E&M

2000/3

Ma gli intellettuali continuano a non conoscere il mondo della produzione

Risorse umane

Regia: Laurent Cantet

Interpreti: Jalil Lespert, Jean-Claude Vallod, Lucien Longueville

Francia, 1999

Un giovane laureando in economia viene selezionato per uno stage nell'azienda in cui da trent'anni lavora anche suo padre come operaio. Pieno di entusiasmo, il ragazzo si incarica si studiare il problema delle 35 ore e di valutare l'impatto che tale innovazione può produrre sull'organizzazione del lavoro e sul vissuto dei singoli dipendenti. Lavorando sui computer dell'azienda, tuttavia, il giovane scopre un piano di ristrutturazione che prevede il licenziamento di alcuni operai, tra i quali anche suo padre. La ribellione del figlio scatta immediata, ma il genitore non lo segue: mentre il giovane appoggia gli operai in sciopero, il padre continua a svolgere il suo lavoro, con la cura e la meticolosità di sempre.

Accolto da intensi e numerosi dibattiti che hanno coinvolto tanto il mondo imprenditoriale quanto quello sindacale, il film Risorse umane, diretto dal regista francese Laurent Cantet, offre l'occasione di riflettere sulle rappresentazioni prodotte nell'opinione pubblica e nel vissuto individuale e collettivo dai mutamenti in atto nell'organizzazione del lavoro. In questo articolo ne discutono Severino Salvemini, docente di Organizzazione del lavoro presso l'Università Bocconi, e Gianni Canova, docente di Storia e critica del cinema presso l'Università IULM di Milano.

G.C. Anche nel mondo dell'impresa, un film come Risorse umane è stato accolto per lo più con due atteggiamenti contrastanti: da un lato coloro che giudicano positivamente il fatto che il cinema torni a occuparsi di un tema tabù come l'organizzazione del lavoro, dall'altro quelli che ritengono invece che il film di Laurent Cantet dia un'immagine poco realistica dei problemi e delle questioni in campo ...

S.S. Personalmente propendo più per la seconda ipotesi. Mi sembra che Risorse umane metta in scena un modello di organizzazione del lavoro che non esiste più: quello della vecchia fabbrica fordista e taylorista, che era già stato raccontato in modo impagabile da Charlot nel suo Tempi moderni del I936. Il regista di Risorse umane evidentemente non conosce i luoghi di produzione del Duemila: oggi, in Occidente, non esistono più fabbriche in cui un singolo addetto lavora a una singola macchina e avvita bulloni per tutto il tempo di lavoro. Evidentemente gli intellettuali continuano a non conoscere il mondo della produzione, e a non capire le trasformazioni in atto ...

G.C. ... forse perché è più comodo applicare vecchi schemi – discutibili ma solidi e collaudati – che misurarsi con le incertezze e i disagi dell'innovazione. Anche nella definizione della fisionomia dei personaggi mi sembra che il film di Cantet lavori più sui "tipi" e sui cliché che non sui caratteri e sulle psicologie.

S.S. Assolutamente sì. La figura dell'anziana sindacalista, per esempio, sembra la caricatura di certi militanti del partito di Marchais degli anni settanta. Oggi i sindacati adottano tattiche negoziali molto più raffinate e sofisticate. Mi sembra invece più credibile modo in cui il film delinea rapporto generazionale fra padre e figlio. Ho trovato accenti di indubbia verità e sincerità, per esempio, nella sequenza iniziale, quando la famiglia d'origine accoglie orgogliosa il ritorno a casa del figlio laureando e sente come una promozione sociale il fatto che egli sia ammesso come stagista tra i quadri dell'azienda in cui il padre lavora da sempre come operario.

G.C. Anche se proprio la figura del figlio è – mi pare – una delle più deboli del film: rigido, idealista e sicuro di sé, pretende di applicare alla lettera le teorie apprese all'Università, senza tener conto né del contesto né dello stile comunicativo più adeguato. La scena in cui il dirigente più anziano corregge la sua proposta di questionario ai dipendenti mi sembra uno sberleffo fortemente critico nei confronti della formazione impartita dalle Università ...

S.S. Ma molte volte la realtà è proprio questa: la presa d'atto da parte dei giovani neolaureati di un'azienda molto diversa da quella concettualizzata sui libri. Trovo il tema dell'inserimento del giovane nel mondo del lavoro ben delineato, e anche la critica alla formazione ricevuta è, almeno in parte, condivisibile. Spesso le aziende accusano le università di formare dei giovani che si accostano al mondo del lavoro senza umiltà, con la pretesa di applicare in astratto le teorie che li hanno maggiormente colpiti durante gli studi.

G.C. Per contro, invece, è tratteggiata con cura la figura del padre. l:insistenza con cui pretende di mostrare al figlio la macchina su cui lavora esprime bene la fierezza della sua professione, l'orgoglio del mestiere, il senso di appartenenza all'azienda, la dignità di una vita che ha tratto senso e identità dalla quotidiana iterazione di un compito e dal gusto del lavoro ben fatto. Quando il figlio propone come obiettivo del suo stage quello di aumentare la responsabilità degli operai nei confronti dell'azienda non capisce che si tratta di una "missione" già realizzata e che proprio suo padre è l'emblema vivente di un'identificazione totale.

S.S. Non solo. Mentre la figura del figlio – pur nella fragilità e perfino nella sgradevolezza del personaggio – esprime bene un tema molto sentito dai giovani come è quello dell'inserimento in azienda, con la necessità di farsi accettare e di dare autorevolezza alle proprie mosse, il padre incarna invece il vecchio modello di lavoratore a mobilità zero, quello che entra in fabbrica da giovane e ci resta per tutta la vita. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di un modello destinato a rapida obsolescenza rispetto a quella nuova figura di lavoratore che si trova a cambiare spesso il "luogo" di lavoro nel corso della sua vita professionale e che elabora pertanto un modello di fedeltà e di appartenenza non rispetto all'azienda bensì nei confronti della propria comunità di mestiere. Il figlio, in fondo, si muove già in quest'ottica, ha una coscienza molto forte della propria professionalità e un tasso di fedeltà aziendale molto più basso. Il che significa che ha anche meno ritegno nell'esprimere critiche ai capi o all'azienda stessa. Del resto, è quasi fisiologico che sia così: io stesso ho sempre insegnato in Bocconi e solo l'idea di uno sciopero contro la "mia" Università mi metterebbe fortemente in crisi. Probabilmente, se venissi da venti università diverse avrei meno ritegno a mettere in piazza i guai dell'istituzione di cui al momento faccio parte.

G.C. In questa prospettiva, il dialogo sulla flessibilità fra padre e figlio è uno dei momenti più riusciti del film. Il figlio prospetta al padre un'organizzazione lavorativa non modulare e "meno monotona" e il padre replica, con evidente disagio, dicendo che l'organizzazione a cui lui è abituato (tante ore di lavoro al giorno, per cinque giorni alla settimana) non gli pare affatto "monotona". In squarci come questo il film di Cantet riesce suo malgrado a essere rivelatore: dice per esempio della difficoltà di gestire l'innovazione e di costruire consenso attorno ad essa coinvolgendo le vecchie generazioni operaie, mentre mostra come la flessibilità sia un dato quasi già acquisito in partenza dalle nuove generazioni. Il che mi induce a pensare a Risorse umane come a un film non sull'organizzazione del lavoro, ma sul diverso approccio generazionale rispetto alle trasformazioni in atto.

S.S. ... trasformazioni che il film, peraltro, tende spesso a occultare. Ho trovato poco credibile, per esempio, la figura dell'imprenditore. Nella versione italiana del film lo chiamano "padrone", ma è una deformazione: il francese patron indica piuttosto il direttore di un'unità produttiva; tradotto in questo modo evoca echi d'altro tipo. È una figura scontata, in bilico fra il paternalistico e il fantozziano ...

G.C. Il problema è di fondo: Risorse umane non si accontenta di "mostrare", vuole "dimostrare". Sceglie la strada del film "a tesi". Cerca di produrre non consapevolezza ma consenso. E in ciò finisce per mancare l'obiettivo. Voglio dire, paradossalmente, che per trovare nel cinema alcune illuminazioni su quel che sta accadendo nell'organizzazione del lavoro dobbiamo continuare a rivolgerci a film che apparentemente parlano d'altro. Dobbiamo scegliere la metafora piuttosto che la messinscena diretta. Un film come Risorse umane rischia di essere un' occasione perduta.