E&M

1997/2

Claudio Dematté

Teoria del valore: serve davvero per guidare meglio le imprese?

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Nella continua ricerca per fornire punti di riferimento sempre più affinati a chi, dovendo dirigere imprese, deve discriminare fra campi d’azione alternativi è emersa negli ultimi anni – si è quasi imposta – una nuova impostazione: quella di assumere come obiettivo da massimizzare non tanto il reddito, quanto piuttosto il valore dell’impresa. Ad essere più precisi, il valore del capitale economico dell’impresa, ovvero una grandezza con connotati specifici, anche se non sempre di facile misurabilità.

1. Le carenze del criterio della massimizzazione del reddito

Questa nuova impostazione nasce da critiche che a più riprese si erano addensate sul principio della massimizzazione del reddito che per anni aveva costituito il caposaldo centrale della gestione: critiche in parte di natura concettuale, in parte di matrice tecnica.

Quelle di natura concettuale, spesso con sfondo anche ideologico, avevano attaccato con varie argomentazioni l’idea che la vita dell’impresa potesse essere regolata da un principio e da un criterio decisionale che tengono conto degli interessi di un solo soggetto, il conferente di capitale di rischio, relegando tutti gli altri soggetti apportatori di altri fattori di produzione, altrettanto importanti e talvolta anche più critici, in posizione secondaria.

Le critiche a contenuto tecnico si erano invece appuntate sulla inadeguatezza del principio del la massimizzazione del reddito in ragione delle difficoltà nel misurarlo. Il reddito è infatti una tipica grandezza di periodo che scaturisce, oltre che dalle rilevazioni sistematiche della contabilità, anche dalle imputazioni e dalle stime di alcune grandezze che esplicano i loro effetti nel tempo sull’arco di più esercizi. Queste imputazioni e queste stime sono difficili da determina re perfino da parte di soggetti neutrali con piena conoscenza della vita aziendale. A maggior ragione sono di difficile valutazione da parte di soggetti esterni non coinvolti nella gestione. Ne consegue che, là dove il controllo è distinto dalla proprietà e si pone il problema da parte di questa di delegare la gestione, il mandato conferito ai manager di dirigere l’impresa seguendo il principio della massimizzazione del reddito non è agevolmente controllabile, quindi in parte inefficace. Queste difficoltà ad assumere il reddito come metro di misura della qualità della gestione sono aumentate durante gli anni di alta inflazione, per l’effetto distorsivo che questa aveva sui fenomeni contabili. In assenza di una specifica contabilità per l’inflazione, la presenza di redditi contabili positivi non era affatto indicativa di buona gestione; spesso celava anzi un depauperamento del patrimonio aziendale.

Sempre in merito alle carenze tecniche, molte critiche hanno rilevato l’indeterminatezza del criterio della massimizzazione del reddito ove non venga contestualmente definito l’orizzonte temporale a cui esso deve essere riferito. Se dovesse essere assunta come orizzonte la durata dell’esercizio, si porrebbero i problemi, di cui si è già detto, relativi alle poste correttive di chiusura del bilancio; ma sorgerebbero anche altri problemi. Infatti, se la qualità della gestione viene giudicata in base ai redditi prodotti in un esercizio, essa può essere manipolata, non solo con le imputazioni e le stime di fine periodo, ma anche con manovre tutt’altro che utili per il futuro dell’impresa, come il postponimento di spese necessarie per rafforzare la competitività o il forzato anticipo di ricavi futuri.

D’altro canto, se il criterio della massimizzazione dei profitti viene riferito ad un periodo pluriennale, quale sequenza di redditi è da preferirsi? Quella rappresentata da una serie di redditi contenuti seguiti negli anni successivi da redditi più consistenti o la sequenza inversa?

Vi è un altro problema che si pone quando si definisce l’obiettivo dell’impresa e quindi il metro di valutazione della qualità della gestione – con il principio della massimizzazione del reddito. Come si può accertare che il reddito sia stato effettivamente massimizzato? Mentre se l’obiettivo attorno al quale fare ruotare la gestione non è tanto la massimizzazione, ma il raggiungimento di un determinato livello, come viene definito tale livello e con riferimento a quali variabili? Sempre dal punto di vista tecnico, alcune obiezioni erano sorte alla luce delle nuove teorie della finanza basate sull’equilibrio dei mercati. In base a queste teorie, ciò che è necessario per garantire la capacità dell’impresa di raccogliere capitali non è tanto la massimizzazione di un valore assoluto, quale il reddito, ma piuttosto la capacità di offrire al capitale proprio un rendimento in linea con quello offerto dal mercato finanziario per impieghi di pari rischio.

Ma, a ben vedere, vi sono due altre circostanze importanti che hanno messo in crisi il principio della massimizzazione del reddito come cardine ordinatore della gestione: da un lato il rilievo sempre maggiore, per determinare la competitività di un’impresa, delle competenze e delle attività intangibili; dall’altra la crescente separazione fra proprietà e direzione di impresa. Il primo aspetto è rilevante perché quanto più la competitività è funzione di spese che si collocano come natura in un’area grigia, potendosi considerare spese correnti o alternativamente investimenti, tanto più diventa difficile monitorare i risultati osservando la formazione del reddito di esercizio. Se poi lo stesso accumulo delle competenze – fra le quali vi è anche la creatività, la applicazione, la capacità di anticipare i cambiamenti – è funzione non solo degli investimenti, ma del clima organizzativo e dei modelli di ripartizione del valore aggiunto, a maggior ragione la mera massimizzazione del reddito può produrre effetti controproducenti.

Circa l’altro aspetto, qualcosa si è già accennato. La necessità di avere un criterio di scelta è sempre presente, anche quando è la proprietà stessa a gestire l’impresa. Ma quando la proprietà si separa dalla gestione, il criterio deve essere tale da consentire al mandante di verificare se il mandatario vi aderisce o se possa eluderlo. Da questo punto di vista, e per tutti i motivi tecnici già ricordati, il principio della massimizzazione dei redditi presenta forti punti di debolezza. Un contributo importante per illuminare i problemi che si pongono nell’azione collettiva alla quale partecipano più soggetti è scaturito dalla teoria dell’agenzia, che ha evidenziato sia la necessità di affinare le strutture contrattuali per creare la giusta combinazione di incentivi e di sanzioni sia il bisogno di raccordare la formazione del valore alla sua distribuzione.

Per tutte le ragioni indicate, a partire dall’inizio degli anni Ottanta alcuni studiosi e alcuni operatori hanno proposto di sostituire il principio della massimizzazione del reddito con altri, ipotizzati di più facile applicazione, ma soprattutto di maggiore corrispondenza con la finalità di tutelare gli interessi degli azionisti. Nella maggior parte dei casi, questi sforzi di l’i definizione dell’obiettivo attorno al quale fare ruotare le decisioni hanno tenuta ferma proprio quest’ultima, la finalità generale: i soggetti nel cui interesse deve essere compiuto questo sforzo di affinamento del tableau de bord rimangono sempre gli azionisti.

Nel frattempo, però, altri filoni di ricerca, indipendenti da questo, hanno lavorato su un quesito più di fondo: si erano interrogati sulle condizioni necessarie per garantire la sopravvivenza e il successo dell’impresa moderna, in particolare di quella impresa che vede gli azionisti nel ruolo di finanziatori, essendo quello imprenditoriale e gestionale in mano al management. Da questi studi sono emerse evidenze che i risultati delle imprese dipendono dalla qualità delle interrelazioni che si determinano fra coloro che hanno le competenze tecniche e direzionali e coloro che apportano il capitale di rischio. Il management non si piega facilmente a produrre extra-redditi, ma nemmeno extra-valore patrimoniale per altri, a meno che non vi sia obbligato o non ne abbia convenienza. Anche da queste riflessioni sono emersi spunti che gettano dubbi sia sul principio della massimizzazione del reddito sia sulla teoria della massimizzazione del valore degli azionisti, così come viene normalmente presentata.

Per il resto dell’articolo si veda il pdf allegato.