E&M

1996/2

Gianni Canova

Il colore dei soldi. Immaterialità delle merci e materialità del denaro nel "Casinò" di Martin Scorsese

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Casinò

Regia: Martin Scorsese

Int.: Robert De Niro, Joe Pesci, Sharon Stone

USA, 1995

Banconote verdognole, monete di metallo, fiches colorate. Montagne di dollari che passano fisicamente di mano in mano. E poi soldi, soldi, ancora e sempre soldi: fa una certa impressione – nell’era della “smaterializzazione” del denaro e della sua progressiva sostituzione con strumenti di transazione economica che non prevedono l’uso diretto di moneta cartacea – vedere la quantità di dollari che circola – materialmente, fisicamente – nel nuovo film di Martin Scorsese.

In Casinò il denaro non è solo di simbolo, uno strumento, un valore astratto: è piuttosto qualcosa di sensibile e di palpabile, qualcosa che ha un odore e un sapore, che produce suoni e rumori e che abbisogna di uno spazio apposito per essere raccolto e accumulato. Ma forse, proprio in questa ritrovata e anacronistica fisicità del denaro risiede gran parte del fascino magnetico che esso esercita sui personaggi, forse è proprio questa esibita tangibilità che accresce e favorisce il suo irresistibile effetto di “attrazione fatale”.

In una delle sequenze più belle e pregnanti del film, non a caso, la macchina da presa di Scorsese segue ininterrottamente per quasi tre minuti il tragitto di un impiegato che attraversa i corridoi di un Casinò di Las Vegas per raccogliere i soldi dai vari banchi da gioco e per portarli verso la stanza dove vengono smistati e contati. È una “fabbrica” strana, il Casinò raccontato da Scorsese: usa l’azzardo e il rischio per produrre profitto. E riconduce l’economia a una delle sue funzioni essenziali: quella che consiste nello spostare la ricchezza da un soggetto ad un altro.

“Un Casinò – si dice ad un certo punto nel film – è un palazzo ma tematico costruito per separare i giocatori dal loro denaro.” Come dire che è il tipico esempio di fabbrica post-moderna: una vera e propria “macchina” che produce solo merci “immateriali” (il sogno, l’illusione, il rischio, la sfida), chiedendo come prezzo (e offrendo come possibile premio) il denaro riportato alla sua arcaica e primitiva “fisicità”.

Non sappiamo quali tracce lascerà Casinò nella storia del cinema (anche se siamo disposti a scommettere che ne lascerà parecchie). Sappiamo però che lascerà più di un segno nella sociologia americana: per la lucidità con cui mette in scena i meccanismi economici essenziali, per la lungimiranza con cui sa raccontare t segreti della finanza, per la freddezza (e, a volte, perfino per la ferocia) con cui fa della “fabbrica del gioco” una grande metafora della società complessa e post-industriale. Come una vera e propria “corporation” il Casinò di Scorsese è efficiente collaudato, manageriale.

La struttura (l’organizzazione) è impeccabile e indifferente ai destini individuali. La gestione esige disciplina e rigore, ma anche flessibilità. E l’organizzazione sta in equilibrio in base alla sua capacità di rispondere ai suoi fini: che sono poi – stringi stringi – quelli della produzione del profitto. Dietro l’immensa distesa di roulette e di slot-machines, di baccarà e di chemin de fer, di luci sfavillanti e di showgirls appariscenti, il mondo che Scorse se racconta con il suo linguaggio imaginifico e possente è quello di una grande azienda con a capo un manager di ferro (un gigantesco e indimenticabile Robert De Niro) e con regole che non possono essere trasgredite Per nessuna ragione.

Con molta più forza di un saggio accademico, il film di Scorsese spiega inoltre come l’organizzazione del lavoro e la struttura della produzione possono ormai essere facilmente “attraversate” dal crimine e “deviate” dal favoritismo politico.

La criminalità organizzata – suggerisce Casinò – non opera più come un’associazione a delinquere che pretende denaro in cambio di una presunta “protezione”. È piuttosto un fattore congenito e parassitario che si radica negli ingranaggi dell’organizzazione con l’intento di “scremarne” quote di profitto. “È come la muffa che appare spontaneamente su una parete umida” ha affermato Furio Colombo commentando il film. E l’immagine rende alla perfezione l’idea. Anche se una cosa è sentirselo dire con le parole sagge e ponderate dello studioso di fama, altra cosa è vederlo in scena con le immagini potenti e travolgenti di uno dei più bei film del decennio.

Da sempre attratto dal tema dell’organizzazione e dalla volontà di indagare nelle pieghe nascoste e tribali di ogni struttura societaria (basti pensare a titoli come Quei bravi ragazzi o L’età dell’innocenza, Scorsese realizza con Casinò un film-limite: quasi un docu-drama o una grande inchiesta “spettacolare” sullo stato dell’economia nell’America di fine millennio, indagata in tutta la sua grandezza ma anche nelle sue possibili e devastanti patologie. Potrà non piacere, Casinò. Si potrà anche dissentire, volendo, dalle sue tesi di fondo. Ma i suoi personaggi e la loro “filosofia”, con ogni probabilità, resteranno impressi a lungo nella memoria e nello sguardo del grande pubblico per la loro tenacia, per la loro esemplarità. Per la freddezza con cui analizzane, manipolano e controllano i meccanismi del potere. E per la lucidità con cui identificano nel terreno del gioco l’ultima, possibile frontiera del business.

Se negli anni Settanta la città-simbolo del cinema americano (e di tutto l’american dream) è stata New York e negli anni Ottanta Los Angeles, nei Novanta è sicuramente Las Vegas (dove si svolgono, tra l’altro, film come Showgirls, Proposta indecente e Living in Las Vegas).

Questo spostamento topografico, evidentemente, non è casuale: non solo sul piano delle forme simboliche del cinema ma anche su quello della percezione che il grande pubblico ha delle fonti mutevoli della ricchezza e delle leggi implacabili dell’economia.