E&M

2000/5

Gianni Canova

Quelli che non ce la fanno. Due diversi sguardi sui paradossi della marginalità

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La lingua del santo

Regia: Carlo Mazzacurati

Interpreti: Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio

Italia, 2000

Small Time Crooks

Regia: Woody Allen

Interpreti: Woody Allen, Tracey Ullman

USA, 2000

Vivono in una città come Padova che “fattura da sola quanto l’intero Portogallo”. Città ricca, città intraprendente, città dalle mille opportunità nascoste sotto una buccia di cinismo e disincanto. Il guaio è che loro due non fatturano niente: i protagonisti del film di Carlo Mazzacurati La lingua del santo sono due “picari” del Nordest. Due perdenti, due balordi, due che non ce l’hanno fatta. Uno Albanese) è un giocatore di rugby appesantito dagli anni e dalla dieta, che ormai entra in campo solo per tirare calci piazzati ed è pagato per ogni tiro andato a segno, l’altro (Fabrizio Bentivoglio) è un ex rappresentante di articoli di cancelleria che si è trovato all’improvviso emarginato dalla rapida ristrutturazione del settore e che non riesce più a piazzare i suoi articoli obsoleti a una clientela sempre più esigente e smaliziata. Delusi e quasi rassegnati i due vivacchiano al Bar delle Antille (il locale pubblico più scalcagnato della città), perdono tempo, compiono piccoli furti e aspettano la grande occasione della loro vita. Ma con il sospetto e il timore che l’occasione in questione non arrivi mai. O che non arrivi più. Che sia già arrivata senza che loro stessi se ne siano accorti. Nella loro poetica “marginalità”, i due protagonisti del film di Carlo Mazzacurati sono un emblema della cronica difficoltà del cinema italiano a raccontare le storie e le vite di personaggi che stiano dentro i processi produttivi e che si confrontino con meccanismi e le trasformazioni dell’economia. Su una realtà come del Nordest – come è noto – esiste ormai una copiosa letteratura, ricca di storie, di figure paradigmatiche e di conflitti illuminanti (si pensi anche solo a un libro come Sghei di Gina Antonio Stella, inviato del Corriere della Sera), ma il cinema italiano sembra aver perduto la capacità di raccontare quelle storie (o almeno di provarci) con la lucidità e la suggestione con cui l’avevano fatto, qualche decennio fa, i maestri della “commedia all’italiana”. Si pensi, per esempio, alla precisione socio-antropologica con cui il Nordest veniva messo in scena, anche nella peculiarità della sua struttura economica oltre che nella specificità caratteriale e comportamentale dei suoi abitanti, in film come Signore & signori (1965) di Pietro Germi, Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi o Il commissario Pepe (1969) di Ettore Scola. Ora tutto questo non accade più: meglio la scorciatoia poetici sta del “perdente” o del “marginale” (che è figura quanto basta stereotipata per funzionare a qualsiasi latitudine e in qualunque contesto) che la fatica dimettere a fuoco l’identità di coloro che producono ricchezza anche pagando prezzi molto alti sul piano del vissuto individuale. Peccato: un autore/attore lucido e sensibile come Antonio Albanese resta uno dei pochi ad aver provato di recente tanto a teatro (Giù al Nord) quanto al cinema (La fame e la sete, 1999) a lavorare con effetti di distorsione grottesca sulla figura del piccolo imprenditore settentrionale ossessionato dal bisogno di fatturare e dal feticcio della ricchezza a ogni costo: il suo Perego Ivo, maschera indimenticabile di un “padroncino” titolare di un catenificio organizzato secondo logiche di drastico efficientismo e di fidelizzazione coatta del personale. è una figura che nella sua radicalità parossistica (e nella pervicacia con cui nega e occulta le sue origini meridionali) coglie alcuni tratti reali del piccolo imprenditore del Nordest, mescolandoli a echi letterari che vengono da lontano (per esempio, dal Parise di Il padrone). Ma è un caso quasi isolato (e, per di più, di origine cabarettistico-teatrale): quel che manca da troppo tempo – e che continua a mancare – al cinema italiano è la capacità di fare i conti con l’economia, con i suoi processi e con i riflessi che essa provoca sulla vita delle persone. Bisognerebbe davvero andare a lezione dal cinema americano: che anche quando sceglie di raccontare i “perdenti” (funziona sempre, e tocca le corde emotive del pubblico ... ), lo fa con occhio molto attento ai meccanismi reali di produzione, circolazione e distribuzione della ricchezza. Prendete, per esempio, l’ultimo film di Woody Allen, Small Time Crooks, accolto con applausi convinti e prolungati all’ultima Mostra del Cinema di Venezia: lasciandosi alle spalle le nevrosi del sesso, dell’inconscio e dell’ebraismo che avevano dominato i suoi ultimi lavori, il comico newyorkese sembra tornare alle origini, e a quell’epica dei “criminali da strapazzo” (dei “perdenti”, appunto) che aveva già celebrato in maniera irresistibile in film come Prendi i soldi e scappa (1969) o Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971). Anche qui, cialtronesco e pasticcione più che mai, Allen interpreta la figura di un ladruncolo di mezza tacca da poco uscito di galera, che si fa chiamare “the Brain’~ (la Mente ... ), progetta colpi grossi, cerca di scavare tunnel sotto le banche e tenta, con risultati catastrofici, di scassinare le casseforti dei ricchi. La messinscena dei goffi tentativi andati a vuoto, dei gesti maldestri e della confusione mentale del suo personaggio consente a Woody Allen di pigiare sul tasto del velleitarismo per spremere dall’evidente inadeguatezza del suo antieroe effetti comici di irresistibile ilarità (come quando lascia in una cassaforte appena aperta la collana autentica che voleva rapinare, portandosi via la copia che si era fatto realizzare da un falsario). Ma la costruzione ironica del personaggio inetto e fallimentare è bilanciata nel corso del film dalla rappresentazione, graffiante ma credibile, di un processo “oggettivo” di produzione della ricchezza: mentre the Brain tenta invano di scavare un tunnel sotterraneo che gli dia accesso al caveau di una banca, la moglie del nostro (un’irresistibile Tracey Ullman che intreccia con Woody duetti domestici degni della coppia Vianello-Mondaini) è obbligata dal marito a impegnarsi, come copertura, in un’attività di produzione e di vendita di biscotti fatti in casa in un negozietto della perifèria newyorkese che dista pochi metri dalla banca in questione. Senza che nessuno se l’aspetti, i biscotti sfomati dalla signora e messi in vendita col contagocce in quantità ridicole riscuotono un clamoroso successo: piacciono subito ai primi clienti occasionali e innescano un tam tam che passa rapidamente di bocca in bocca, tanto che fuori dal negozio si formano lunghe file di clienti disposti a far la coda per ore pur di assaggiare anche solo un paio di biscotti prodotti da quello che diventa in brevissimo tempo uno dei locali più trendy della città. Invece che col furto e lo scasso, il personaggio di Woody Allen diventa così miliardario suo malgrado grazie ai meccanismi dell’ economia e alle leggi della domanda e dell’ offerta: si comincia con l’assumere personale per la vendita al banco e si finisce con il ritrovarsi a capo di un’azienda dolciaria che insidia il potere di marchi industriali ben più solidi e collaudati. Il risultato è esilarante e non privo di effetti grotteschi (the Brain comincia ben presto a rimpiangere i tempi in cui poteva pasteggiare a cheeseburger e patatine invece che sottoporsi al rito del caviale e dello champagne), ma intanto il film ha modo di illustrare il processo di rapida affermazione di un’azienda che ha il merito di aver intuito la possibilità di soddisfare in modo nuovo un bisogno antico. Scoppiettante di trovate come un vulcano in eruzione, pieno di guizzi, lampi, fulmini e lapilli, il film di Woody Allen finisce per essere l’opposto di quel che sembra: non una satira acida del mito americano del successo, ma una presa d’atto sorridente e scanzonata dei paradossi dell’economia.</p