E&M

2005/4

Abbiamo un po’ di timore a parlare di Cina. Soprattutto su questa rivista, dove Maria Weber ci guida con la sua competenza e la sua esperienza, un numero dopo l’altro, nella comprensione di questo gigante lontano eppure così incombente. Ma abbiamo avuto occasione di stare a Shanghai per un paio di settimane negli ultimi due mesi, lavorando per un’organizzazione non profit chiamata Leaders’ Quest (www.leadersquest.org) in un progetto che ci ha consentito di incontrare imprenditori e manager, dirigenti statali e professori, studenti di scuola superiore e volontari di organizzazioni non governative, artisti e politici. Nonostante la rapidità e la conseguente superficialità del contatto, si sono accumulate, come pensiamo sia accaduto agli ormai numerosi italiani che hanno vissuto un’esperienza simile, una serie di osservazioni e di riflessioni che pensiamo possa essere utile condividere, perché entrino in risonanza con quelle dei nostri lettori.

La prima cosa che si capisce, appena si riesce ad andare un po’ al di sotto della superficie, è che non esiste una realtà omogenea chiamata Cina. Di Cina, un paese che è quasi un continente, esteso poco meno degli Stati Uniti, ne esistono tante, diverse e spesso in acuta contraddizione tra loro.

Come suggeriscono i dati fornitici da Jeanne-Marie Gesher di CGA, una società di ricerca e consulenza basata a Pechino, ci sono almeno quattro mondi se si guarda, per esempio, alla sola distribuzione del reddito. Soltanto il 2,7% della popolazione gode di un reddito annuo superiore ai 12 000 dollari. Si tratta dei cittadini delle grandi capitali dell’Est (Pechino e Shanghai appunto) e di quelli dei centri dello sviluppo del Guangdong. Il 21% della popolazione ha un reddito annuo compreso tra i 6000 dollari e la soglia della fascia superiore. Anche costoro vivono prevalentemente nelle cosiddette zone speciali che per prime sono state aperte all’economia di mercato e al capitalismo. C’è poi un terzo mondo con redditi annui inferiori ai 4000 dollari, condizione nella quale si trova il 26% della popolazione. Il 50% dei cinesi, sull’impressionante totale di un miliardo e trecento milioni di esseri umani, vive invece con meno di 2000 dollari l’anno. Uno sterminato quarto mondo che occupa gran parte del centro e dell’Ovest del paese e tutte le zone rurali. Si tratta di dati che devono fare riflettere, anche se si possono rendere meno drammatici tenendo conto della differenza nel potere di acquisto. La prima riflessione riguarda l’enormità dello sforzo necessario per migliorare le condizioni di vita e diffondere il benessere in tutto il paese. Occorreranno molto tempo, molta determinazione e molto equilibrio. Anche per evitare che la conquista di un relativo maggiore reddito si traduca, come è accaduto spesso altrove, in un peggioramento netto della qualità della vita per molti. Questo, a nostro avviso, implica anche il riconoscere che per lungo tempo a venire l’attenzione di chi governerà questo complesso paese sarà rivolta a questioni interne e ai riflessi che la soluzione di questo problema può avere nel sistema di relazioni geo-politiche con gli altri paesi, primi tra tutti gli Stati Uniti. In altri termini, non pensiamo che siano compatibili con questa situazione strutturale di partenza sfide dirette all’esterno orientate ad affermare una egemonia ideologica, politica o militare.

Osservando l’acuirsi di queste profonde differenze di reddito, viene da farsi una domanda non banale: se la Cina sia o no un paese comunista. Non è una domanda retorica e non ha, come quasi tutti gli interrogativi che riguardano questo paese, una risposta scontata. Se si osserva, appunto, l’ineguaglianza nelle condizioni di lavoro e di vita che il regime ha lasciato che si sviluppasse; se si guarda a quanto selettive (sia pure sulla base del merito e non del reddito) siano le scuole migliori del paese, e quindi a quanta ineguaglianza si stia creando nell’accesso al sapere; se si considera la differenza tra città e zone rurali, che preoccupava già Mao Zedong e che oggi continua a essere al centro dell’attenzione di chi governa, al punto da spingere il primo ministro Wen Jiabao (che insieme al presidente Hu Jintao è al vertice del sistema politico) ad affermare che le città somigliano all’Europa e le campagne all’Africa; se si tiene conto che la Costituzione del paese ha accolto i diritti di proprietà privata, se non erriamo nel 2003, e quest’anno anche quelli di tutela della proprietà intellettuale, bisogna concludere che molti degli obiettivi tipici dell’ideologia comunista non sono perseguiti concretamente in questo paese. Molto più pragmaticamente, e sia pure in mezzo a infinite contraddizioni, il governo attuale e il partito unico che lo esprime sembrano impegnati a realizzare alcune delle promesse che il regime comunista aveva fatto. Oggi con una consapevolezza in più: quella che non è possibile puntare solo sullo sviluppo economico come strumento di emancipazione e di crescita. Bisogna preoccuparsi di creare una società più equilibrata, con meno distanze e disuguaglianze, rispettosa delle persone come dell’ambiente. Il tutto è stato riassunto in una parola, xiaokang che esprime questo desiderio (che nasce da una seria preoccupazione) di equilibrio, di moderazione nella ricerca del benessere, di equità distributiva e di maggiore armonia.

Di fronte alla complessità e alla ricchezza di sfaccettature della realtà politica e sociale di questo paese (e persino del suo Partito Comunista, unico di nome ma di fatto attraversato da tensioni diverse e caratterizzato da una molteplicità conflittuale di punti di vista e di ipotesi sul futuro del paese come se ne vedono nei più ampi e variegati archi parlamentari dei nostri paesi) colpisce la semplicità delle domande che si sentono più spesso sulla bocca degli occidentali che entrano in rapporto con la Cina. Le domande sono sostanzialmente due, opposte eppure paradossalmente convergenti: c’è chi si chiede in quanto tempo la Cina arriverà a dominare il mondo, forte della sua ritrovata potenza economica capace di distruggere senza pietà sistemi all’apparenza meno competitivi, come il nostro. E chi si chiede fra quanto tempo la Cina crollerà inesorabilmente sotto il peso delle proprie contraddizioni: distrutta da catastrofi ecologiche o sanitarie, squassata da un conflitto sociale capace di moltiplicare i morti di Tien-An-Men non appena i lavoratori sfruttati e malpagati prenderanno coscienza della propria condizione e si ribelleranno, strozzata dalla mancanza di materie prime in quantità sufficiente a sostenerne lo sviluppo. La convergenza tra questi opposti atteggiamenti sta nel loro essere espressione di un pensiero lineare incapace di accogliere la complessità di quello che sta succedendo in Cina, irrispettoso dell’enorme tradizione culturale (e della grande sapienza commerciale) di quel paese, una risorsa che gli anni più bui del regime comunista non sono riusciti totalmente a distruggere, e che oggi crediamo stia alla base della crescita economica non meno del basso costo del lavoro, dimentico della quantità di energie e di competenze che sono tutte impegnate in modo serio e determinato e trovare una via diversa, a inventarsi un futuro. Il loro futuro, che interagisce con il nostro futuro.

Quello che la Cina può insegnare a un manager è appunto la necessità di affinare lo sguardo, di non cedere alle scorciatoie degli stereotipi, a formarsi una propria opinione assecondando la propria curiosità e aprendosi al dialogo, ad accettare le contraddizioni e a cogliere le interdipendenze che sono tipiche dei sistemi complessi. Le realtà complesse, e tali sono anche i mercati e le imprese nell’era della globalizzazione, sono appunto come scatole cinesi. La realtà si può leggere a livelli diversi, e ciascuna prospettiva possibile ne contiene un’altra, forse più importante e più vera.

In Cina le due dimensioni fondamentali nelle quali siamo immersi, lo spazio e il tempo, assumono una valenza tutt’affatto particolare. E particolarmente grandiosa. Per convincersene, basterebbe cominciare la propria visita dal Museo della Pianificazione Urbana che si trova in Renmin Square a Shanghai. All’interno custodisce il plastico – enorme, dal momento che occupa interamente una stanza di qualche centinaio di metri quadri – di come la città di Shanghai sarà nel 2020. Tutto è definito nei minimi dettagli: i singoli grattacieli (già oggi ce ne sono oltre seimila in questa città dove si stima vivano 17 milioni di abitanti), di colori diversi per distinguere quelli già realizzati da quelli che verranno, gli stand dei diversi paesi del mondo che animeranno l’Expo che la città si prepara già ora ad ospitare nel 2010. Fa quasi invidia la trasparenza: difficile trovare un comune italiano disposto a mettere in mostra il proprio piano regolatore. E inquietano la scala e l’orizzonte temporale. Qui tutto si proietta in avanti per decenni e tutto si muove di conseguenza. Al punto che usciti dalla porta del museo nella piazza brulicante di gente che gli sta davanti, si pensa con un brivido ai Nuovi Faraoni, capaci di costruire un mondo scolpendo montagne e spostando fiumi, con la forza del lavoro di milioni di persone. Un brivido che raddoppia quando ci si trasferisce nell’area di Pudong per andare a visitare l’Estuarine & Coastal Science Research Center. Anche qui un modello. Ancora più grande, ospitato in una struttura che sembra quella di un hangar per aerei di linea (26 000 mq). Questa volta, però, all’interno si snoda, maestoso anche se in scala, il delta del fiume Yangtze. Da una cabina di controllo si avviano gli esperimenti: l’acqua scorre, si misurano le correnti, si osservano il deposito delle sabbie e gli effetti sulla costa. Il modello fisico (in altri spazi le simulazioni sono affidate a calcolatori sofisticati) è stato costruito per studiare gli effetti di due immense dighe che sono state poste nel delta a formare un imbuto lungo una ventina di chilometri. A causa di questo imbuto, l’acqua a monte è salita di livello: dagli otto metri iniziali agli attuali dieci, destinati a diventare dodici quando il progetto verrà completato. In questo modo navi più grandi sono oggi in grado di risalire il delta e arrivare al porto di Shanghai, per ora il secondo al mondo per movimentazione di container in attesa che venga costruito sulla costa dell’oceano il suo fratello maggiore, il porto in acque profonde, che oggi si presenta come un miraggio annunciato da una strada-ponte lunga oltre trenta chilometri che parte a perpendicolo dalla riva e si perde nell’acqua senza che se ne veda più la fine. Camminando nell’hangar ogni passo vale qualche chilometro: l’uomo è un gigante e domina a suo piacere la natura. Poco importa se gli effetti dell’innalzamento delle acque risalgono il fiume per centocinquanta chilometri e forse disturbano la fauna o danneggiano la flora.

Lo sviluppo richiede qualche sacrificio e la Cina si trova di fronte a una nuova contraddizione che noi conosciamo bene: quella tra benessere e qualità dell’ambiente. Anche in questo caso si può indulgere al pensiero lineare e mettersi a contare, giustamente preoccupati, quanti tubi di scappamento si aggiungerebbero ai nostri il giorno in cui tutti i cinesi che possono volessero mettersi al volante di un’auto, oppure cercare le tracce di una via alternativa. Come quella che sta cercando di aprire a fatica, con altri, Deng Wen, attivista di Greenriver (www. green-river.org), la prima organizzazione ambientalista non governativa di cui è fondatore un famoso fotografo cinese. La missione principale di questa associazione è proprio la protezione dell’ambiente attraversato dal fiume Yangtze: dalle sorgenti in Tibet fino al suo estuario in trasformazione. Greenriver è un segno di una società in forte trasformazione, un seme di cambiamento. Come quelli che è impegnato a piantare nelle zone rurali più povere del paese Chan Yau Chong, l’executive director in Hong Kong dell’organizzazione umanitaria impegnata a combattere la fame nel mondo chiamata Oxfam (www. oxfam.org: mentre scriviamo l’unico sotto-sito dell’organizzazione che non si riesce ad aprire dal portale principale è proprio quello di Honk Kong, e questo desta subito un piccolo sospetto sapendo quanta attenzione il regime cinese dedichi al controllo di tutte le forme di comunicazione…): è estremamente interessante ascoltarlo mentre descrive gli interventi portati avanti nei villaggi, il rapporto di pungolo e cooperazione con le autorità di governo e di partito, il problema della corruzione, il ruolo delle donne nel migliorare le condizioni economiche nelle zone rurali del paese, l’importanza di sostituire il semplice aiuto che arriva (quando arriva) dall’esterno con un lento processo di reale empowerment. Ed è tanto più impressionante ascoltare queste cose da una persona disabile come Chan Yau, che viaggia, si muove, prende appunti sul suo laptop speciale senza che la sua cecità gli impedisca di essere una forza di cambiamento.

Ma la maggior parte degli imprenditori e dei manager occidentali che abbiamo incontrato e con i quali abbiamo discusso sembrano prestare poca attenzione a questi aspetti della realtà della Cina, all’immensità dei problemi che deve affrontare, come quello dei flussi di migrazione interni che con centocinquanta milioni circa di persone in movimento fanno impallidire di vergogna le nostre preoccupazioni in tema di immigrati e integrazione. O la questione demografica che, per effetto della politica che ha limitato a un figlio per famiglia la natalità nel paese, proietta verso il 2040 un problema di invecchiamento che avrà conseguenze importanti anche sul piano economico per un paese che è invece oggi tra i più “giovani” del mondo. C’è più interesse, naturalmente, per le questioni economiche e finanziarie. L’intenzione di tutti è infatti quella di riuscire a salire con il proprio surf su questo immane tsunami che sta muovendo un continente, e godersi l’ebbrezza di una corsa verso la ricchezza e il successo. Ebbene, pochi pare ci stiano riuscendo e molti hanno già abbandonato risorse ingenti alla furia ruggente di questa nuova economia. La Cina come opportunità di mercato, e non solo come base a basso costo per produzioni da riesportare verso Occidente, nasconde le insidie tipiche dei mercati ipercompetitivi. Ormai affacciarsi in un settore con il sogno di servire questo immenso paese significa infatti ritrovarsi in compagnia di quasi tutti i concorrenti che già ci rendono la vita difficile nelle nostre comunità economiche e con in più la pressione esercitata da tutti i produttori locali, che godono dei vantaggi di appartenenza al sistema e di qualche distrazione nel rispetto delle regole. Vuole dire misurarsi con un mercato fatto di consumatori finali straordinariamente numerosi, ma molto diversi tra loro, in rapida evoluzione, raggiungibili solo dopo avere vinto sfide logistiche assai difficili, molto sensibili al prezzo e ancora poco alle altre leve di marketing, troppo impegnati a lavorare duramente per avere tempo sufficiente per lo shopping come lo intendiamo noi. Il risultato può essere un misto di frustrazione e di delusione. Sovrainvestimenti, sovracapacità e margini ridotti a zero. Quando va bene. Eppure le opportunità ci sono e sono notevoli: bisogna essere però molto preparati e forti per saperle cogliere. La prospettiva è di lungo termine e le specificità del luogo sono tali che piuttosto che porsi come chi vuole portare la Brambilla & C. in Cina occorrerebbe riuscire a imparare con umiltà e attenzione come costruire nel tempo una Brambilla & C. cinese. Abbiamo incontrato, tra gli altri, un imprenditore locale, un cinese di Hong Kong di nemmeno quarant’anni, pieno di energia e di sense of humor, che ha scelto per sé e per il mondo fuori dalla Cina un nome dal suono italiano, forse in onore di Lineapiù, l’azienda di Prato con la quale sta sviluppando una joint venture di successo. Si tratta di Mr. Bosco, capo della Fenix, un’azienda multinazionale operante nel settore tessile. Discutendo con noi ha molto insistito su tre parole che sono a suo avviso fondamentali per sviluppare una strategia efficace nel suo paese.

Le tre parole sono: comprensione, fiducia e pazienza. Aggiungete a queste la fermezza che serve per negoziare al meglio e in modo che i semi di cambiamento di cui vi abbiamo parlato siano aiutati a portare frutto, e avrete qualche numero della combinazione che serve conoscere per aprire la porta di questo mondo. Gli altri dovrete trovarli da soli.