollo del prezzo delle azioni fa scontare a questi intermediari le leggerezze del passato. Ora si trovano i portafogli gonfi di partecipazioni, molte a corto di risorse finanziarie, con lo sbocco sul mercato chiuso e con i tassi di rendimento in caduta non solo per l’andamento delle imprese, ma anche per il prolungamento dei tempi di stazionamento nel portafoglio. Il risultato è che non riescono a raccogliere ulteriori risorse, faticano oltremodo a fare affluire fondi alle imprese partecipate per il completamento delle loro strategie, e qualche volta sono costretti a dismissioni forzate.

Purtroppo tutto ciò ricade sulle imprese sorte per promuovere e installare le nuove tecnologie e su quelle nate per sfruttarle con nuovi modelli gestionali. Con l’effetto finale di frenare un processo di innovazione che ha la possibilità di migliorare sensibilmente il funzionamento delle imprese, di aumentare e potenziare gli strumenti di comunicazione fra le persone, di espandere le possibilità di lavoro e di scambio.

Purtroppo i fenomeni economici sono spesso caratterizzati da meccanismi di autorafforzamento: quelli positivi innescano circoli virtuosi che si ampliano e si potenziano ben oltre il punto di equilibrio; poi basta un nulla perché si interrompano, invertano la direzione di marcia, ritornino su se stessi con una spirale viziosa che conduce anch’essa oltre il punto di equilibrio, ma nel verso opposto. Ora siamo nel mezzo di queste spire di scetticismo, se non addirittura di nero pessimismo.

Come riprendere il cammino verso l’e-business

Le vicende di questi ultimi anni non sono un caso isolato. Altre volte, nella storia, all’apparire di nuove rivoluzionarie tecnologie, come la scoperta dell’energia elettrica, si sono innescati cicli simili.

L’ottimismo esasperato e acritico della prima fase ha creato eroi e nuovi ricchi, così come ha lasciato sul terreno sconfitti e feriti. Il boom di borsa ha trascinato nell’avventura molti risparmiatori alla ricerca della ricchezza facile. Ha probabilmente svolto anche un’energica sensibilizzazione sull’importanza delle nuove tecnologie, qualcosa che avrebbe richiesto altrimenti tempi molto più lunghi. Ma ha reso gli investitori molto più guardinghi, se non li ha distolti del tutto dall’investimento azionario, almeno per qualche tempo. I fondi che, anche grazie alle performance del mercato azionario, erano affluiti in abbondanza verso le imprese della nuova economia, accelerandone i passi, ora si sono diradati e frenano gli sviluppi futuri.

Per le imprese impegnate in questi campi è iniziata una fase nuova: quella che richiede un lavoro di lunga lena per convincere della validità della propria offerta, non più fondato sulla fede propria, ma sulla dimostrazione concreta e tangibile del valore aggiunto che le nuove tecnologie sono in grado di apportare alle imprese, alle istituzioni e alle persone. L’analisi deve farsi più attenta. Non basta che le imprese protagoniste della rivoluzione siano convinte del potenziale delle nuove tecnologie. Devono interrogarsi sulle mille e una ragioni per le quali, pur con tutto questo potenziale, i clienti faticano ad adottarle. Devono esaminare i fattori di inerzia, la resistenza delle persone, i vincoli organizzativi, le difficoltà finanziarie che possono frapporsi e frenare il formarsi di una domanda che invece si era assunta come certa e immediata. Le campagne di marketing devono farsi più penetranti e più sofisticate, perché devono partire non dalla validità dei prodotti, ma dai motivi per i quali i clienti faticano ad accorgersene e a incorporarli. Non essendo più possibile attrarre fondi in massa, è rischioso restare in uno stato di cash flow negativo prolungato: occorre dosare meglio gli investimenti e tarare meglio i costi sul flusso atteso dei ricavi. Questi non possono più essere sognati e nemmeno essere assunti con leggerezza, perché costituiscono il perno attorno al quale snodare l’intera gestione. Ciò non significa che non si debbano fare investimenti. Ma vanno dimensionati con più cura rispetto alle risorse disponibili e a quelle che si possono raccogliere. Campagne di comunicazione massicce per affermare il marchio e creare immediata visibilità diventano rischiose e pochi investitori sono disposti ad appoggiarle, se non ci sono segni forti e tangibili di netta superiorità del prodotto o del servizio traducibile in ravvicinati flussi di ricavi. Per la maggioranza delle imprese è giocoforza ricorrere, per la creazione del marchio, a sistemi meno capital intensive: la reputazione guadagnata sul campo attraverso il buon servizio al cliente, la diffusione del nome per passaparola, la visibilità conquistata per l’eccellenza del prodotto o del servizio. Anche i progetti di investimento in hardware e software vanno impostati, ove possibile, su una logica di scalabilità, per evitare appesantimenti finanziari e carichi di ammortamenti che affondino i conti economici.

Senza rinunciare agli obiettivi ambiziosi, occorre molta più oculatezza nel controllo dei costi. I nuovi imprenditori devono sapere che fondare un’impresa è come fare rotolare un grande macigno: ci vuole uno sforzo immenso per produrre i primi movimenti, e una parte di questo sforzo grava inevitabilmente sulle spalle loro e dei primi collaboratori senza potere essere contabilizzato.

In sintesi, è necessario riprendere la marcia verso l’e-business, con la stessa fede nelle sue potenzialità, ma sapendo che i frutti non sono dietro l’angolo. Affinché la marcia possa proseguire occorre che gli intermediari finanziari, passata la fase dell’euforia e dell’appoggio disinvolto, e passata anche la fase del panico, impostino su basi più strutturate il loro intervento. Il primo passo è che si dotino di personale capace di distinguere le iniziative valide da quelle che non lo sono: quindi, personale che abbia conoscenze delle tecnologie e capacità di leggere la validità di una strategia. È la funzione di screening che dovrebbe contrassegnare il loro contributo. Occorre poi che trovino il coraggio di appoggiare le iniziative che lo meritano, anche se il mercato azionario per il momento non sembra aprire spiragli di way out ravvicinati. Accanto ai venture capitale ai private equity funds, forse è tempo che sorgano volture capital funds, data la necessità di riprendere alcune delle imprese che hanno un’idea valida ma che sono entrate in stato di crisi per eccesso di ambizioni e per l’arresto dei finanziamenti, con operazioni di ristrutturazione industriale e finanziaria.

Di fronte agli avvenimenti gravi che angustiano il mondo, una ripresa coraggiosa del cammino di sviluppo non cancella le nuove paure, ma almeno aiuta a guardare al futuro con più fiducia.

1

Robert E. Hall, E-capital: The Link between the Stock Market and the Labor Market in the 1990s,ottobre 2000, Paper del National Bureau of Economic Research.

2

Ibidem, p. 5.

3

Giovanni Siciliano (2001), Cento anni di borsa in Italia, Il Mulino, Bologna.