E&M

1998/1

Gianni Canova

Mr. Bean: la vendetta dell'uomo senza qualità

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Mr. Bean - L’ultima catastrofe

Regia: Mel Smith

Interpreti: Rowan Atkinson, Peter MacNicol e Burt Reynolds

Gran Bretagna, 1997

Qualcuno vede in lui la versione “cattiva” di Monsleur Hulot: come il grande personaggio creato da Jacques Tati, anche Mr. Bean è un tipo goffo che si esprime a “borborigmi”, porta calzoni troppo corti ed è in guerra perenne contro gli oggetti.

Qualcun altro, soprattutto in Italia, lo considera invece come l’equivalente britannico di Fantozzi: il prototipo dell’individuo senza qualità, insaccato in una giacchetta di tweed sempre troppo stretta e condannato a commettere gaffes irreparabili.

Misantropo, ipocrita e meschino, il personaggio creato dal comico inglese Rowan Atkinson costruisce tutta la sua comicità sulla mimica invece che sulla parola. Mr. Bean, infatti, non parla. Tutt’ al più grugnisce, mugola, mugugna. Emette qua e là qualche suono inarticolato. Bofonchia un suo grammelot incomprensibile. E intanto fa le facce: strabuzza gli occhi perfidi, sventola le orecchie buffe e combina disastri.

In Inghilterra i suoi sketch, trasmessi dalla rete televisiva ITV, hanno registrato. ascolti da capogiro (si parla di 18 milioni di spettatori, più o meno come da noi per il Festival di Sanremo) e le videocassette con le sue gag sono diventate in men che non si dica un vero e proprio oggetto di culto in tutto il mondo: una sessantina di compagnie aeree le trasmettono in volo, mentre anche su Internet proliferano i “fans club” e i siti a lui dedicati.

Il segreto di tanto successo? Uno humour letale, fatto di tic, piccole nevrosi e terrificanti disastri quotidiani. Antipatico, egoista e impacciato, Mr. Bean distrugge puntualmente tutto ciò che tocca. Deve spegnere la luce in camera da letto? Spara al lampadario con una pistola ad aria compressa. Deve ridipingere la casa? Non trova di meglio che usare come pennello Il suo amatissimo orsetto di pelouche. E via distruggendo, all’insegna di un rapporto con gli oggetti totalmente distruttivo e defunzionalizzato: quello stesso che si ritrova anche nel primo lungometraggio interamente dedicato all’antieroe di Rowan Atkinson (Mr. Bean - L’ultima catastrofe, diretto dal regista Mel Smith), che presenta connotazioni, se possibile, ancora più catastrofiche ma singolarmente sintonizzate con lo scenario economico sociale della contemporaneità.

La storia è semplice ma efficacissima: la Grierson Gallery di Los Angeles ha appena acquistato da un museo francese un prezioso dipinto che gli americani considerano una gloria nazionale. L’acquisto, finanziato da un generale ignaro d’arte (“Non so distinguere un Picasso da un incidente stradale”) ma animato da fieri princìpi patriottico-nazionalisti, dev’essere celebrato con una cerimonia adeguata: così, il direttore del museo chiede alla National Gallery di Londra un esperto che venga a tenere una prolusione durante la cerimonia inaugurale. E al direttore della celebre “gallery” londinese non par vero di potersi sbarazzare del più idiota e insopportabile dei suoi impiegati, spedendo in America proprio il nostro Mr. Bean. Che sa d’arte ancor meno del generale americano ma tant’è: l’equivoco e lo scambio di persona sono da sempre il sale della comicità. In apparenza, il film rilancia l’immagine del “candido” o dell’“innocente”, privo di qualsiasi sapere specialistico-professionale, ma in grado di competere – proprio in virtù della sua congenita incompetenza – con tutti i linguaggi e tutti i saperi settoriali.

Come già Forrest Gump di Robert Zemeckis, anche il personaggio di Mr. Bean non sa nulla. Non sa far nulla. Eppure, paradossalmente, proprio per questo sa far tutto. Si adegua, si adatta, si conforma. Finito per caso nella sala operatoria di un pronto soccorso, estrae come per magia dalla pancia di un poliziotto ferito una pallottola che l’équipe medico-chirurgica non riusciva a individuare. Subito dopo, entrato nella camera di una ragazza in coma, la riporta in vita precipitando goffamente e involontariamente su di lei. E quando deve tenere il suo discorso alla cerimonia inaugurale, si conquista l’applauso dei presenti non dicendo assolutamente nulla, se non le banalità ovvie e informali che tutti sono in grado di capire all’ istante senza sforzo alcuno.

Il grado zero del linguaggio come viatico al successo? In parte, ma con qualche elemento in più, almeno sul piano dei meccanismi di produzione del simbolico. Mettiamola così: quanto più nel mondo “reale” e nel mercato del lavoro cresce la domanda di figure professionali iper-specializzate e detentrici di linguaggi e di saper i fortemente strutturati, tanto più il mercato dell’immaginario propone al pubblico del “villaggio globale” figure come quelle, appunto, di Forrest Gump o di Mr. Bean. Cioè la reincarnazione del modello dell’idiot savant. Dell’ignaro. Dell’incompetente che si mostra più efficace e funzionale di chi è portatore di una rigida competenza specialistica.

Come spiegare questa tendenza? Come terapia simbolico-compensativa dello stress provocato dell’iperspecializzazione monfunzionale? Come revanche dell’uomo qualunque? Come catarsi delle dinamiche produttive della società globalizzata? Probabilmente un po’ di tutto questo, Assieme al sogno segreto che anche una performatività distruttiva come quella di Mr. Bean (che, come si diceva, sfascia e distrugge tutto quello che tocca) possa risultare alla fine, in qualche modo, produttiva, Mr. Bean esprime, insomma, il riscatto dalla paura che alligna in ciascuno di noi di “non essere all’altezza” dei compiti assegnatici. E lo fa attraverso un’originale diagnosi dei meccanismi di produzione del valore nella società post-moderna. Si prenda il tema (esilarante) del quadro da 50 milioni di dollari “rovinato” dall’incompetenza del nostro maldestro eroe. Già di per sé quel quadro è una sorta di “falso” storico. Mr. Bean lo inzacchera involontariamente, poi lo ripulisce con un acido che lo devasta irreparabilmente, quindi penetra nottetempo nel museo e sostituisce l’originale con un poster, certo (nel suo candore) che nessuno si accorgerà della differenza. Il che, puntualmente, accade. Improbabile? Certo, ma poco importa.

L’episodio del film ci suggerisce anzi che nell’ era dei simulacri e della virtualità le stesse categorie di “copia” e di “originale” perdono senso e valore, diventano improponibili. Non esistono che copie. Falsi. Cloni. Quel che conta è l’apparenza. Conta che l’apparenza inganni. E Mr. Bean inganna con la “sua” apparenza. Sembrava l’unico inetto in un mondo di super-specialisti, in realtà alla fine è l’unico che se la cava. L’unico che sa rovesciare ogni catastrofe in un successo. Tanto che gli americani si accontentano di stampare l’immagine del quadro su ogni oggetto possibile, mentre lui si porta a casa l’“originale”, sia pure sfigurato. Come un “barbaro” venuto da fuori, trionfa sul “sapere” della capitale dell’impero (Los Angeles). Bel segno. Se si pensa poi al fatto che tutto il film è costruito sul riuso di sketch già utilizzati e consumati in Tv (la rasatura della lingua, il sacchetto col vomito, il rubinetto che schizza i pantaloni), siamo davvero di fronte a un caso molto interessante di economia del simbolico. Forse, perfino a una metafora sui paradossi performativi della società post-industriale.