E&M

2001/2

Honolulu Baby

Regia: Maurizio Nichetti

Interpreti: Maurizio Nichetti, Maria de Medeiros

Italia, 2001

Vent’anni dopo Ratataplan, il regista Maurizio Nichetti torna con Honolulu Baby a mettere in scena il personaggio di un ingegnere che ha qualche difficoltà a integrarsi nella struttura aziendale e produttiva. La sua creatività lo rende a prima vista inaffidabile e “inadeguato”, ma poi finisce per rivelarsi, paradossalmente, un importante fattore di rilancio dell’immagine aziendale.

Ricordate Ratataplan (1979)? Praticamente muto e senza dialoghi, abilmente costruito sulla tecnica della clownerie mescolata con l’antica e nobile arte della gag, il film d’esordio di Nichetti aveva conquistato il pubblico e la critica narrando le comiche disavventure di un neolaureato milanese (l’ingegner Colombo, interpretato dallo stesso Nichetti), scartato ai colloqui di assunzione per eccesso di creatività e costretto a sbarcare il lunario arrabattandosi prima come mimo nelle compagnie ambulanti che battevano i nebbiosi dintorni della metropoli lombarda e poi come improbabile barista in un chiosco isolato in cima alla “montagnetta di San Siro”.

Honolulu Baby riprende lo stesso personaggio, vent’anni dopo. Il mondo è cambiato, a Milano non ci sono più né mimi né chioschi, ma l’ingegner Colombo è sempre lo stesso. Va in giro ancora con la sua Fiat 500, indossa come allora una sciarpa rossa e un montgomery blu su pantaloni sempre troppo corti e continua a guardare il mondo con quello sguardo intriso di innocenza e di candore che è prerogativa peculiare di ogni vero comico, da Buster Keaton a Charlot passando per gli amatissimi Stan Laurel & Oliver Hardy (Honolulu Baby è il titolo una canzone che Ollio e Stanlio eseguono nel film I figli del deserto del 1934. Diversamente da vent’anni fa, tuttavia , ora l’ingegner Colombo ha un lavoro: è impiegato in una multinazionale che cerca petrolio in giro per il mondo e che obbliga i dipendenti a parlare solo inglese.

La rappresentazione che Honolulu Baby dà dell’organizzazione aziendale non ambisce, ovviamente, al realismo. E tuttavia è sintomatica di un certo modo di percepire, oggi, la realtà aziendale. Ne discutono, incrociando lo sguardo dell’economista e quello del cinefilo, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Ho l’impressione che l’immagine della realtà aziendale che emerge dal film sia abbastanza macchiettistica e caricaturale. Ci sono molti stereotipi duri a morire: la struttura gerarchico-piramidale, la segretaria bionda, gelida e un po’ nazista, il “capo” che controlla i dipendenti con un sistema di telecamere a circuito chiuso e rimprovera gli impiegati colti in fallo come già avveniva in Tempi moderni di Charlot...

S.S. Sono d’accordo. Mi sembra invece più interessante il modello di mobbing messo in scena dal film: l’ingegner Colombo viene considerato deviante rispetto ai piani e alle strategie aziendali ed è quindi destinato a un altro incarico e allontanato. È un meccanismo effettivamente utilizzato da alcune aziende per liberarsi, almeno temporaneamente, di dipendenti o collaboratori che non risultano in “sintonia” la filosofia aziendale ...

G.C. Forse, però, è discutibile il motivo per cui il protagonista del film viene spedito a Melancias, una città sperduta in non si sa bene che deserto, dove sono stati inviati in passato altri suoi colleghi crisi. All’origine di tutto, suggerisce Nichetti, sembra esserci un “eccesso di creatività”…

S.S. Certo. E mi sembra sia proprio questa, da un punto di vista “realistico”, la parte più debole del film. L’ingegner Colombo non si integra nell’azienda ed è considerato un “deviante” perché è troppo creativo, eccentrico, stravagante, poco disposto al conformismo ...

G.C. ... che sono poi gli stessi motivi per cui, all’inizio di Ratataplan, lo stesso personaggio veniva scartato a un test di selezione. I candidati dovevano disegnare un albero, e mentre tutti gli altri neolaureati lo facevano in modo schematico, lui si produceva in una performance di grande estro creativo, con un disegno coloratissimo e originale che veniva giudicato inopportuno, se non addirittura “pericoloso”, dai vertici aziendali.

S.S. Appunto. Ma Ratataplan è un film della fine degli anni settanta. Si riferisce a un periodo della storia delle aziende italiane in cui effettivamente gli eccentrici, gli stravaganti o i creativi erano pochi, malvisti ed emarginati. Oggi le cose non stanno più così, se non – forse – in ciò che resta delle grandi strutture burocratiche del passato. Oggi, in qualsiasi azienda, il personaggio vestito in modo informale, con i capelli lunghi e l’orecchino, è giudicato tutt’altro che “sovversivo”.

G.C. È un po’ come se nell’universo poetico di Nichetti il tempo si fosse fermato. Come se l’azienda continuasse a essere un grande Moloch immutabile, estraneo al cambiamento e perennemente identico a se stesso ...

S.S. Ci sono ovvi motivi “poetici” che possono spiegare questa “inerzia”; c’è la necessità di Nichetti – come di ogni altro artista – di restare coerente con un proprio mondo espressivo. E tuttavia in questo caso la coerenza poetica genera una descrizione del mondo e dell’ organizzazione aziendale che rischia di risultare complessivamente distorta e infondata.

G.C. A me sembra interessante, però, l’uso che Nichetti fa del paradosso e del caso come elementi produttori di valore non previsto, Forse perfino come vettori di profitto. Mi spiego: in Ratataplan un orribile intruglio realizzato un po’ per caso dall’inetto protagonista rivelava alla fine un sorprendente potere taumaturgico. Ne bastava un sorso per far camminare i paralitici e per rianimare i moribondi. Ciò che sembrava un fallimento prestazionale alla fine diventava un business. In Honolulu Baby accade una cosa simile: l’opera “inutile” e dispendiosa costruita da Colombo nel deserto (un acquedotto invece del previsto oleodotto) viene premiata dall’ONU come “intervento umanitario” dell’anno e fa guadagnare tantissimo all’azienda in termini di immagine e di prestigio.

S.S. È vero. Direi che qui Nichetti coglie due elementi importanti. Da un lato – applicando il classico meccanismo comico del “pagliaccio” che agisce fuori dalle norme e dai canoni di comportamento previsti – ricorda a tutti come spesso sia proprio l’adozione di una logica altra (magari, in apparenza, perfino di una logica dissonante rispetto agli obiettivi prefissati) che può riuscire a produrre valore, riconoscimento, dignifìcazione sociale. Dall’altro lato, indica l’importanza del rischio (l’ingegner Colombo rischia tutto e si aspetta – al suo rientro in sede – di essere immediatamente licenziato) come fattore di successo: relegato in un luogo e in un ruolo improduttivi e marginali, Colombo riesce a rifarsi senza neppure volerlo solo cambiando radicalmente le carte in tavola. Poteva andargli male, ma il caso e la fortuna lo aiutano. Tanto che proprio in questo modo riesce a fare, paradossalmente, il bene dell’azienda. Non è una regola generalizzabile, beninteso. Anzi. Ma come provocazione, come invito a guardare le cose da un punto di vista diverso, è sicuramente suggestiva.

G.C. L’altro aspetto su cui il film insiste molto è la denuncia in chiave sarcastica e grottesca della colonizzazione anglofona che ormai dominerebbe tante realtà aziendali. Per rispettare le direttive dell’azienda, l’ingegner Colombo e sua moglie (che ambisce a far carriera da McDonald) si sforzano di parlare solo in inglese anche quando sono soli in casa ...

S.S. Anche questa satira del monolinguismo mi pare abbastanza criticabile e scontata. Più interessante è invece il fatto che il film finisce per offrirsi come una sorta di babele linguistica dove i vari personaggi parlano un po’ in italiano (pochissimo), molto quell’inglese basico che ormai fa parte dell’indispensabile bagaglio espressivo di tutti noi, e parecchio anche in spagnolo (soprattutto nella parte della vicenda ambientata a Melancias). Ne viene fuori una specie di esperanto in cui nessuno parla più una sola lingua, tutti si esprimono con una sorta di linguaggio-macedonia, ma alla fine si capiscono. Questo mi pare un dato rilevante e riscontrabile nella realtà comunicativa di tante aziende con quadri e reti multinazionali.

G.C. Forse si potrebbe dire allora che Honolulu Baby finisce per essere interessante dove è meno “ideologico”. Dove, cioè, lo sguardo del comico riesce a intuire meccanismi e processi che vanno oltre la lettura ideologica della realtà aziendale. In questo senso il “realismo poetico” di Nichetti continua a essere a suo modo penetrante.

S.S. Per non parlare di come Nichetti applichi poi al suo fare cinema elementi di innovazione e di rischio che sono – proprio dal punto di vista dell’organizzazione produttiva – molto interessanti e di frontiera. Penso alla genialità artigianale con cui ha costruito effetti speciali che sono a tutti gli effetti dei prototipi. Penso alla scelta di mettere in rete giorno per giorno la lavorazione del film, in una sorta di backstage in diretta che non ha precedenti al mondo. Penso al coraggio con cui si è assunto fattori di rischio non limitandosi a offrire al suo pubblico ciò che questo si aspettava da lui. A volte, per giudicare un film dal punto di vista del management e dell’organizzazione, bisognerebbe guardare non solo (o non tanto) a ciò che il film racconta, e al mondo che mette in scena, ma anche e soprattutto al modo in cui il film stesso viene prodotto, e al modello di organizzazione che presiede alla sua realizzazione produttiva. Da questo punto di vista, credo di poter dire che il cinema di Nichetti non è mai né prevedi bile né scontato. Il che, sullo sfondo complessivo del cinema italiano di questi anni”non è davvero cosa da poco.