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2001/5

Claudio Dematté

Il caso Pirelli-Telecom: una riprova del nodo scorsoio del capitalismo italiano

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All’indomani della presa di controllo di Telecom da parte di Pirelli la stampa di matrice anglosassone si è scatenata in una serie di commenti che si sono susseguiti per settimane, uno più duro dell’altro, sulla struttura dell’operazione, ma anche o soprattutto sul modello di capitalismo italiano, giudicato incompatibile con il buon funzionamento del mercato azionario. Ad aumentare la delusione ha concorso anche il fatto che l’operazione fosse stata realizzata da una persona – Tronchetti Provera – fino a quel punto considerata la punta di diamante di un nuovo modo di fare impresa, forte sul piano imprenditoriale e gestionale ma anche in linea con le logiche dei mercati finanziari. L’avesse fatto uno dei vecchi capitani d’impresa cresciuti nella cultura del dopoguerra, si sarebbe detto che era il colpo di coda del passato, duro a morire: ma ad agire è stato quello che gli analisti e i media anglosassoni avevano fino ad allora considerato l’avanguardia di un modello nuovo. Ne è scaturito un giudizio pesantemente negativo sull’intero paese, apparentemente senza prove d’appello: in Italia, si è detto e scritto, non c’è proprio speranza che qualcosa cambi.

Tale giudizio si è poi tradotto in fatti concreti da parte degli investitori istituzionali anglosassoni, con una grande ondata di vendite sui titoli Pirelli e Olivetti fino a ridurne il valore in modo consistente.

Quali sono le ragioni per le quali gli analisti e i commentatori anglosassoni hanno stilato un giudizio così severo? Quali aspetti dell’operazione Pirelli-Telecom sono stati stigmatizzati e quali sono stati reputati anomali per un mercato azionario efficiente?

Nei commenti della stampa specializzata le critiche più severe si sono concentrate sul fatto che una società quotata ha acquistato a prezzi nettamente superiori a quelli di mercato una quota di minoranza di un’altra società, pure quotata; quota dimensionata quanto basta per conquistare il controllo della stessa e per imporre il proprio management, ma tarata al di sotto della soglia (il 30%) che avrebbe costretto a una OPA (offerta pubblica di acquisto) verso il resto degli azionisti allo stesso prezzo pagato al gruppo degli azionisti privilegiati.

Un’analisi più attenta della stampa specializzata e soprattutto un’osservazione dei comportamenti effettivi sul mercato rivelano che le motivazioni sottostanti al severo giudizio sono più articolate, e alcune divergenti fra loro. Ciò coincide con il fatto che sul piano logico i soggetti coinvolti in un’operazione siffatta sono diversi e con posizioni diverse: gli azionisti di controllo della società acquirente; quelli non di controllo sempre dell’acquirente o delle società a monte; gli azionisti non di controllo della società acquisita e delle società a valle; i tutori del buon funzionamento del mercato azionario; i difensori dell’interesse nazionale. Ognuno di questi ha interessi diversi dei quali si fa portavoce la stampa. Un’analisi del problema sotto queste diverse prospettive consente di illuminare meglio la provenienza e la reale portata delle critiche avanzate.

La prospettiva degli azionisti di controllo della società acquirente

Secondo costoro l’operazione, che rispetta i dettami della legge, è conveniente; per loro, ovviamente, altrimenti non l’avrebbero eseguita, ma lo è anche per tutti gli altri azionisti sia della società acquirente sia della società acquisita e delle sue controllate. La convenienza si fonda su un’analisi del potenziale aumento di valore che l’acquirente ritiene di riuscire ad apportare con la propria strategia industriale e con il proprio modello di gestione; aumento di valore che secondo tali valutazioni viene reputato più che sufficiente a compensare il maggior prezzo pagato per le azioni di controllo rispetto a quello espresso dal mercato.

L’acquirente è convinto che, grazie a ciò, ne trarranno beneficio gli azionisti non di controllo del proprio gruppo, ma anche quelli della catena della società acquisita che vedranno valorizzate le proprie azioni dal miglior apporto gestionale del nuovo soggetto di controllo.

Per quanto riguarda le critiche sull’avere acquisito il controllo comperando una quota minoritaria senza estendere l’offerta agli altri azionisti con un’OPA, l’acquirente ha obiettato che la legge lo consente – fatto certo – ma soprattutto che nel sistema finanziario italiano un’acquisizione con OPA estesa anche alle società a valle di Olivetti sarebbe stata irrealizzabile, mancando gli investitori istituzionali capaci di convogliare sul nuovo candidato al controllo i mezzi necessari per un investimento siffatto, superiore ai 100 000 miliardi di lire.

L’acquirente ha omesso di dire che quanto sostenuto era particolarmente vero proprio per il modo nel quale era stato previamente strutturato il controllo del gruppo Telecom, con un sistema di società a cascata (le “scatole cinesi”) che coagulava in mano a un gruppo di soci detentori di una quota di minoranza del capitale dell’intero gruppo il potere di controllo. In virtù di questa struttura “anomala” l’acquisizione del controllo attraverso acquisti di azioni sul mercato risultava oltremodo difficile, se non addirittura impossibile. Da ciò deriva l’alto premio di maggioranza preteso dagli azionisti di controllo, che non poteva essere esteso a tutti gli azionisti senza minare non solo la fattibilità finanziaria, ma anche quella economica del progetto.

Da questo punto di vista l’OPA, senza il previo assenso degli azionisti che detenevano il controllo sia pure con una quota di minoranza del capitale integrato, non avrebbe prodotto il risultato desiderato di trasferire il controllo; la realizzazione dell’OPA successivamente all’accordo con gli azionisti di controllo, a causa del rilevante premio da questi preteso, avrebbe reso l’operazione non conveniente sul piano economico e finanziario; la legge consente di non estendere l’OPA se la quota acquistata è sotto la soglia del 30%. Quindi, non esisteva alternativa che quella perseguita.

La prospettiva degli azionisti non di controllo della società acquirente (e quelli di eventuali ...

Questi soggetti potrebbero sollevare due rilievi. Il primo concernente la validità dell’operazione. Nel caso specifico potrebbero esprimere fiducia (o sfiducia) sul fatto che gli azionisti di controllo hanno deciso di fare un’acquisizione di netta e forte diversificazione, per di più in un settore oggetto di forti preoccupazioni dovute all’intensificarsi della concorrenza e agli enormi investimenti, sia effettuati sia ancora in programma. Essi potrebbero esprimere una valutazione anche sulla fattibilità e sulla gestibilità del progetto industriale che gli azionisti di controllo si apprestano a realizzare.

Questa valutazione nel caso Pirelli-Telecom non è stata possibile per l’impedimento a esplicitare tale progetto prima dell’assenso all’operazione delle autorità Antitrust e della Commissione europea. Il secondo rilievo potrebbe vertere sul livello del prezzo pagato, che potrebbe essere giudicato eccessivo rispetto al recupero di valore necessario per renderlo economico. Nel caso che i giudizi sui due fronti siano negativi, questi soggetti li manifesteranno con vendite dei titoli della società acquirente (e di quelle a monte).

Con riguardo all’operazione Pirelli-Telecom sulla stampa è affiorata qualche perplessità anche da questo punto di vista, ma il giudizio è sembrato incerto, forse alla luce della comprovata capacità mostrata in passato da Tronchetti Provera nel ristrutturare e rilanciare Pirelli. I comportamenti sul mercato sono stati invece perentori, con un’ondata di vendite sui titoli Pirelli che ne ha eroso più di un terzo del valore nel giro di pochi giorni, ben oltre la perdita subita dal mercato per la tendenza ribassista generale. In questa ondata di vendite è difficile distinguere quelle motivate dalla convinzione che l’operazione a quel prezzo non possa portare valore agli azionisti da quelle realizzate dagli investitori istituzionali per le ragioni che vedremo al punto successivo, come “punizione” per non avere Pirelli offerto l’OPA su Olivetti e sulle società a valle.

È importante rilevare che l’impatto dell’operazione, se analizzato da questa prospettiva, si determina secondo i principi e le logiche del mercato efficiente che soppesa i vantaggi che l’operazione può produrre e li traduce in acquisti o vendite dei titoli interessati. A priori è difficile stabilire se ha ragione l’azionista di controllo che, in base alle proprie valutazioni, ha deciso di realizzare l’operazione, oppure gli azionisti non di controllo che valutano l’operazione e la traducono in decisioni di acquisto o vendita di titoli. Solo i risultati futuri dirimeranno la questione e le critiche verso l’operato del management (che in questo caso è l’azionista di controllo) sono legittime, anche se poi dovessero dimostrarsi infondate, e si iscrivono in una logica di mercato efficiente.

La prospettiva degli azionisti non di controllo della società acquisita (Olivetti) e di quelle a...

Per costoro il problema è diverso. Essi assistono al passaggio di un pacchetto di azioni da un gruppo di controllo a un altro, che presume di fare meglio, a un prezzo che è nettamente superiore a quello che loro, vendendo sul mercato, potrebbero realizzare. Si trovano di fronte alla circostanza che gli azionisti di controllo venditori – che hanno fatto meno bene di quanto altri pensano di riuscire a fare – vengono premiati con un ricco capital gain, mentre coloro che ad essi si erano affidati ne hanno solo le beffe. Per di più, faticano a darsi ragione del perché questo passaggio di controllo avvenga attraverso trattativa privata con alcuni azionisti privilegiati e non attraverso un meccanismo trasparente di mercato che offra pari opportunità a tutti gli azionisti. A peggiorare la situazione c’è poi il fatto che, per una serie di impalcature giuridiche e societarie (sistema di società a cascata, patti sindacati, incroci azionari e altro), il controllo, e quindi il suo passaggio, è realizzabile con l’acquisizione di quote limitate e di minoranza, non con il 51%. Questa circostanza fa sì che i prezzi pagati agli azionisti di controllo cedenti possono essere, e di solito sono, nettamente superiori a quelli che si formerebbero se la conquista del controllo dovesse richiedere l’acquisto di un numero superiore di azioni. Ciò, da un lato, amplifica il senso di ingiustizia e, dall’altro, rende l’estensione dell’OPA che dovrebbe offrire gli stessi prezzi a tutti talmente costosa da annullare la convenienza dell’acquisizione.

Se si osserva il problema da questa prospettiva, ci si rende conto che le critiche riguardano il formarsi di questa asimmetria fra azionisti che secondo la legge dovrebbero essere tutti uguali. Tale asimmetria è giudicata iniqua sul piano etico, ma anche contraria all’interesse generale perché ostacola il formarsi di un efficiente mercato azionario. Su questo punto si concentrano le critiche più dure, quelle di tipo “ideologico”, sulla presunta arretratezza del modello italiano. L’anomalia consisterebbe nell’ostinazione con la quale gli imprenditori italiani cercano di preservare il controllo a tutti i costi, avvalendosi di tutti i mezzi possibili, dall’indebitamento all’eccesso, all’uso di un insieme di congegni societari che consentono di conservare (o di conquistare) il controllo pur apportando essi stessi dosi ridotte di mezzi propri, sfuggendo alla regola della maggioranza al 51%. Questi assetti societari piramidali (con annessi patti sindacati e altro), una volta creati per conservare il controllo consentono poi di trasferirlo senza coinvolgere gli altri azionisti che, pur detenendo la maggioranza delle azioni, sono inermi. Si tratta di un’anomalia strutturale sulle cui origini e conseguenze si dirà più avanti. Lo stesso Tronchetti Provera, dopo qualche settimana, rispondendo alle persistenti critiche sulle modalità dell’operazione ha ammesso: “Si, è vero, la struttura precedente (di controllo) era anomala”, oltretutto “produce un forte debito che finiscono per pagare sempre gli azionisti”, aggiungendo poi, a ulteriore chiarimento: “Noi non abbiamo scatole cinesi”. E per calmare il mercato ha lasciato trapelare l’intenzione di “accorciare la catena di controllo”.[1] Rimane però il dato di fatto che, con l’acquisizione, la catena di controllo e la struttura piramidale si sono allungate e la quota di possesso integrato – cioè di mezzi propri del soggetto controllante rispetto ai mezzi propri totali – è scesa dall’11,3% dell’assetto Bell al 5,9% dell’assetto Pirelli.[2] Ed è questo che il mercato non ha apprezzato.

Va detto, per completezza di analisi, che i giudizi che maturano in capo a questi soggetti e alla stampa che ne tutela gli interessi non sono tutti e sempre improntati a considerazioni di interesse generale, quali la necessità di garantire l’uguaglianza degli azionisti ai fini di un’efficiente mercato azionario, come si è finora argomentato. Nei momenti di possibile passaggio di controllo di una società si formano movimenti speculativi, con operatori che acquistano i titoli solo ed esclusivamente nell’aspettativa di guadagnare grazie a un’OPA.

Se questa non si realizza, costoro fanno sentire la propria voce critica e spesso sono i più rumorosi e capaci di mobilitare i media. Ma si trovano in posizione ben diversa dagli investitori che avevano acquistato i titoli confidando nella capacità del gruppo di controllo di creare valore e che assistono al passaggio del comando con vantaggio di chi avrebbe dovuto tutelare anche i loro interessi. Distinguere le critiche degli speculatori delusi da quelle degli investitori traditi non è facile, e ciò complica l’analisi e quindi il giudizio finale.

La prospettiva dei tutori del buon funzionamento del mercato

Gli elementi illustrati nel punto precedente consentono di fissare anche la prospettiva di questa categoria di operatori. Se l’obiettivo è indirizzare il risparmio non solo su titoli di debito ma anche su impieghi azionari, è fondamentale che gli azionisti che non hanno il controllo siano tutelati dal fatto che chi guida la società possa estrarre rendimenti “privati” a loro danno.

La struttura di controllo piramidale che consente il controllo di un gruppo con una dose minoritaria dei mezzi propri totali apre varchi di possibile divergenza di interessi fra chi controlla, che tende ad avere azioni soprattutto delle società a monte, e gli altri azionisti, che invece tendono ad avere azioni nelle società a valle. In passato, troppo spesso questa divergenza di interessi è stata risolta a favore degli azionisti di controllo e a danno di quelli di minoranza, con storiche rapine perpetrate in totale impunità. Questa storia di malversazioni pesa sul vissuto degli investitori che hanno una ormai radicata percezione di una tutela inadeguata.

I tutori del mercato si fanno carico di tali problemi e avversano sul piano logico queste forme di controllo che creano asimmetria fra gli azionisti. La legge, tuttavia, fornisce loro strumenti di intervento limitati. Pertanto, vivono la situazione come uno stato di necessità, non ottimale, da correggere, nei limiti che le norme fissano.

A dire il vero, la struttura normativa dei paesi anglosassoni non è molto dissimile dalla nostra nella sua versione attuale, dopo gli adeguamenti degli ultimi anni. Ma le strutture di controllo piramidale, anche se consentite dalle norme, lì non attecchiscono perché sono punite dal mercato, in particolare dagli investitori istituzionali molto più forti e molto più attivi. Va ricordato che forme di controllo attraverso la detenzione di quote molto limitate di capitale sono possibili anche grazie alla passività della maggior parte degli azionisti che, non presentandosi alle assemblee a esprimere il loro voto, rendono possibile il raggiungimento della maggioranza con un numero esiguo di voti.

A giudicare dalle reazioni seguite al caso Pirelli-Telecom, si direbbe che un processo di aggiustamento extra legem simile a quello dei paesi anglosassoni si sia messo in moto e si stia estendendo anche al nostro paese.

La prospettiva di chi tutela gli interessi nazionali

L’operazione Pirelli-Telecom è stata “benedetta” dal governo, organo che non avrebbe diritti di intervento, trattandosi di società privata, salvo una golden share con diritti speciali spuntata dall’atteggiamento negativo delle autorità della Comunità Europea. Eppure il governo non è stato insensibile a quanto stava accadendo per ragioni di “interesse nazionale”, motivazione questa che conserva una certa forza, anche se potrebbe apparire superata nel momento in cui si sta completando la costruzione europea con il varo della moneta unica. Il fatto che il centro di comando di un’impresa dominante in un settore strategico come quello delle telecomunicazioni sia in mano a un operatore italiano o estero non è considerato indifferente. Sulla base di ciò – si presume – il governo ha espresso un giudizio positivo, avallando l’operazione nella configurazione che essa aveva assunto. Poiché esso è anche responsabile ultimo del buon funzionamento del mercato azionario, ci sono solo due possibilità: o non aveva previsto le reazioni negative degli investitori istituzionali, specialmente esteri, oppure ha preso la sua posizione privilegiando un aspetto – l’interesse nazionale – sull’altro. Verrebbe da dire: fra i due mali ha scelto quello (a suo parere) minore.

Questa constatazione ci consente di completare l’analisi passando dal caso specifico e particolare Pirelli-Telecom al problema generale sottostante: la necessità, per il nostro sistema economico, di uscire da un modello che non favorisce l’aggregazione in seno alle imprese di dosi consistenti di capitale di rischio e non promuove il corrispondente sviluppo di un azionariato di massa.

Il problema generale

Avendo esaminato il caso Pirelli-Telecom dai vari punti di vista emerge chiaro che il problema è molto più complesso di quanto appaia a prima vista. Gli interessi sono diversi e non tutti convergenti, e le soluzioni sono tutte necessariamente compromissorie. Ha ragione Tronchetti Provera quando afferma che nel nostro sistema non ci sono investitori istituzionali così forti da consentire un’operazione con OPA da oltre 100 000 miliardi di lire.

Ha ragione anche quando accenna (senza peraltro esplicitarlo più di tanto) che – data la struttura proprietaria precedente – chiunque avesse voluto acquisire il controllo di Telecom sarebbe dovuto passare attraverso il precedente gruppo di controllo il quale, grazie alla posizione costituita, pretendeva un prezzo non estensibile a tutti gli altri azionisti senza minare la convenienza dell’operazione. Ha ragione il governo ad avallare un’operazione che conserva in mani italiane un centro di comando così importante. Ma rimane il problema di fondo: questo modello di funzionamento crea una disparità fra azionisti che è di ostacolo allo sviluppo di un mercato azionario efficiente, un pesante disincentivo alla formazione di un forte azionariato di massa e un deterrente per gli investitori istituzionali esteri all’investimento in Italia.

Uno di costoro mi confessava recentemente: “Io non intervengo in mercati dove qualcuno gioca con un jolly nella manica”. Questa affermazione si salda con il celebre detto di un nostro famoso banchiere d’affari:

“Le azioni si pesano, non si contano”. Questo è un problema vero e serio, come ho già avuto modo di segnalare in altri editoriali. È un problema vero perché molte nostre imprese hanno bisogno – per affrontare l’ampliamento del teatro competitivo – di darsi dimensioni maggiori con acquisizioni e operazioni straordinarie non finanziabili con il flusso di cassa corrente e nemmeno con i soli mezzi propri degli attuali azionisti di controllo. Vi sono, inoltre, ancora centinaia di imprese (per esempio tutte le municipalizzate) che devono essere privatizzate e che devono trovare un assetto proprietario in cui, necessariamente, occorre combinare il capitale di rischio di un gruppo di controllo con quello di investitori puri. Vi è, infine, la tanto conclamata esigenza di dare alle imprese una maggiore flessibilità per fronteggiare la concorrenza più intensa e la forte variabilità delle condizioni di mercato. Per gli imprenditori questa maggiore flessibilità riguarda le condizioni di impiego del fattore lavoro. Ma essi non possono trascurare che flessibilità vuol anche dire una struttura finanziaria meno stringente, com’è quella composta prevalentemente di debiti.

Quando i tempi si fanno duri è essenziale avere dosi maggiori di capitale di rischio che consentano di reggere all’imprevedibile andamento dei flussi di cassa operativi. Se queste sono le esigenze di fondo – ed è difficile negarle – è necessario che si affermino modelli di gestione che rispettano il principio che tutti gli azionisti sono uguali e che fra questi tutelino coloro che non hanno il controllo della gestione. Sembra abbastanza chiaro che in futuro solo gli imprenditori che sapranno dare al mercato dimostrazione di competenza e di imprenditorialità e contemporaneamente anche prova di rispettare i principi di tutela degli azionisti esclusi dal controllo riusciranno a ottenere i capitali di rischio necessari per crescere. Affinché si affermi un modello di gestione siffatto occorrono alcune condizioni:

1. che gli imprenditori si convincano che le imprese intenzionate a crescere devono aggregare capitale di rischio di terzi, e in misura sempre più consistente, anche fino a perdere la maggioranza numerica del 51%;

2. che essi, anche scendendo al di sotto del 51%, conservino pur sempre il controllo fintanto che saranno in grado di dimostrare di essere migliori gestori di altri;

3. che accettino la logica del take-over in base alla quale è normale che, se un altro imprenditore è capace di convincere il mercato di sapere fare meglio di loro, ha il diritto di prendere il comando offrendo a tutti gli azionisti la facoltà di scegliere fra il cedergli le loro azioni o il rimanere nella compagine azionaria sotto il nuovo governo;

4. che non cerchino di blindare il controllo, pur avendo quote minoritarie del capitale di rischio complessivo, attraverso marchingegni vari, in modo tale da impedire il funzionamento della logica del take-over;

5. ma soprattutto che non approfittino delle posizioni di controllo per trarre benefici privati a danno degli altri azionisti.

Abbracciare un modello di questo tipo può sembrare difficile per chi è cresciuto nella logica dell’impresa come mera proprietà privata. È certamente più impegnativo rispetto al modello che postula il controllo dell’impresa al 100% o almeno al 51%. È più sfidante per l’imprenditore che si deve misurare sulla capacità di offrire non solo prodotti o servizi competitivi, ma anche rendimenti competitivi agli azionisti. È più responsabilizzante perché costringe l’imprenditore a improntare le proprie scelte avendo sempre in mente l’interesse di tutti gli azionisti, rinunciando alle tentazioni di cogliere interessi privati. Ma è il modello che il mercato dei capitali – nel momento in cui diventa sempre più efficiente – premierà.

1

V. Malagutti, “Olivetti, cessioni e riassetto. Due vie per ridurre i debiti”, Corriere della sera, 11 settembre 2001.

2

G. Minervini, M. Bianchi, L. Enriques, “Dalle ‘piramidi’ ai conflitti di interesse”, Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2001.