E&M

2000/6

Claudio Dematté

Ripensare i modelli di impresa

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In tutta la letteratura di management, anche nei media, negli ultimi anni un leit motiv domina sugli altri. Questo tema, trattato in forme diverse e con differenti modulazioni, si articola su tre punti, l’ultimo dei quali conseguente ai primi due. I tre punti sono: 1. è in atto un’intensificazione competitiva; 2. la concorrenza si è non solo intensificata, ma ha cambiato natura, diventando più mobile e più dinamica; 3. per fronteggiare un contesto competitivo così configurato sono necessari nuovi modelli di impresa. Pochi libri e pochi articoli apparsi ultimamente (incluso questo stesso editoriale), sfuggono a tale schema di ragionamento, vuoi per spiegare la dinamica di certi fenomeni, vuoi per motivare proposte di gestione o nuovi strumenti di management. Obiettivo del nostro editoriale è rivisitare questo schema logico e verificare se le premesse (i primi due punti) siano fondate, per poi concentrare l’attenzione sul terzo punto, con l’intento di spingere più in là i ragionamenti sui modelli di impresa che possono consentire di navigare nel mare burrascoso che sì presume prevarrà negli anni a venire.

È vero che la pressione competitiva è cresciuta e crescerà ancora?

 

Questo è quanto si sostiene in continuazione ed è uno dei due argomenti che stanno alla base della presunta necessità di nuovi modelli di impresa. C’è chi argomenta questa tesi, con più o meno elementi. C’è chi invece la pone come semplice premessa, come un dato di fatto, evidente e provato, che non abbisogna di dimostrazioni. Chi la definisce semplicemente in termini di gradazione (è aumentata l’intensità); chi la qualifica, nella sua versione estrema, come “spietata” (cut-throath competition) o come guerra di prezzi. Qualcuno parla di tendenza deflativa, riferendosi all’effetto complessivo di questa concorrenza più intensa.

Il fatto che molti studiosi e osservatori diano per scontato questo fenomeno è un indizio, ma non una prova. Anzi l’affermazione, ripetuta più volte, come se fosse una verità solare, ha finito con il consumarsi e perdere senso. Passa sopra le coscienze come l’acqua, come uno slogan o un modo di dire, quasi come i lamenti degli anziani sui guai della società attuale rispetto al bel tempo passato o sullo scarso impegno dei giovani d’oggi rispetto a quello dei giovani del loro tempo. A qualcuno è perfino venuto il sospetto che si tratti di posizioni strumentalmente allarmiste a uso dei consulenti, delle scuole di management o degli autori di libri o di articoli di management per tentare di convincere le imprese della impellente necessità di fare ricorso ai loro servizi: una specie di “al lupo, al lupo”, al quale nessuno crede più di tanto. Il problema è che l‘aumento della pressione competitiva non è stato suffragato da una prova empirica, non fosse altro perché è difficile, se non impossibile, misurare tale fenomeno sull’intero spettro delle attività economiche. Gli stessi studi sulla concentrazione dell’offerta dei diversi settori offrono deboli indicazioni sul tema. Anche se si dovesse accertare una minore concentrazione, questo solo dato non è indicativo di una maggiore pressione competitiva, così come un’offerta più concentrata non prova il contrario, fintanto che non sfocia in un monopolio o in oligopolio collusivo. Tutti gli studi sulla concorrenza concordano sul fatto che è difficile individuare indicatori attendibili dell’intensità del confronto competitivo per l’intera economia. La situazione, dal punto di vista della misurabilità, è simile A quella della temperatura e della stabilità dell’ecosfera: nella migliore delle ipotesi si hanno risultati controversi.

Le stesse ricerche sulla nuova economia, pur segnalando la possibilità che la crescente trasparenza dei prezzi e la più estesa comparabilità dell’offerta, resa possibile dalle nuove tecnologie Internet, porti a una concorrenza più accesa, non sono in grado di prevedere l’esito finale, posto che in certe attività si avrà un livellamento dei prodotti e dei servizi e una pressione sui prezzi e sui margini, ma in altre, proprio grazie alle proprietà interattive di Internet, si andrà invece verso prodotti sempre più personalizzati che sfuggono alla logica della concorrenza pura. Dunque, non si può provare con certezza che vi sia un generale aumento della pressione competitiva, così come non si può provare il contrario. Si può solo constatare che il fenomeno è in atto in alcuni settori. Affermare che l’aumento generalizzato della pressione competitiva non si può provare non significa però che lo si debba escludere. L’idea può rimanere in campo, come un’ipotesi di lavoro, piuttosto che come una verità assodata. Il che significa che l’aumento della pressione competitiva, anziché darlo per scontato, occorre, osservarlo, misurarlo e prevederne il decorso, settore per settore e caso per caso, proprio come la pressione barometrica in zone diverse. Va detto che, in via di pura logica, l’ipotesi in questione appare più che fondata. Essa si basa sull’effetto verosimile di alcuni fenomeni che hanno modificato il contesto in questi ultimi anni.

Il primo è l’abbattimento delle barriere geografiche, grazie dapprima al miglioramento dei trasporti, poi all’eliminazione delle barriere doganali, infine all’avvento di Internet. Questo solo fatto amplia, e in modo significativo, lo spettro dei concorrenti con i quali ogni singola impresa è costretta a misurarsi. Dedurne un innalzamento della tensione competitiva è il passo logico conseguente e verosimile.

Il secondo fenomeno sono le liberalizzazioni che hanno investito alcuni settori un tempo a gestione monopolistica (si pensi alle telecomunicazioni, all’energia elettrica e, in prospettiva, perfino al trasporto ferroviario). In questi specifici campi l’aumento della pressione competitiva non è solo un’ipotesi, ma un dato di fatto. I vecchi monopolisti, per la prima volta nella loro storia, sono costretti a misurarsi con dei concorrenti, anche se per il momento rimangono protetti, almeno in parte, dalla posizione di dominanza e dai retaggi del vecchio regime.

Il terzo fenomeno che spinge verso una concorrenza più intensa – qualcuno la chiama ipercompetizione – è il susseguirsi vorticoso di invenzioni e di innovazioni, in parte specifiche e in parte trasversali a tutti i settori. Questa particolare fecondità della ricerca e sviluppo ha l’effetto di mettere in campo sempre nuovi prodotti e nuovi concorrenti con i quali bisogna misurarsi. Molte di queste innovazioni, poiché si propagano in settori diversi da quelli che le hanno generate, hanno anche l’effetto di ampliare il fronte con il quale occorre confrontarsi. Per descrivere gli effetti provocati da questo fenomeno qualcuno usa l’espressione “disruptive innovation”, che condensa nell’aggettivo “distruttiva” tutto il potenziale destabilizzante. Un quarto fattore concorre anch’esso a fare salire la tensione competitiva: è l’avvento e la diffusione di Internet. Pur conia cautela di non generalizzare indebitamente i suoi effetti, come si è detto poco sopra, è certo che Internet – oltre ad ampliare gli orizzonti geografici raggiungibili dalle imprese e quindi il numero dei concorrenti potenziali su ciascuna attività – ha la caratteristica di abbattere l’abituale asimmetria informativa dei consumatori, espandendo la loro possibilità di ricerca e confronto e quindi il loro potere contrattuale. Vi è infine un altro fattore che gioca a favore di una maggiore concorrenza: questo è rappresentato dall’azione delle Autorità antitrust, la cui esperienza, i cui poteri e la cui influenza sono sensibilmente aumentati negli ultimi anni.

La logica dice che l’aumento della pressione competitiva, anche se non provato nella sua generalità, è verosimile: anzi, è probabile che la concorrenza più intensa non sia affatto una litania di chi ha interesse di parte a dichiarala. E non è nemmeno una percezione sfalsata degli imprenditori e dei dirigenti che potrebbero essere soggetti alla tipica deformazione dei giudizi derivante dalla tendenza delle persone a colorare gli eventi in modo più pessimistico mano mano che scorre il tempo.

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