E&M

1997/1

Claudio Dematté

Il momento di cambiare è arrivato anche per le banche

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Premessa

Le banche, invece, fino a poco tempo fa sembravano immuni da tante pene. Qualche incidente c’è stato anche nelle loro file; ma nulla in confronto a quanto è accaduto alle grandi imprese, quasi tutte entrate in crisi e uscite – quelle che ne sono uscite – smagrite, riconfigurate e trasformate. E nulla in confronto a ciò che è accaduto a centinaia di migliaia di imprese minori spazzate via dai venti della crisi o costrette a rivedere l’intero loro assetto competitivo, dai prodotti ai sistemi di distribuzione, dai processi produttivi alla logistica, dagli approvvigionamenti alla gestione della finanza.

A dire il vero, già all’inizio degli anni Ottanta alle banche erano giunti segnali d’allarme. Alcuni studiosi e qualche banchiere lungimirante avevano avvertito che l’attività di intermediazione sarebbe rallentata; qualcuno aveva creduto di intravedere già allora l’approssimarsi di una frenata dei ricavi, mentre i costi continuavano la loro ascesa; qualche avvertimento era giunto anche sul fatto che la qualità dei crediti si stava deteriorando, com’era prevedibile alla luce dell’andamento turbolento dell’economia. Ma gli avvertimenti, per il semplice fatto di essere stati lanciati e di non essere stati seguiti subito da fatti vistosi, invece di indurre le banche a prepararsi ai tempi nuovi, le hanno rese ancora più scettiche verso i profeti di sventura.

Salvo qualche eccezione, la maggioranza di esse si è limitata a fare piccoli o talora anche non indifferenti aggiustamenti, ma pur sempre al margine, senza modificare sostanzialmente né il modus operandi né la dinamica dei costi e ricavi. La cautela che giustamente deve accompagnare i processi di trasformazione delle banche – data la loro natura di infrastrutture estremamente delicate – da noi è stata a lungo cullata anche dalle autorità di vigilanza, più preoccupate di evitare i rischi dell’instabilità dei sistemi finanziari che le controindicazioni delle inefficienze che inevitabilmente si sviluppano all’interno di sistemi troppo protetti.

Anche all’estero le vicende delle banche sono state fortemente influenzate dalla politica delle autorità nei loro confronti. Nei Paesi dove più alta è la fede nei sistemi di mercato – Stati Uniti e Gran Bretagna – la bilancia fra stabilità ed efficienza si è molto presto inclinata verso il secondo termine. La liberalizzazione intesa come strumento per sollecitare maggiore concorrenza – dalla quale ottenere maggiore attenzione alle esigenze dei clienti e più pronto e più pieno sfruttamento dei processi produttivi a minor costo – è stata attivata già negli anni Ottanta. L’effetto è stato quello di investire le banche di un’ondata di forti pressioni che hanno portato alcune a energici processi di ristrutturazione e di riorganizzazione e altre allo stato di crisi conclusosi con chiusure, acquisizioni, fusioni o accorpamenti di altro genere.

Nell’Europa continentale il tempo di reazione nelle banche, come negli altri settori, è diverso e diverse sono le vie per l’aggiustamento.

Per necessità hanno dovuto o hanno saputo reagire più velocemente i sistemi bancari dei Paesi minori: quello olandese, svedese o finlandese. Più lenti quelli dei Paesi maggiori. Ma fra questi l’Italia si distingue per un’inerzia ancora più marcata.

Ora – dopo la crisi che ha colpito le grandi banche del Sud, ma che ha lasciato segni profondi anche su alcune banche del Nord – tutti sembrano essere convinti che sia arrivato il momento della verità. Qualcuno lo ha preannunciato con immagini forti, parlando del sistema bancario come della siderurgia degli anni Novanta. Altri smorzando di più i toni, ma confermando la sostanza. In verità, la situazione si prospetta davvero problematica e i tempi per affrontarla sono sempre più stretti, sia perché le pressioni già in atto restringono gli spazi di manovra, sia perché le difficoltà a mantenere livelli di redditività adeguati, che si manifestano già al livello del margine lordo di gestione, sono aggravate dalle crisi degli affidati che impongono consistenti rettifiche e accantonamenti per perdite su crediti. Inoltre, incombe la moneta unica, con tutto ciò che essa comporta per la dinamica competitiva, per i flussi di ricavi da cambi e per gli investimenti incrementali in sistemi informativi. Il fatto che il sistema bancario versi in tali condizioni non è cosa di poco conto. Non interessa solo le banche. Interessa tutti. Anzi, è un’importante questione nazionale, posto che le banche costituiscono una infrastruttura essenziale del Paese, come quella dei telefoni o dell’energia elettrica, la cui crisi non si arresterebbe all’interno del settore, ma coinvolgerebbe anche tutte le altre unità del sistema economico. Di una crisi siffatta le imprese e le famiglie, che non amano le banche, ritenendole burocratiche, scarsamente attente alle loro esigenze e avvantaggiate da posizioni di rendita, avrebbero ben poco da gioire, non traendone alcun vantaggio, ma solo danni. Per questo motivo vale la pena di riflettere sul come si possa sciogliere questo difficile nodo.

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