E&M

1996/4

Claudio Dematté

L'innovazione come arma competitiva

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Chiunque abbia tentato di valutare seriamente la situazione dell’innovazione in Italia si è trovato di fronte alla difficoltà nel conciliare due risultanze contraddittorie: da un lato un quadro dell’attività di ricerca scientifica e tecnologica fragile e visibilmente arretrato rispetto ai principali paesi industriali; dall’altro un’evidenza ormai pluridecennale di energica competitività del sistema industriale italiano. Se si accetta la tesi da tutti accolta che la ricerca è una condizione essenziale sia per aumentare la produttività, sia per cavalcare i bisogni mutevoli e quelli nuovi, sia per accedere alle nuove produzioni, come si spiega il fatto che molte imprese italiane continuano a rimanere competitive pur non investendo, apparentemente, in ricerca e sviluppo e pur non potendo contare su una significativa produzione locale di know-how scientifico e tecnologico da parte di altri soggetti – come le università ed i centri di ricerca – che sarebbero istituzionalmente deputati a tale fine?

Che le imprese italiane siano state in grado di mantenere o perfino aumentare la loro capacità competitiva è dimostrato da innumerevoli indicatori: sia da quelli che registrano l’andamento della produttività comparata, sia da quelli che misurano le quote di mercato a livello internazionale su un arco di tempo sufficientemente lungo per compensare i disturbi in dotti da variazioni dei tassi di cambio, a volte contrari a volte favorevoli. E non si può nemmeno dire che il mantenimento della competitività sia dovuto ad un andamento dei salari più riflessivo rispetto a quello dei paesi concorrenti, giacché, salvo in quest’ultimo periodo, il nostro costo del lavoro ha mostrato una dinamica più accentuata e non il contrario. Se le nostre imprese riescono a rimanere competiti ve lo devono dunque ad altri elementi, fra i quali è difficile pensare che non vi sia anche una forte capacità di innovare nei prodotti e nei processi. Ma qui il conto non torna con le altre risultanze: quelle che mostrano la debolezza del sistema di ricerca e sviluppo italiano. Come si spiega questa contraddizione? Si spiega con due passaggi. Anzitutto distinguendo il sistema di produzione di know-how scientifico e tecnologico dalla politica di utilizzo di tale know-how da parte delle imprese: può essere che la dimostrata debolezza del sistema di produzione di know-how tecnologico italiano sia sistematicamente compensata dalle imprese italiane con l’importazione di know-how, di brevetti o di macchine, oppure con processi di imitazione rapidi ed efficaci, o infine con innovazioni di tipo informale che sfuggono alle rilevazioni. Il che si spiegherebbe se il sistema di produzione di know-how si configurasse sempre di più non come un anello di un processo integrato, i cui prodotti sono sottratti alla disponibilità del mercato, ma come uno stadio di produzione autonomo ai cui prodotti si può accedere secondo una normale logica di domanda ed offerta. Con una ipotesi integrativa: che anche se il know-how rimanesse per una parte rilevante “captive” all’interno delle imprese che lo sviluppano perché queste preferiscono sfruttarlo direttamente almeno sui mercati domestici – una parte di esso diventa comunque disponibile per lo sfruttamento sui mercati esteri, con una preferenza delle imprese proprietarie del know-how a cederlo a medie imprese, piuttosto che ai colossi loro diretti concorrenti.

Con il secondo passaggio la spiegazione della apparente contraddizione fra la debolezza del nostro sistema di ricerca e la forte competitività delle imprese viene ricercata nella particolare struttura del sistema industriale italiano e specificamente nella sua articolazione per settori e per dimensione d’impresa: l’ipotesi è che in certi settori industriali e per certi tipi di Impresa la competitività dipenda meno da innovazioni “hard” (quelle che scaturiscono da processi formali di ricerca scientifica) e molto di più da innovazioni di altra natura, giocate sulla combinazione dei fattori di produzione o sulle valenze dei prodotti: spesso con innovazioni minori, al margine, ma continue e finalizzate alla migliore soddisfazione dei clienti e frutto di un processo di apprendimento costante inserito nel fluire dell’attività quotidiana d’impresa.

Se queste ipotesi fossero corrette, potremmo spiegare la contraddizione di cui si è detto in base ai seguenti elementi:

1.     l’industria italiana è più intensamente presente in settori dove l’innovazione è importante, anzi decisiva, ma la fonte prima d’innovazione non sono i risultati di ricerche scientifiche, bensì altri fattori, altrettanto o perfino più difficili da produrre, come la sensibilità ai mutamenti nei gusti e nell’estetica, oppure le capacità di affinamento o di adattamento ai bisogni di singole categorie di clienti;

2.     le imprese italiane che operano nei settori dove sono invece importanti i risultati della ricerca scientifica superano le carenze del sistema italiano riuscendo ad approvvigionarsi di know-how su mercati internazionali sufficientemente “liquidi” e rimediando eventuali ritardi e la natura non proprietary delle fonti di innovazione con investimenti mirati per innovazioni d’applicazione;

3.     molte piccole e medie imprese operano nei settori a basso assorbimento di scoperte scientifiche oppure sono subfornitori di grandi imprese e per questo motivo sono agganciate ai loro sistemi di innovazione;

4.     la carenza del sistema di ricerca scientifica e tecnologica, anche se viene superato dalle imprese per le ragioni suddette, ha pur sempre un effetto negativo sulla nostra economia sia perché la mancata produzione di autonomo know-how si riflette nella bilancia dei pagamenti, com’è dimostrato dal saldo negativo della bilancia dei trasferimenti tecnologici, sia perché influenza la struttura del sistema industriale, rallentando lo sviluppo dei settori nuovi e di quelli ad alta tecnologia che presentano tassi di espansione superiori rispetto ai settori tradizionali.

Se è vero quanto sopra, ci troviamo di fronte ad un classico circolo vizioso: il bisogno di innovazione scientifica e tecnologica in Italia è meno pressante e la carenza di produzione autonoma di know-how è meno critica perché prevalgono i settori a bassa tecnologia oppure quelli dove l’innovazione, anche se è un fattore critico di successo, si gioca su altre basi; ma proprio perché manca una forte produzione di know-how scientifico e tecnologico, i settori che si basano su questo fattore della produzione si sviluppano meno di quanto sarebbe auspicabile.

Di fronte a questa situazione che cosa possono fare le imprese e che cosa possono fare gli altri soggetti ai quali compete la responsabilità di darsi carico del futuro del paese e di una crescita non solo quantitativa dell’economia? Possono fare diverse cose, alcune già implicite in quanto fin qui accennato. Ma possono andare oltre, a cominciare da una riflessione sul problema, per comprenderne la struttura e le possibili vie di uscita.

 

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