E&M

1996/5

Gianni Canova

Il volto ambiguo della leadership

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Riccardo III

Regia: Richard Loncraine

Int.: Ian McKellen e Annette Bening

Usa, 1996

Nixon - Gli intrighi del potere

Regia: Oliver Stone

Int.: Anthony Hopkins, Joan Allen ed Ed Harris

Usa, 1996

C’è un significativo denominatore comune che lega in modo suggestivo le due più singolari figure di “leader” messe in scena dal cinema internazionale nel corso del 1996: lo shakespeariano Riccardo III, interpretato da Ian McKellen e diretto da Richard Loncraine, e il Richard Nixon di Oliver Stone, impersonato sullo schermo da un Anthony Hopkins più duttile e mimetico che mai. Entrambi partono da un handicap di immagine, da una vistosa e riconosciuta carenza di carisma: deforme e storpio il primo, goffo e sgradevole il secondo, offrono entrambi un modello di leadership (o di autorità) costruita sul campo e fondata – perlomeno da un punto di vista psicologico-motivazionale – sul desiderio di riscattare (o, forse, perfino di vendicare) il gap di partenza.

Il Riccardo III di Shakespeare, com’è noto, più che una tragedia è un melodramma fosco di orrori regali e di profonde, indicibili perversioni. Benché i critici non l’abbiano mai annoverato tra i capolavori shakespeariani, si tratta comunque di un testo che – fin dalla sua composizione (intorno al 1592) – ha sempre attirato moltissimo sia il pubblico che gli attori di teatro, smaniosi di confrontarsi con un protagonista che non ha altra giustificazione per i suoi atti se non la sua deformità: un uomo animato da fantasmi torbidi, circondato da cortigiani opportunisti e capace di compensare con la furbizia, il cinismo e il sangue freddo la scarsa benevolenza che la natura ha mostrato nei confronti del suo corpo.

La sceneggiatura del film di Loncraine (firmata a quattro mani dal regista e dall’interprete principale) sposta l’azione nell’Inghilterra degli anni Trenta del nostro secolo, ma la “modernizzazione” (sempre rischiosa di fronte a un “classico”) non toglie nulla alla cristallina eloquenza del testo shakespeariano. E già all’inizio, quando Riccardo pronuncia il celebre monologo (“L’inverno del nostro scontento è terminato... “) in cui sfoga la sua rabbia per la propria deformità (“...io che san deforme, non finito, mandato anzi tempo in questo spirante mondo...”) e annuncia le proprie minacciose intenzioni (“...ho deciso di assumere, per contro, la parte del cattivo... e ho tramato complotti d’ogni sorta, e pericolose premeditazioni...”), lo sentiamo come un personaggio torbido e inquietante, ma anche capace di sedurre e di affascinare. “Riccardo ama Riccardo”, dice un’altra delle sue celebri battute: e il film rende alla perfezione quell’impasto di narcisismo e di fantasia di potenza che è alla base delle azioni del personaggio, e che colloca il suo agire in una dimensione decisamente pre-etica. Riccardo è detestabile ma anche affascinante. Forse è affascinante benché sia detestabile, forse – in modo ancora più ambiguo – affascina proprio perché inquieta. La sua totale assenza di moralità è riscattata dai tempi rapidissimi con cui agisce e decide, dagli scatti nervosi e spiazzanti di un cervello che non sta mai fermo, e che considera ogni obiettivo raggiunto solo come un traguardo provvisorio e parziale per nuovi e possibili obiettivi futuri. Machiavellico? Forse, ma solo in parte. Forse, la figura del tiranno che emerge dal film di Loncraine ripropone con forza quel nodo ambiguo di attrazione e repulsione che chi detiene la leadership esercita da sempre sui suoi sottoposti.

Diverso ma analogo il personaggio di Richard Nixon portato sugli schermi da Oliver Stone. Anche in questo caso il film ci pone di fronte a una figura paranoica e afflitta da vistosi complessi di inferiorità (“l’incapacità di sorridere, la gestualità impacciata e burattinesca, un ghigno – rimproveratogli dagli avversari – da vero e proprio “uomo senza qualità”, ma posseduto da un delirio di onnipotenza). Il presidente dello scandalo Watergate appare nel film come un ambizioso imbroglione, uno specialista – anche in politica – del gioco delle tre tavolette: un campione di intrighi, un alfiere del doppio gioco. Eppure. Eppure, anche il punto di vista del “democratico” Stone non riesce a confezionare un film a tesi contro il “repubblicano” Nixon. Né si limita – come hanno scritto in molti – a condannare il politico e a salvare l’uomo. Molto più profondamente, Stone appare di volta in volta attratto e disgustato dal personaggio che mette in scena, e comunque affascinato dalla sua ferrea volontà, dalla sua doppiezza, dall’astuzia con cui sa valorizzare la propria congenita mediocrità fio no a diventare un’icona della pop culture americana (si veda anche solo l’emblematica sequenza della visita di una rockstar come Elvis Presley alla Casa Bianca, con la foto dei due che si stringono la mano sovrastata dalla scritta: “The President meets the King”).

Colossale, fluviale e smisurato, il film di Stone oscilla perennemente – proprio come il Riccardo III di Loncraine – fra l’ammirazione e la ripulsa, la condanna e la fascinazione. Fino a che una battuta del personaggio svela, forse, le fondamenta della sua capacità di sedurre: “Quando gli americani guardano John Kennedy – dice a un certo punto Nixon nel film – si vedono come vorrebbero essere, quando guardano me si vedono come sono”. Ecco: un aspetto sempre troppo trascurato nelle analisi del consenso di cui godono certi leader sta proprio qui, nella loro capacità di trionfare (e di portare “al potere”) i difetti, le ipocrisie e le meschinità dell’uomo comune. Nel far sentire che il potere può arrivare comunque. E nell’offrire a tutti un possibile terreno di identificazione.

Riccardo III si ama, Richard Nixon – probabilmente – no. Eppure entrambi sono accomunati dall’abilità con cui aggirano gli handicap di partenza, trasformandoli in “valore aggiunto” personale o addirittura in un’imprevedibile chance di vittoria.

Più che “gli intrighi del potere!’entrambi i film descrivono, in fondo, una strategia del successo che – al di là dell’esito finale – affascina proprio per l’irrisolta ambiguità su cui si fonda, per il modo in cui sa affrontare i conflitti e gestire l’incoerenza. Forse, anche in certe aziende non sarebbe inutile rileggere Shakespeare.