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2001/4

Claudio Dematté

La non crescita: una malattia da curare

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Ci sono molte imprese che, pur svolgendo con buoni risultati l’attività nella quale sono impegnate, non riescono a crescere in modo significativo. Il loro fatturato a malapena segue la dinamica generale dei prezzi, quando addirittura non stagna, con una regressione dell’attività espressa in termini reali. Eppure, queste imprese sovente hanno una solida dote di competenze – comprovata dal fatto che sono sul mercato da anni con buoni risultati competitivi e reddituali – che però non trovano altro sbocco e altra applicazione che nell’attività abituale. Dal punto di vista dell’economia in generale, esse, pur svolgendo una funzione utile, non concorrono ad alimentare la crescita. In termini di occupazione, tenuto conto del naturale incremento di produttività, non solo non creano nuovi posti di lavoro, ma ne perdono, anno dopo anno. Se non ci fossero altre imprese molto più dinamiche e se non nascessero nuove imprese, il paese non potrebbe sperimentare un benessere crescente, e la disoccupazione, lungi dal diminuire, aumenterebbe.

La non crescita, anche se non condannabile sic et simpliciter. è dunque un problema. Lo è per la società nel suo insieme, ma lo è anche per l’impresa che verosimilmente non sfrutta il potenziale a sua disposizione. Lo è per i lavoratori, ai quali viene a mancare un’occasione di crescita, ma lo è anche per gli azionisti, che perdono la possibilità di migliorare il proprio rendimento. È un problema sottovalutato che, anzi, raramente viene classificato fra i problemi. Nella maggior parte dei casi lo si assume come un dato di fatto oppure come tratto connaturato a un tipo di attività, non correggibile: in altri termini, più un dato di fatto che una lacuna sulla quale riflettere e intervenire. A dire il vero, l’assenza o la limitatezza della capacità di crescita non sfugge agli analisti finanziari, nei cui modelli di valutazione del valore dell’impresa il tasso di sviluppo del fatturato e degli utili assume un grande rilievo. Per chi deve fare conto sui mercati dei capitali, la non crescita (e più precisamente la non crescita attesa) si traduce in una penalizzazione dei prezzi delle azioni e, in caso di ricorso al mercato, in una diluizione maggiore per gli azionisti. Il pungolo degli analisti finanziari non agisce tuttavia sulla stragrande maggioranza delle imprese italiane, posto che esse non attingono ai mercati azionari e quindi non ne subiscono i giudizi. Queste imprese prendono atto dell’importanza di una comprovata capacità di crescita solo quando decidono di farsi quotare e verificano la grande differenza nelle valutazioni, a parità di redditività, fra le imprese dinamiche e quelle statiche. Ma ne prendono atto troppo tardi, quando non c’è più tempo per trovare un rimedio.

A dispetto del fatto che tutte le ricerche attestino l’effetto generalmente tonificante che una capacità di crescita sostenuta ha sul valore di un’impresa, la letteratura è più ricca di interventi che mettono in guardia nei confronti di strategie di crescita rispetto a interventi che promuovono lo sviluppo. Il filone di studi sulla teoria del valore, per esempio, pone molta enfasi sul controllo del rendimento offerto dai nuovi progetti di sviluppo, affinché non si deprima il valore dell’impresa, come succederebbe se la redditività di detti progetti fosse inferiore al costo del capitale. Ma non pone altrettanta attenzione a come impostare e realizzare piani di sviluppo che facciano lievitare il corso delle azioni.

Per due ragioni, dunque, è auspicabile che la non crescita, o la crescita limitata, delle imprese sia posta esplicitamente come un problema su cui intervenire, alla stregua delle altre patologie che possono colpire un’azienda: per l’interesse del paese ad avere un dinamismo che produca posti di lavoro e benessere; per l’interesse dei proprietari delle imprese affinché possano trarre una maggiore valorizzazione dei loro investimenti. La non crescita assomiglia – come patologia – al nanismo che affligge alcuni soggetti del genere umano: anche qui, per molto tempo, il fenomeno era accettato come un destino inevitabile. Fino a quando si è capito che era la conseguenza di un blocco dei meccanismi naturali di crescita che poteva essere rimosso, con cure idonee, come qualsiasi altro squilibrio del metabolismo umano. Riconoscere che la non crescita non è una fatalità ma una malattia da trattare è il primo passo per porvi rimedio. I passi successivi consistono nel comprendere il fenomeno della crescita, capire come si dipana e cogliere i meccanismi che possono inibirlo. Raccolti questi elementi, è possibile proporre qualche idea per impostare politiche di crescita redditizia.


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