E&M

1998/1

Claudio Dematté

Tecnica, progettualità e arte politica: tre ingredienti essenziali della funzione manageriale

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Per fortuna, di tanto in tanto la professione manageriale, così incline a diventare supponente quando vince qualche battaglia, e i seriosi studi di management vengono scossi da qualche provocazione che ridimensiona le ambizioni, che costringe a pensare, che obbliga a fare i conti con la realtà che sfugge alla catalogazione, ai modelli, alla pretesa “scientifica” di imbrigliarla o alla volontà autoritaria di dominarla. Questa volta la provocazione viene dall’interno della professione, da parte di un dirigente che ha accumulato sufficienti esperienze – ed esperienze di tale portata – da avere legittimità e credibilità per sfidare alcuni indirizzi verso i quali professione e studi si stanno in camminando. Mi riferisco al libro, appena pubblicato da Laterza, di Pier Luigi Celli il cui titolo (L’illusione manageriale) – contiene intera la tesi che il sottotitolo sviluppa in modo ancora più aggressivo “I limiti culturali dei manager italiani, pronti a fare del bilancio una religione ma spesso incapaci di comprendere la realtà che li circonda”.

Di fronte ad un libro come quello di Celli forse si dovrebbe dare un semplice consiglio: leggetelo e rifletteteci. A commentarlo si rischia di inserire cautele forse opportune, ma irrilevanti rispetto al quesito di tondo; di precisare che il manager verso il quale volge il suo sguardo critico non è quello che le scuole e le imprese vogliono formare, ma il sottoprodotto scadente di un progetto di vita di formazione povero; di tare rilevare che il manager ideale a cui Celli si riferisce è quello di un superuomo capace di conciliare tecnica, conoscenze ampie e visione mentre nel mondo di oggi, purtroppo, si toccano con mano i limiti dell’uomo rispetto all’accumulo dei saperi. A commentarlo si corre anche il rischio di misurarsi con il suo linguaggio ricco, carico di sfumature, sottile e a volte volutamente barocco: tutto il contrario di quello a cui approda l’ambizione razionalizzatrice degli studi di management.

Ma la provocazione di Celli è troppo importante per limitarsi all’invito alla lettura. Va invece colta come un’occasione per riflettere sulla funzione manageriale e imprenditoriale, così come sull’attività di formazione che dovrebbe preparare all’esercizio di tale funzione.

Gli spunti alla discussione sono molti, ma sono sette le aree sulle quali concentrerò la mia attenzione:

1.     l’orizzonte temporale e spaziale dell’azione manageriale;

2.     il ruolo non esaustivo della razionalizzazione;

3.     la costruzione di senso e di consenso;

4.     la supposta antitesi fra tecnica e “politica”;

5.     la gestione dell’ordinario e dello straordinario (e la propensione al rischio);

6.     il linguaggio come strumento e come specchio;

7.     la discrasia fra vita di lavoro e vita privata.

Su questi sette punti non ho intenzione di fare duetto con Celli.

Ritengo più proficuo raccogliere le sue provocazioni, ricollegarle ad altre dello stesso o d’altro genere, inserirle nel filone dei miei pensieri, restituirle ai lettori affinché concorrano a “fare pensare”, in questo ricongiungendomi al programma ideale di Celli. In questo percorso si genera per forza un raccordo anche con la colta postfazione al libro di Celli da parte di Umberto Galimberti che postula “la fine dell’umanesimo nell’età della tecnica” (pag. l47).

Per il resto dell’articolo si veda il pdf allegato.