E&M

1997/4

Nuvole in viaggio

Regia: Aki Kaurismaki

Int.: Kati Outinen, Kari Vaananen, Sakari Kousmanen

Finlandia, 1997

Un buon economista dovrebbe avere gli occhi sempre ben allenati a guardare le nuvole. A leggerle, a interpretarle. Perché le nuvole sono mutevoli e cangianti. Non hanno ancora assunto una forma che subito la lasciano e si trasformano. Lievemente, ma incessantemente. Senza tregua. Proprio come accade con le forme del mondo: con i rapporti di forza, con le tendenze del mercato, con gli scenari economici e finanziari. Del resto, che le nuvole siano importanti proprio (o anche) per la loro congenita mutevolezza lo intuiva nitidamente già William Shakespeare. Che in Amleto, non a caso, ci propone un dialogo così congegnato:

Amleto Guardate quella nuvola lassù. Non vi pare che richiami la forma di un cammello?

Polonio Sacripante. È un cammello davvero.

Amleto O piuttosto una donnola...

Polonio Infatti, ha la forma di una donnola.

Amleto Ma non pare una balena?

Polonio Tale e quale. Una balena.

(Atto III, scena seconda)

Che forma hanno, davvero, le nuvole di Amleto? La domanda, forse, non è quella giusta. La domanda giusta è: perché Amleto cambia continuamente interpretazione circa la loro forma? Per una congenita instabilità (per un’incertezza?) del suo punto di vista? O per una consolidata flessibilità che gli consente in tempo reale di adeguare la sua rilevazione al mutare della forma dell’oggetto? Data la natura delle nuvole (e di Amleto), si può tranquillamente propendere per la seconda ipotesi. Mentre il ciambellano Polonia si adegua alle interpretazioni già date e attende che qualcun altro lavori per lui, Amleto è un esploratore del senso. Un sensore del mondo. Uno che vede il mondo in perenne movimento e che non rinuncia alla fatica di leggerlo. Anche quando questa fatica sfocia nel tragico, o quando sfiora gli abissi dell’essere.

Anche uno dei più bei film della stagione parla di nuvole. Meglio: allude alle nuvole, anche se di fatto non le mostra mai. Si tratta di Nuvole in viaggio (il titolo italiano è ricavato da un verso di Eugenio Montale) del finlandese Aki Kaurismaki ed è uno dei più lucidi apologhi sul post-fordismo che si siano visti negli ultimi mesi sugli schermi.

La scena è a Helsinki, in una città gelida, malinconica e lunare resa dal regista con tinte dai contorni netti e dai cromatismi forti (rosso-smalto, blu-notte, verde-pino). Al centro dell’intreccio una coppia come tante: lei fa la capo-cameriera in un ristorante di lusso, lui guida i tram per la locale azienda di trasporti. Un giorno, all’improvviso, restano entrambi senza lavoro: l’azienda tramviaria taglia le linee e il personale e lui finisce per colpa del caso – tra gli autisti licenziati, mentre lei viene scaricata assieme al cuoco e al portiere dalla nuova proprietà che rileva il ristorante.

Per i due è l’inizio di una caduta vertiginosa: impegnati a cercare invano un nuovo posto di lavoro, per sopravvivere dilapidano gli ultimi risparmi, vendono l’auto e il televisore e quando si ostinano a infilarsi in rapporti ambigui di la varo dipendente salariato non solo non ne ricavano un soldo ma finiscono anche beffati e bastonati. Lo sguardo gelido di Aki Kaurismaki (che aveva già firmato un prezioso apologo sul lavoro fordista con La fiammiferaia del 1989) è implacabile e tagliente nel mettere in scena attraverso brevi quadri staccati il progressivo "prender forma" della catastrofe e nel mostrare i contraccolpi devastanti che l’insostenibile situazione economica produce anche sul legame affettivo e sentimentale che lega i due protagonisti.

La svolta arriva di nuovo all’improvviso e si verifica – per riprendere la metafora iniziale – quando lei comincia a guardare il mondo e le sue leggi (le nuvole?) con un occhio nuovo. Quando prova cioè a cambiare le regole del gioco, smettendo di cercare un posto di lavoro in un ristorante e decidendo invece di aprirne lei uno nuovo. Il film di Kaurismaki è esatto e rigoroso nel descrivere le difficoltà incontrate, la diffidenza delle banche, la fatica necessaria per convincere eventuali investitori ad aver fiducia nel progetto. Ma ormai il salto è fatto, la rottura – epistemologica, oltre che sociologica – si è verificata. La protagonista ha capito che il mondo cambia forma con la velocità delle nuvole e si adegua: invece che continuare a rivendicare per sé e per il marito un posto nel vecchio ruolo, dentro una forma-mondo che non esiste più, rovescia il gioco delle parti e si inventa un ruolo nuovo nel mondo che è cambiato. La morale è quella un po’scontata sulla necessità dell’intraprendenza individuale nella società post-industriale? Non proprio, non solo. Nel film di Aki Kaurismaki c’è qualcosa di più, qualcosa di diverso. Quello stesso qualcosa che affiorava anche dalle parole di Amleto; la consapevolezza della necessità di essere non solo agenti attivi nell’interpretazione del mondo, ma di sapersi anche adeguare alla sua mutevolezza.

L’ultima sequenza del film è da questo punto di vista esemplare: il nuovo ristorante ha da poco aperto i battenti e per la prima volta registra il tutto esaurito. La protagonista – che per tutto il film ha mantenuto un’espressione enigmatica e dolente – esce all’aperto, sulla strada, si accende una sigaretta e guarda in alto. Il marito (che lavora come barman nel nuovo locale) la raggiunge soddisfatto. Primo piano sul volto dei due che per la prima volta sorridono assieme. Che cosa guardano? Le nuvole, senz’altro. Ma noi non le vediamo. Aki Kaurismaki ci impedisce di essere come Polonia e di adeguarci alla loro (amletica?) visione.

Ora tocca a noi guardare. Tocca a noi provare a farlo, e a dare un senso a quel che vedremo. Fuori dal cinema, dopo la fine del film.