E&M

2001/3

Il sapore della vittoria

Regia: Boaz Yakin

Interpreti: Denzel Washington, Will Patton

USA, 2001

Di nuovo lo sport. Ancora lo sport. Come parabola, come metafora. Come esempio di struttura che, basandosi sulla competizione istituzionalizzata, non può che fornire continui stimoli e illuminanti paragoni al mondo delle aziende e dell’economia. Lo scorso anno ci aveva provato un regista come Oliver Stone, che con il suo Ogni maledetta domenica aveva tracciato un turgido affresco del mondo del football americano, raccontando il conflitto fra un vecchio allenatore in crisi (Al Pacino) e la giovane e spregiudicata presidentessa della sua società (Cameron Diaz), più interessata al business che alla tutela e alla salvaguardia degli antichi “valori” dello sport. Quest’anno tornano sull’argomento il regista Boaz Yakin (Il gioco dei rubini) e il produttore Jerry Bruckhmeier (Top Gun, Armageddon, Pearl Harbor), che con Il sapore della vittoria provano a mettere in scena una storia vera e a raccontare attraverso il football un periodo difficile e conflittuale nella storia recente dell’America come i primi anni settanta. Per la precisione, siamo ad Alexandra, in Virginia, nel 1971. Mentre tutta l’America è scossa dall’ansia del cambiamento e dalla paura del nuovo, fra episodi di razzismo e coraggiosi tentativi di integrazione razziale, le autorità scolastiche locali decidono di tentare un esperimento concreto di integrazione fondendo due scuole frequentate fino a quel momento l’una solo da ragazzi bianchi e l’altra solo da ragazzi di colore. Ma non è la decisione in sé a produrre “scandalo”, quanto la sua più immediata conseguenza: l’obbligo, cioè, per le due scuole, di fondere anche le rispettive squadre di football. Quando poi si viene a sapere che ad allenare la nuova squadra è stato chiamato un allenatore di colore (Denzel Washington), che prenderà il posto del vecchio allenatore bianco (Will Patton), declassato a vice, la situazione diventa esplosiva. Eppure, i due coach decidono, a sorpresa, di collaborare. E proprio i modi e i tempi della loro collaborazione, assieme al tipo di riorganizzazione che riescono a realizzare nella struttura della squadra, sono densi di indicazioni interessanti anche per chi si occupa di management e di organizzazione aziendale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Non è certo la prima volta che il football americano viene raccontato al cinema in chiave metaforica: l’avevano già fatto, con accenti diversi, registi come Robert Aldrich (Quella sporca ultima meta, 1974) e Ted Kotcheff (I mastini di Dallas, 1979). Questo Il sapore della vittoria suggerisce però, con una sua ruvida schiettezza, alcune riflessioni importanti su temi centrali, dal punto di vista dell’organizzazione aziendale, come i processi di fusione e il ruolo della leadership …

S.S. Io trovo interessante soprattutto il modo in cui è delineata la figura del coach. Nell’organizzazione aziendale, il team management tende sempre più a individuare figure guida che posseggono molte delle caratteristiche “professionali” di un allenatore Sportivo. Il coach non è un giocatore: è colui che aiuta gli altri a giocare, Che aiuta la squadra a esprimersi al meglio delle sue possibilità. Non fa parte del “branco”, non è il migliore degli orchestrali. È piuttosto un orchestratore. Nello sport sembra scontato, ma nelle aziende non sempre lo è. E invece bisognerebbe rendersi conto che un buon “allenatore” – anche in azienda – non deve scendere direttamente sul campo da gioco. Non è il suo compito, né la sua funzione ...

G.C. Nel film questa problematica si sovrappone al tema della capacità di gestire il cambiamento. Qui siamo di fronte a due team diversi, che hanno elaborato valori, stili e convinzioni differenti, e che all’improvviso si trovano a dover essere unificati. È ciò che si verifica spesso anche in azienda ogni volta che ci si trova a dover gestire processi di fusione, di acquisizione o joint ventures.

S.S. Certo. Con tutto quello che ne consegue anche sul piano psicologico. La paura di restare esclusi dal processo di ristrutturazione. Il timore che la razionalizzazione ti faccia finire in panchina. Che tu possa risultare in esubero rispetto al ruolo che avevi prima. Il film mette in luce molto bene questi meccanismi, ma affida anche all’allenatore nero il compito di dire con molta chiarezza che a un certo punto questo è un problema che si devono gestire i giocatori. Che sta a loro conquistarsi il posto nella nuova squadra. Il coach ~ si limita a prevedere una panchina “lunga”, a lasciare aperte tutte le possibilità affinché i giocatori dimostrino sul campo il loro valore. Saranno loro a conquistarsi il diritto di giocare da titolari, non lui a elargirlo.

G.C. Il tutto è complicato poi dal fatto che nel film i due allenatori – quello di nuova nomina e quello, per così dire, “declassato” – sembrano seguire due diversi stili di comunicazione con la squadra. Uno (Denzel Washington) è più tollerante, l’altro (Will Patton) è più intrusivo.

S.S. Direi che non è una “complicazione”, ma un valore aggiunto. Il sapore della vittoria dimostra come anche la tolleranza possa produrre risultati molto interessanti. Che non è necessario essere – come a un certo punto sembra sostenere l’allenatore bianco – autoritari, prescrittivi o impositivi per ottenere buone performance dai giocatori. A volte, anzi, è vero proprio il contrario.

G.C. Sono sempre molto colpito, quando ragiono sui rapporti, dalle analogie e differenze fra il mondo dello sport e quello dell’azienda, dal modo in cui i team sportivi preparano i loro incontri. Non solo con l’allenamento, ma anche studiando accuratamente l’avversario, Nel fìlm gli allenatori obbligano i giocatori a vedere insieme la registrazione in videocassetta delle precedenti performance dell’avversario. Prima di incontrarlo, lo studiano, lo esaminano, analizzano i suoi schemi. Non so se anche nelle aziende accade qualcosa di analogo ...

S.S. Non sempre. Anzi, molto di rado. Da questo punto di vista, il mondo dello sport è sicuramente più avanti, e le aziende avrebbero molto da imparare. Va anche detto, però, che lo sport è molto più “brutale” delle aziende e istituisce relazioni dirette tra performance e risultati. Se per tre o quattro giornate di seguito non dai i risultati previsti, sei fuori. In azienda no. Da noi, almeno, il caso della persona “declassata” per non aver raggiunto ì risultai i previsti è ancora abbastanza raro.

G.C. Anche perché in genere l’azienda non vive – a differenza dello sport – una pressione agonistica tanto forte da imporre una verifica dei risultati con periodicità settimanale ...

S.S. Senz’altro. Ma c’è un altro elemento del film che vorrei commentare in un’ottica aziendale, ed è la funzione decisiva che nell’organizzazione sportiva assume lo spogliatoio. In azienda non c’è nulla di simile, purtroppo. E invece un film come Il sapore della vittoria ne dimostra in modo inequivocabile l’importanza. Lo spogliatoio è un momento di ricarica, di recupero, di chiarificazione. È una sorta di “ritiro” che garantisce un clima più riflessivo rispetto a quello spesso esagitato dell’azione. Lì si prendono le decisioni, si cementa lo spirito di gruppo, si allentano le tensioni o si dà la carica ai singoli. È singolare che nessun’altra organizzazione preveda un luogo e uno spazio simile: eppure. la sua produttività è indiscutibile. Bisognerebbe pensarci, anche nell’organizzazione aziendale.