E&M

1998/6

Claudio Dematté

Liberalizzazioni e privatizzazioni. Nuove regole per azionisti, manager e lavoratori

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Premessa

Quando nella primavera di quest’anno l’Italia fu accolta nel gruppo di paesi che hanno deciso di creare e di adottare l’euro, molti furono convinti che il più, in fatto di risanamento, fosse stato fatto. In effetti erano state portate a termine due operazioni di grande portata, entrambe assolutamente necessarie per sopravvivere in un mercato europeo unificato e per di più a moneta unica.

La prima operazione era stata innescata con gli accordi di concertazione triangolari (Governo, sindacati, Confindustria) del 1993 ed aveva come obiettivo – ora raggiunto – di rallentare contestualmente la dinamica salariale e l’inflazione, non essendo pensabile di accedere alla moneta unica con un differenziale di inflazione che avrebbe ben presto compromesso la competitività delle nostre merci rispetto a quelle degli altri paesi europei. La seconda si proponeva di ridurre il disavanzo annuo dei conti pubblici al di sotto del 3 %, in linea con gli impegni di Maastricht: anch’essa, pur sembrando al di fuori della nostra portata, è stata condotta in porto con successo, sia pure con qualche accorgimento contabile sulla falsariga di quanto fatto dagli altri partner europei.

Pochi avrebbero scommesso sulla capacità del paese di raggiungere in pochi anni due risultati che a tutti gli osservatori interni ed esterni sembravano irraggiungibili. L’essere riusciti a coronare con successo queste due grandi operazioni di risanamento macroeconomico è importante sul piano sostanziale, ma anche dal punto di vista psicologico: è una dimostrazione che, quando sono chiari gli obiettivi, quando sono evidenti i vantaggi nel l’aggiungerli e quando sono chiari i rischi del non raggiungerli, il paese riesce a trovare la volontà e le energie per rispondere positivamente anche alle cure più dure.

Preso atto di questi risultati ed anche dell’atteggiamento psicologico più positivo, va subito detto che per stare in un mercato unico europeo a moneta unica cogliendone le potenzialità, e attenuandone gli effetti negativi, le due grandi operazioni realizzate, per quanto necessarie non bastano. Il mercato europeo, sempre più libero da barriere e reso sempre più trasparente da un’unica moneta, innesca confronti di prezzi, comparazioni di costi, arbitraggi continui e scambi incrociati, calcoli di convenienza sui migliori luoghi di localizzazione produttiva, riesame delle dimensioni ottimali, fusioni ed altre operazioni destinate ad influenzare la distribuzione geografica dell’occupazione, la localizzazione del potere decisionale e quindi le gerarchie economiche e politiche all’interno dell’Europa.

In questo scenario in pieno movimento assumono grande importanza non solo i parametri macroeconomici, quali il tasso di inflazione, l’equilibrio della finanza pubblica o il livello del tassi di interesse, ma anche altri fattori più specifici, quali l’efficienza comparata dei diversi comparti del sistema produttivo e dei servizi ausiliari. Su questo fronte esistono nel nostro sistema marcati dualismi che vanno al di là di quello più noto Nord-Sud.

Vi sono settori caratterizzati da strutture di costo fortemente competitive, da una buona offerta di prodotti, da strutture organizzative e gestionali perfettamente in grado di misurarsi con i concorrenti europei ed extraeuropei. Vi sono invece attività deboli sul piano competitivo, con prodotti vecchi, senza alcun patrimonio brevettuale né investimenti in R&S, con sistemi produttivi obsoleti, al di sotto della scala ottimale, con costi fuori mercato. Anche se vi sono ovunque attività di questo tipo, molte di esse sono localizzate nel Meridione: altre sono vissute sotto ombrelli protettivi regolamentari o sono state a lungo sorrette da incentivi; altre sono anche di proprietà pubblica.

Come regola generale – con qualche eccezione che non modifica la sostanza dei fatti – si rileva che sono più pronte al confronto sul mercato europeo a moneta unica le attività che da più tempo si misurano con la concorrenza internazionale. Sono invece impreparate quelle che in un modo o nell’altro hanno potuto fare a meno di misurarsi con fornitori alternativi o, pur avendo sperimentato la concorrenza, hanno potuto sfuggire alle conseguenze negative, grazie al ripiano pubblico delle perdite o a sussidi di varia natura.

Il problema, tuttavia, non è solo e forse non è nemmeno quello di avere comparti e imprese a rischio. Questo rischio è comune a tutti i paesi europei nel momento nel quale si apre il grande gioco della concorrenza a moneta unica. Il rischio maggiore è invece quello che anche le imprese che per parte loro sarebbero competitive possano soccombere, perché nella catena del valore che porta alla realizzazione dei loro prodotti o servizi vi sono troppe componenti che per la loro natura devono essere necessariamente acquistate in Italia, anche se il loro costo o la loro qualità sono svantaggio si rispetto a quelli di cui godono i concorrenti. Lo svantaggio competitivo può derivare da inefficienze nei servizi pubblici in senso stretto, nei trasporti, nell’intermediazione creditizia, nelle telecomunicazioni; oppure nella fornitura dell’acqua, dell’energia, del gas o nella gestione dei rifiuti; ma anche in attività di tipo più privatistico inefficienti o troppo costose perché protette da barriere all’entrata, come i taxi, i servizi notarili o alcune prestazioni professionali.

Che vi siano per le imprese italiane svantaggi competitivi di questa natura è non solo percezione comune, ma è anche dimostrato dai dati. Molte di queste attività ausiliari che costituiscono la palla al piede delle imprese che devono competere sul mercato aperto sono anche generatrici di sperequazioni nel mercato del lavoro, perché garantiscono ai loro dipendenti condizioni di privilegio – maggiori salari, minore impegno a parità di salario, sicurezza del posto di lavoro a dispetto della minore produttività – a scapito degli altri lavoratori impegnati nei settori più esposti.

Ristrutturare queste attività è diventato dunque urgente non solo perché i prezzi e/o la bassa qualità dei loro prodotti sono componenti debilitanti nei confronti delle imprese che producono “tradable goods”, non solo perché molte di queste attività scaricano le loro inefficienze anche sui bilanci degli enti locali o dello Stato, ma anche per una questione di equità all’interno del mondo dei lavoratori. Il peso dell’aggiustamento per entrare nell’Europa, se grava solo su una parte del sistema produttivo e del corpo sociale, diventa insopportabile.

Per il resto dell’articolo si veda il pdf allegato.