E&M

1997/5

Gianni Canova

L'obbedienza e la rivolta

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Il principe di Homburg

Regia: Marco Bellocchio

Int.: Andrea Di Stefano e Barbara Bobulova

Italia, 1997

A volte, per veder chiaro nel presente, conviene rifarsi ai classici del passato. Se sono davvero “classici”, pur essendo stati generati in un contesto socio-culturale lontanissimo dal nostro, posseggono una lucidità prospettica e una lungimiranza analitica che consentono loro di offrire un contributo per nulla obsoleto alla lettura e all’interpretazione del nostro tempo. Capita con Shakespeare (sempre) come con Molière (spesso), con Balzac (quasi sempre) come con Dostoevskij (quando si hanno a disposizione programmi di traduzione adeguati). Anche una pièce apparentemente minore ma folgorante nella sua struttura problematica come Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist, scritta nel 1811 (cioè l’anno del suicidio dell’autore) ma pubblicata solo un decennio più tardi, mette a fuoco un conflitto e un dilemma davvero paradigmatici nella loro perdurante esemplarità. Se poi a mettere in scena il testo e ad adattarlo per il grande schermo è un regista con le antenne sempre ben sintonizzate con il presente come Marco Bellocchio, ecco che l’apologo classico di von Kleist si trasferisce con assoluta naturalezza dal clima pre-moderno della Mitteleuropa prussiana alla nostra difficile e in quieta contemporaneità. La storia è nota, ma val la pena di richiamarla per sommi capi: alla vigilia di uno scontro con l’esercito svedese, il principe danese Friedrich Arthur von Homburg si aggira come un sonnambulo, intrecciando una corona d’alloro, nel giardino del castello di Fehrbellin. In uno stato febbrile, si ritrova tra le mani un guanto di Natalia, nipote del Grande Elettore, della quale è innamorato. Più tardi, in una sala del maniero, il giovane segue distrattamente le istruzioni per la battaglia. Il Grande Elettore raccomanda a tutti di osservare scrupolosamente le consegne ricevute: in particolare si rivolge al principe, che già in passato ha disobbedito agli ordini. La mattina seguente infuria la battaglia: il principe scalpita e freme, non si limita a tenere la posizione, come gli è stato ordinato, e va all’ attacco con i suoi uomini. In tal modo consente al suo esercito di vincere la battaglia, ma lo fa contravvenendo agli ordini ricevuti. Al ritorno al quartier generale, l’Elettore chiede che il comportamento del principe, due volte recidivo, venga giudicato da una corte marziale, che lo condanna a morte. In preda al panico e al terrore, il principe chiede pietà. Ma quando inaspettatamente gli viene concessa la grazia, il giovane la sente come disonorevole, capisce la necessità dell’ obbedienza e si dichiara pronto a morire.

Al centro del funzionamento drammaturgico dell’ opera si scontrano e si confrontano i grandi temi conflittuali kleistiani: la ragion di stato e la ragione individuale, il dovere e il volere, l’obbedienza e la ribellione. Da un lato, è la Legge, collettiva e universale. dall’altro il comportamento di un individuo che risulta ma solo in una contingenza particolare: se il principe avesse rispettato la Legge, tutti – a cominciare da coloro che avevano fondato la Legge stessa, stabilendo regole e strategie di comportamento – sarebbero stati sconfitti e avrebbero perso sul campo; al contrario, con il suo comportamento irruente e impulsivo, il principe di Homburg salva il suo popolo e il suo regno dalla sconfitta e dall’ asservimento, ma lo fa – appunto – disobbedendo alla Legge. Dove sta la ragione, dove il torto? La lettura di von Kleist operata da Bellocchio ha il merito di mostrare come il contrasto tra il formalismo della Legge e il sentimento individuale di giustizia risulti inconciliabile, nel senso che entrambi hanno una parte di ragione: ha ragione all’inizio il principe; rivendicando a sé e alla sua azione il merito di aver conseguito una vittoria altrimenti improbabile, ma ha ragione anche l’Elettore nel suo rifiuto di approvare pubblicamente un comportamento “anarchico” e ribelle che – se non opportunamente sanzionato – rischierebbe di legittimare ogni futura infrazione delle regole, minando alle basi la stabilità stessa del sistema. E proprio qui si annida il nocciolo tragico dell’ opera, il suo respiro non consolatorio né riconciliante: in una situazione come quella immaginata in Il principe di Homburg è impossibile ripartire con ragionevole sicurezza torti e ragioni. Il mondo dell’economia e della finanza si trova spesso in situazioni analoghe: da un lato un sistema di regole consolidato e unanimemente condiviso, dall’altro un comportamento individuale (la scelta di quel manager, l’azzardo di quell’imprenditore) che decide di non conformarsi ai codici vigenti, sceglie un’altra strada e – a sorpresa – vince, dimostrando l’inefficacia delle regole e delle istruzioni di partenza. Chi ha ragione? Il film di Bellocchio – come la pièce di von Kleist – sceglie di lasciare aperto l’interrogativo. Meglio: in apparenza, alla fine, il principe accetta la Legge dei Padri e vi si conforma. Sacrifica l’intraprendenza del proprio gesto alle esigenze “superiori” del sistema. Sceglie romanticamente di fare di sé un prototipo dell’ eroe tragico, soffocato e vinto dalla morsa di un dilemma irresolubile. Di fatto però tanto il film quanto l’opera teatrale da cui il film è tratto non riescono a nascondere la loro simpatia per le ragioni del giovane ribelle. In particolare un regista come Bellocchio, da sempre dalla parte dei figli nella rivolta che li oppone alla Legge paterna (basta pensare a film come I pugni in tasca o Nel nome del padre), continua – anche da padre (Il principe di Homburg è prodotto da suo figlio) – ad essere interessato soprattutto alle ragioni sentimentali dei figli ribelli. Anche quando riconosce ai padri (e alla loro legge, che è ormai anche la sua) una parte di ragione, non può fare a meno di continuare a privilegiare il punto di vista dei figli. L’eroe del film, in fondo, è il principe, non l’Elettore. E qui sta il dramma: perché nella vita, come nella finzione, siamo sempre più affascinati da chi infrange la Legge vincendo piuttosto che da chi deve sopportare l’onere di ribadire il valore della Legge, anche quando questa risulta perdente. Ma in ciò sta il cinismo della Storia le dell’economia): nell’usare anche le vittorie di chi trasgredisce e innova per riconfermare, di fatto, l’intangibilità del sistema. O il suo desiderio di perpetuarsi comunque nel tempo. Se il destino dei figli è quello di ribellarsi ai padri, il destino dei padri è quello di cercare di resistere agli attacchi dei figli: così va la Storia. Così, forse, funziona anche il mercato.