E&M

1996/4

Gianni Canova

Facciamoci uno squid. Tendenze e paradossi del consumo immateriale

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Strange Days

Regia: Kathryn Bigelow

Int.: Ralph Fiennes, Angela Bassett, Juliette Lewis

Usa, 1995

Il cinema, si sa, è anche una merce. Mercifica i sogni, commercia in immagini. Distribuisce e organizza su scala planetaria il consumo immateriale più cospicuo e significativo del secolo. A differenza della Tv (che usa le immagini ed i film solo come traino pubblicitario per vendere altre merci), il cinema vende esclusivamente se stesso. Deve vendere se stesso. Deve cioè riuscire a invogliare l’acquisto delle immagini che lo costituiscono. Consapevole di questa sua difficile identità, il cinema spesso si interroga proprio sulla sua natura di merce: produce autoanalisi di mercato, traccia bilanci consuntivi, arriva perfino – nei casi migliori – a prefigurare tendenze evolutive o a disegnare e simulare scenari futuri.

Prendete ad esempio Strange Days della giovane regista Kathryn Bigelow: ambientato nelle ultime 48 ore del 1999, tra la popolazione di una Los Angeles riversa per le strade in attesa del Capodanno del 2000, mentre esplodono qua e là incontenibili conflitti etnico-razziali. Il film si interroga con coraggio sul tipo di immagini (cioè di merci audiovisive) che l’umanità avrà voglia di consumare all’alba del prossimo millennio. E fornisce una risposta al contempo suggestiva e inquietante, che può servire – volendo – anche a gettare un po’di luce sul possibile futuro di tutti gli altri consumi immateriali.

La tesi di Kathryn Bigelow (e dello sceneggiatore James Cameron) è semplice e incisiva: stanca del cinema e delle sue fantasticherie ormai troppo arcaiche e l’errò, l’umanità di fine millennio sarà soprattutto consumatrice di squid. Cioè di un’ipotetica tecnologia clandestina che consente di proiettare direttamente nel proprio sistema cerebrale le visioni sperimentate da qualcun’altro e registrate su un minuscolo floppy disk. Come spararsi in testa la vita (e la vista) del prossimo. Basta infilare una cuffia e inserire il dischetto nell’apposito riproduttore per consumare immagini registrate in presa diretta nella corteccia cerebrale di chi ha visto e vissuto da protagonista determinati eventi “estremi” (una rapina, un amplesso, un incidente stradale). Più “pulito” di qualsiasi droga, più stordente, più allucinatorio e al contempo più “realistico”, lo squid permette a chiunque di provare direttamente tutte quelle esperienze che non si è mai concesso nella vita reale, fino al ricercatissimo Black Jack (la morte in diretta) che fa impazzire tanto i consumatori quanto i pusher del mercato clandestino di visioni. Salta insomma il medium dell’occhio e le immagini si fanno tattili, coinvolgendo il sistema nervoso nel suo complesso: l’immaginario viene sostituito dall’immaginato, le immagini più ricercate “non sono più libero frutto della fantasia, ma residuo allucinato dell’esperienza” (cfr. Flavio De Bernardinis, Segnocinema, n. 78, p. 54). Eppure, a ben guardare, lo squid non ha nulla di avveniristico sul piano visivo: le registrazioni ritenute tanto preziose dai personaggi del film avvengono sempre attraverso lo sguardo di chi è stato protagonista di quel determinato evento, tanto che gli ipotetici frammenti di squid inseriti dalla Bigelow in Strange Days ricordano fedelmente – con un impianto fortemente mimetico – proprio le modalità e le caratteristiche della visione soggettiva umana. Dal punto di vista tecnico, insomma, le visioni in squid (senza zoom, senza ralenty, senza montaggio, senza la possibilità di isolare dettagli o di passare repentinamente dal vicino allontano) configurano un’offerta visiva molto più povera di quella garantita dal cinema. Obbligano all’unicità del punto di vista. Imprigionano lo sguardo in una sola angolazione prospettica. Proprio questo fatto – assieme alla preferenza che i personaggi di Strange Days continuano a manifestare comunque per i dischetti spacciati da Lenny Nero, “Babbo Natale dall’inconscio” – induce a riflettere. E a prendere atto di una precisa tendenza: la nuova tecnologia non viene percepita come utile ad approntare nuove ed inèdite modalità visive o ad offrire un potenziamento del nostro sguardo. Molto più banalmente, serve a riprodurre – sia pure con una maschera avveniristica lo sguardo che l’umanità possedeva già in epoca pretecnologica, universalizzandolo e trasformandolo in strumento di condivisione del vissuto altrui. Mentre il cinema in quanto tecnologia che ha oggettivamente arricchito la capacità di vedere dello sguardo dell’uomo ansima e arranca, ricorrendo a colpi bassi pur di riuscire ancora a piazzare il suo “listino” (“Qui non facciamo business, ma show business. I colpi bassi non solo sono leciti, sono premiati” dice un personaggio del film Il prezzo di Hollywood), si fa strada un bisogno sociale fortemente segnato dall’ansia del ritorno: come se la domanda latente dell’umanità di fine millennio nei confronti della tecnologia fosse quella di rendere possibile il ritorno a una dimensione esperienziale che si avverte sempre più come perduta. Come dice James Ballard nella prefazione del suo romanzo Crash: viviamo già all’interno di un enorme romanzo, l’invenzione fantastica è già tutta data, l’unico compito che resta agli artigiani della finzione e ai produttori di merci immateriali è “l’invenzione della realtà”.

Si può allargare il discorso? È legittimo applicare la metafora di Strange Days anche ad altri tipi di consumi immateriali? Se si sta alla lezione del cinema, la risposta non può che essere positiva: mai tanti viaggi nel tempo (sempre viaggi di ritorno) come nei film delle ultime stagioni, mai tanti desideri di tornare a fare i conti con l’esperienza e con la memoria come nel cinema più “accorto” di questi ultimi mesi.

Da Lisbon Story di Wim Wenders a L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam, il cinema ci dice che il consumo di immagini sarà sempre più forte e strategico. Ma ci dice anche che la valutazione (o il gradimento) di tale consumo sarà tendenzialmente più di ordine etico che estetico: magari in vista di un nuovo “immoralismo” di massa, all’insegna di una deliberata volontà di trasgredire regole e leggi, ma pur sempre nella consapevolezza del rapporto con i limiti e i confini del proprio vissuto esperienziale.

Rispetto all’edonismo sfavillante ma frivolo degli anni ‘80, l’aria sta cambiando davvero.