E&M

2001/5

Gianni Canova Severino Salvemini

L’imprenditore, l’impiegato e il deejay

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Se fossi in te

Regia: Giulio Manfredonia

Interpreti: Emilio Solfrizzi, Gioele Dix, Fabio De Luigi, Paola Cortellesi

Italia, 2001

Tre personaggi – un deejay molto creativo, un miliardario molto metodico e un impiegato parecchio frustrato – si incontrano per caso su una spiaggia, in una notte stellata, e si confidano i loro segreti. Come nell’antica satira di Orazio, ciascuno pensa che la vita degli altri due sia migliore della propria, e sente che non gli dispiacerebbe provare a mettersi nei panni dell’altro, scambiandosi ruoli e professioni. Magicamente avviene il prodigio, e le vite si scambiano: l’impiegato con vocazione comica diventa deejay, il deejay entra nei panni dell’imprenditore e l’imprenditore si ritrova nel ruolo dell’impiegato con famiglia a carico.

Se fossi in te, esordio di Giulio Manfredonia alla regia cinematografica, sembra prendere spunto dal vecchio adagio secondo cui l’erba del vicino è sempre più verde: dopo aver schizzato con mano felice alcune identità sociali e professionali tipiche del nostro tempo, il film – che occhieggia a certe commedie generazionali di Gabriele Salvatores e, prima ancora, alla capacità di rappresentazione sociale di un anziano maestro del nostro cinema come Luigi Comencini – si diverte a mescolare le carte e a scompaginare i ruoli, con un tocco surreale più vicino ai paradossi di Pirandello che agli schemi ormai logori e consunti di tanta commedia nostrana. Il tono è leggero, lo sguardo ironicamente preciso, il ritmo scanzonato e divertito. E tuttavia, tra le righe, proprio la trovata del cambio di ruoli e di destini (un po’ come avveniva in Sliding Doors di Peter Howitt) fa sì che il film finisca per offrirsi come un terreno di osservazione privilegiato per sondare alcuni temi al centro del dibattito economico-aziendale: in fondo, i tre personaggi di Se fossi in te si trovano a dover gestire un tipico caso di innovazione professionale e sono costretti dalla storia che li vede protagonisti a misurarsi con il dilemma flessibilità/rigidità. Con quali risultati? E con che indicazioni circa quello che sta avvenendo nell’organizzazione aziendale?

Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Io trovo interessante soprattutto la figura dell’imprenditore interpretato da Gioele Dix. Rispetto ad altri personaggi imprenditoriali messi in scena dal cinema italiano, questo mi sembra meno ideologico, più realistico. È molto suggestivo il modo in cui il regista racconta i suoi mali, le sue ulcere, i malanni fisici con cui somatizza lo stress. Perfino quando cambia ruolo, non si libera di nessuno dei suoi problemi: quasi a dire che siamo talmente schiavi dei nostri malesseri e del nostro stress manageriale da portarceli dietro in qualunque situazione…

G.C. Questo vale, però, anche per gli altri due personaggi: quando si scambiano le vite, tutti continuano a essere quello che erano in precedenza. Stessi tic, stesse ossessioni, stesse qualità. Tanto che mi pare che il film possa essere letto come una riproposizione intelligentemente ironica di un antico problema: è il ruolo sociale e professionale che ognuno di noi riveste a condizionare il carattere o è il carattere a definire il modo in cui ciascuno di noi assume e interpreta un certo ruolo?

S.S. Si potrebbe porre la questione anche in un altro modo: siamo talmente conformati al tipo di professione che abbiamo scelto, o che la vita ci ha fatto assumere, che il sogno di cambiare vita si rivela alla fine illusorio. Qualunque cosa tu faccia, ritorni ad agire sempre nello stesso modo.

G.C. … tanto che, per esempio, l’imprenditore trasformato in impiegato applica alla sua nuova famiglia le regole con cui prima dirigeva la sua azienda: distribuisce a moglie e figli una sorta di contratto con tanto di regole da rispettare, pretende di pianificare tutto e obbliga addirittura i familiari a compilare un questionario zeppo di domande sulla loro “soddisfazione” circa la gestione dell’“azienda-famiglia”.

S.S.… mentre il deejay fa l’imprenditore con lo stesso “stile” fatto di improvvisazioni “creative” con cui svolgeva la sua precedente attività, rischiando in tal modo di mandare in bancarotta l’azienda.

G.C. Il messaggio che se ne ricava non mi sembra molto positivo: pare quasi la presa d’atto di una presunta impossibilità di cambiare. È come se il film ci dicesse che nessuna innovazione è davvero possibile e che tutto è già deciso a priori dalla sorte, o dal destino.

S.S. Non direi. Anche se alla fine tutti e tre i personaggi ritornano in qualche modo allo status quo ante, e si rimettono perfino con le donne che amavano prima di cambiar vita, il finale del film dice chiaramente che il destino non esiste e che – come afferma uno dei tre personaggi – “esistono solo le cose che accadono e quelle che fai succedere tu”. Quasi a sottolineare che c’è sempre una responsabilità individuale nelle scelte professionali ed esistenziali di ognuno di noi, anche se l’abitudine a impostare le nostre relazioni in un certo modo può condizionare – per inerzia o per pigrizia – anche il modo in cui affrontiamo le novità. L’imprenditore, che all’inizio se ne esce con frasi come “Per vincere bisogna essere spietati”, continua a essere autoritario, cinico e razionale anche nel nuovo contesto in cui si trova a vivere, non per colpa del destino, ma perché cambiare metodo gli costerebbe troppa fatica. Questo è il vero ostacolo all’innovazione: l’inerzia, la tendenza a riapplicare sempre gli stessi schemi.

G.C. Mi ha colpito molto la figura della segretaria che riconosce apertamente di avere la psicologia di un’attinia: un parassita che ha bisogno del suo paguro per riuscire a vivere. Mi chiedo quanto sia realistica, e quanto in azienda sia dato di incontrare figure simili…

S.S. Direi che è una figura assolutamente realistica. Soprattutto nelle aziende a conduzione familiare non è raro trovare donne che hanno dedicato tutta la vita al “capo”, in un rapporto di dipendenza che è fatto di stima, venerazione, innamoramento, sublimazione. La segretaria di Se fossi in te è la più ostile al cambiamento del “capo” perché, se lo accettasse, dovrebbe mettere in discussione anche il proprio ruolo, e imporre anche a se stessa una radicale innovazione. Tanto radicale da rischiare di compromettere il suo fragile equilibrio esistenziale.

G.C. L’aspetto del film che io trovo più interessante sta comunque nel fatto che, in fondo, la narrazione è costruita in modo tale da far fare anche allo spettatore gli sforzi di adattamento richiesti ai personaggi. Quando i tre si scambiano le vite, noi continuiamo a vederli come erano prima, interpretati dagli stessi attori. Mentre gli altri personaggi del film vedono solo la loro nuova identità, noi spettatori dobbiamo continuamente sforzarci di vedere la nuova identità sotto la vecchia maschera. Dobbiamo, in un certo senso, fare anche noi un’esperienza di innovazione percettiva…

S.S. Siamo chiamati a un continuo lavoro di adattamento del vecchio personaggio al nuovo ruolo che sta interpretando. In ogni istante dobbiamo fare lo sforzo di percepire simultaneamente sia ciò che il personaggio era prima del cambiamento sia quello che è diventato dopo la trasformazione. In questo senso, il film di Manfredonia è davvero stimolante: non si limita a narrativizzare un’esperienza di innovazione o a teorizzare pregi e difetti della flessibilità, ma ci obbliga a essere flessibili, a fare in prima persona, sul piano della fruizione, l’esperienza di cui ci parla. In questo senso, è quasi un film-palestra: vederlo può servire, tra l’altro, come check-up del nostro grado di flessibilità mentale.