E&M

1996/1

Gianni Canova

Il lupo e il celenterato: modelli di organizzazione di fine millennio

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Pulp Fiction

Regia: Quentin Tarantino

Int.: John Travolta, Harvey Keitel

USA, 1994

I soliti sospetti

Regia: Bryan Singer

Int.: Gabriel Byrne e Chazz Palminteri

USA, 1995

“Sono Wolf, risolvo problemi”. Il Lupo, nell’ultima parte di Pulp Fiction, si presenta così. Due malavitosi di mezza tacca han combinato un pasticcio e ora si trovano nei guai: rifugiati nel garage di un amico, con l’auto imbrattata di sangue e un cadavere sul sedile posteriore, sono in preda al panico e chiedono aiuto all’”organizzazione”, La quale manda sul posto– appunto – il signor Wolf che si presenta in smoking alle otto di mattina, osserva attentamente la situazione, studia i dati di fatto e organizza in men che non si dica la rimozione del problema. “Se sono brusco – dice con tono paterno ai due ‘pivelli’che lo osservano perplessi – è perché il tempo è importante. lo penso svelto, parlo svelto e ho bisogno che voi altri tacciate in fretta se volete uscirne fuori.” Nel giro di mezz’ora non c’è più traccia di sangue, l’auto è scomparsa con il suo ospite ingombrante e lui, l’impeccabile Wolf, se ne va sorridente a bordo della sua Porsche.

Nel suo impianto ironico e divertito, questa sequenza di Pulp Fiction offre un esempio paradigmatico di organizzazione “post-moderna”: non si tratta più di fornire griglie, modelli e gerarchie che determinino in modo rigido il comportamento degli individui, ma di garantire supporti elastici e flessibili che sappiano rimuovere qualunque problema non appena questi si manifesta. L’organizzazione – nella pulp culture immaginata dal talento cinematografico di Quentin Tarantino – non implica più una rigida divisione di compiti e di ruoli, né una trasmissione verticale di ordini, consegne e mansioni. Consiste piuttosto nella capacità di realizzare il massimo di efficienza con il minimo di ordine e di fatica. È fluida, rapida, veloce. E ha poco a che vedere con i modelli vertical-piramidali su cui si basava la classica organizzazione aziendale dell’era industriale.

Un’ulteriore metafora utile a misurare i mutamenti in atto sul piano dell’organizzazione ci è offerta – del resto – anche dal film I soliti sospetti di Bryan Singer: si tratta della storia di una gang e – in quanto tale consente di cogliere con particolare evidenza le differenze e le novità rispetto ai modelli organizzativi tradizionali. Nel “gangster movie” classico – quello che va grosso modo dagli anni Venti agli anni Settanta e che corrisponde a precisi modelli di organizzazione sociale e aziendale – la formazione di una gang prevedeva comunque l’esistenza di un “cervello” che individuava il bersaglio, progettava il “colpo”, studiava il piano e selezionava il personale in base alle specifiche competenze professionali.

Nel film di Bryan Singer non è più così. I cinque membri della gang si conoscono per caso durante un confronto all’americana in una stazione di polizia e si asso ciano in base a una sorta di “affinità elettiva”. Non c’è un “cervello” che guidi e ispiri le loro azioni, agiscono piuttosto come un vero e proprio “team”. Un po’come avviene, nel mondo animale, in quelle specie di celenterati che mettono in comune i loro centri nervosi, modellando un cervello collettivo in grado di affrontare situazioni la cui comprensione è negata al singolo individuo: un reticolo di menti, un rizoma articolato e complesso, le cui capacità sono moltiplicate dalla permeabilità e dalla rinuncia individuale a un’identità forte.

I cinque “gangsters” di Usual Suspects funzionano così: esercitano una sorta di “libera associazione” del crimine. Non ci sono “specialisti”, fra loro. Non c’è neppure una rigida distinzione e divisione di compiti. I cinque si fidano reciprocamente. Si sentono gli uni responsabili degli altri. Ognuno lavora solo per sé, ma sa che ha bisogno degli altri per riuscire. Ognuno, infine, crede di conoscere tutta la verità su quel che sta accadendo, mentre non ne possiede che un tassello: la tessera parziale di un puzzle che nessuno conosce davvero nella sua totalità.

A questo modello di “organizzazione” associata e reticolare il film di Bryan Singer ne contrappone un altro, solo in apparenza antitetico: quello che ha nella minacciosa figura di Kavser Soze il suo leader indiscusso e onnipotente, Kayser Soze è il prototipo del criminale “leggendario”: sa tutto di tutti, ricatta, ordina, informa, gestisce, controlla. Ma nessuno l’ha mai visto in faccia, qualcuno dubita addirittura della sua esistenza. C’è chi dice che sia turco, chi tedesco, chi arriva a pensare che non sia una persona in carne e ossa, ma il nome simbolico – appunto – di un ‘organizzazione clandestina. E proprio in ciò sta la sua originalità: il massimo di presenza nella conduzione e gestione degli affari coincide con il massimo di invisibilità.

Ed è proprio questo aspetto, paradossalmente, che fa della sua organizzazione un qualcosa di analogo, in fondo, a quella dei cinque gangsters che si scontrano con lui: in un caso come nell’altro, l’“organizzazione’“ non ha forma e non ha centro, è un flusso di informazioni e di decisioni che si muovono ininterrottamente, ma non si identificano più con uno schema rigido e prestabilito. Il ruolo che lo stesso Kayser Soze riveste è, in fondo, un ruolo vuoto: forse è solo una persistenza del passato, un ricordo vischioso del bisogno degli uomini di avere a disposizione – un “centro” o un “vertice” simbolico a cui ricondurre – comunque – le decisioni e le responsabilità. Ma questo centro, nel film di Bryan Singer, non c’è, viene solo evocato. Opera in absentia.

Forse, da questo punto di vista, anche il signor Wolf di Quentin Tarantino è già “vecchio”, già inesorabilmente “sorpassato”. Forse, il modello di organizzazione che il cinema di fine millennio ci sta proponendo si tonda su una “rete” autonoma ed autosufficiente, capace di risolvere i problemi da sé, senza interventi, consigli e ordini venuti da fuori. Forse sta finendo l’epoca dei “lupi” e – almeno sugli schermi – sta iniziando quella dei celenterati.