E&M

2005/3

Gianni Canova Severino Salvemini

Il burocrate e il geometra

Il nuovo film di Alessandro D’Alatri, La febbre, racconta un caso esemplare di mobbing nella Pubblica Amministrazione. E offre numerosi spunti per riflettere sui modelli organizzativi e relazionali che dominano il sistema pubblico nel nostro paese.

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La febbre

Regia Alessandro D’Alatri

Interpreti Fabio Volo e Valeria Solarino

Italia, 2005

Un paese dominato dalla mediocrità e dall’ipocrisia, diffidente nei confronti del talento e dell’intraprendenza individuale e ossequioso soltanto davanti al potere costituito: con il suo ultimo film La febbre il regista Alessandro D’Alatri (Senza pelle, Casomai) muove un’accusa molto dura all’Italia e ai modelli organizzativi e relazionali che dominano la società italiana, premiando l’obbedienza e l’appartenenza (a una lobby, a un clan, a un partito) piuttosto che la creatività e l’originalità.

Per raccontare tutto ciò, D’Alatri sceglie la vicenda “esemplare” del signor Mario Bettini (Fabio Volo): geometra in quel di Cremona, studente fuoricorso in architettura, sogna con gli amici di trasformare un magazzino fatiscente in una discoteca alla moda, e accende mutui con le banche per realizzare il sogno. Un giorno però viene a sapere all’improvviso di essere stato assunto in municipio come tecnico comunale a seguito di un concorso cui aveva partecipato quattro anni prima per obbedire alla volontà del padre, nel frattempo defunto. Mario non è tipo da posto fisso, è irrequieto, curioso, intellettualmente nomade. Eppure, di fronte alle pressioni della madre che lo vuole “vedere sistemato”, Mario accetta di conformarsi al ruolo (e al posto) che la famiglia e la società hanno predisposto per lui. Così si taglia il pizzo, si mette la cravatta e si presenta al lavoro. È bravo, Mario. Fin troppo. Troppo preciso, troppo efficiente. Tanto che il dirigente dell’ufficio, divorato dall’invidia e insofferente di tanta indipendenza, comincia a mettergli il bastone tra le ruote: blocca la pratica della Commissione edilizia che dovrebbe concedere la licenza per l’apertura del locale, boicotta, rimprovera e alla fine sbatte il povero Mario a fare il peggior lavoro possibile (riscuotere una tassa esorbitante dagli eredi dei defunti ultracentenari per conservare il diritto alla tomba nel cimitero comunale). Animato da un’indignazione che non sfocia mai nella denuncia gratuita o ideologica, La febbre offre svariati spunti di riflessione sul funzionamento delle organizzazioni nella storia recente del nostro paese. Ne discutono – come di consueto – Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Il film ha innanzitutto il pregio di porre l’attenzione su un settore che negli ultimi tempi il nostro cinema ha abbastanza trascurato come quello della Pubblica Amministrazione. È uscito da poco un libro, curato dall’Assessorato alla Comunicazione della Provincia di Perugia (Fabio Melelli, Sequenze di Pubblica Amministrazione nel cinema italiano), che dimostra come in passato il nostro cinema abbia saputo fornire immagini anche caustiche ma sempre stimolanti dei modelli organizzativi e relazionali dominanti nella Pubblica Amministrazione. Ma in passato, appunto. Da una decina d’anni a questa parte, invece, un disinteresse quasi totale. Fino a La febbre

S.S. Senza dubbio. Tra l’altro, il film di D’Alatri fornisce una ricostruzione abbastanza fedele della Pubblica Amministrazione nelle piccole città di provincia, quelle dove il Comune è situato in edifici storici, e dove c’è una scenografia inconfondibile fatta di porte vecchie e cigolanti, di quadri appesi storti alle pareti, di mobili con mezzo secolo di vita sulle spalle. L’immagine della burocrazia che esce dal film, però, sfugge abbastanza allo stereotipo: non ci sono burocrati “fessi” e “ottusi”, in La febbre. Penso anche solo al personaggio del capoufficio anziano: è uno che se la sa cavare comunque, in qualsiasi situazione. Si è adattato all’ambiente, e sopravvive, chiunque gli capiti sopra la testa.

G.C. Questo è vero. Però è anche innegabile che D’Alatri imputi proprio all’organizzazione burocratica la responsabilità di tarpare il talento e l’intraprendenza dei giovani volenterosi come il protagonista.

S.S. Non sono del tutto d’accordo. Non mi sembra che qui la responsabilità di “tarpare il talento” sia imputabile a quella che Weber definiva la “burocrazia impersonale”. Mi pare piuttosto che lo scontro si giochi tutto fra il dirigente dell’ufficio e il giovane geometra interpretato da Fabio Volo. Quest’ultimo non smania per la carriera, accetta di muoversi in vista di obiettivi intermedi e graduali, è ragionevole ed efficiente. Il personaggio del dirigente invece mi sembra sia rappresentato – questo sì – in modo molto stereotipato…

G.C. In parte hai ragione. Però io trovo interessante il modo in cui D’Alatri mette a fuoco, proprio in questo personaggio, la funzione dell’invidia come motore che innesca una strategia di contenimento e di emarginazione del dipendente più giovane e brillante. Forse sarebbe il caso di approfondire il ruolo di uno stato d’animo come l’invida nei rapporti gerarchici all’interno di un’organizzazione…

S.S. Credo che in questa prospettiva ci possa essere di qualche aiuto la teoria di McGregor sul rapporto fra il capo e i subordinati. Se un capo – dice McGregor – vede il mondo in una prospettiva malevola, se è roso dall’invidia e dal timore che qualche collaboratore possa risultare più bravo di lui, e se per questo è portato a scegliere collaboratori mediocri, poco motivati, scarsamente intraprendenti, innesca un circolo vizioso che poi lo obbliga di fatto a esercitare il suo ruolo per lo più in termini di controllo burocratico e fiscale. Se invece un capo accetta l’idea che un collaboratore possa avere più talento di lui, allora è portato a delegare e a responsabilizzare, innescando in tal modo un circolo virtuoso che migliora le relazioni umane di tutta l’organizzazione e incrementa la soddisfazione di tutti coloro che vi operano.

G.C. Mi sembra un modello abbastanza utopistico. Non mi pare che le grandi organizzazioni – penso per esempio all’Università – funzionino in questo modo. Anzi: il “barone” spesso è indotto a circondarsi di allievi mediocri che non gli facciano ombra…

S.S. Nelle Università a volte le cose vanno così. Ma nelle aziende no: le aziende hanno fame di talenti che abbiano più competenze sia tecniche sia relazionali rispetto ai quadri già inseriti. L’accusa di D’Alatri, se rivolta verso un’azienda privata, sarebbe stata molto meno credibile…

G.C. Mi pare invece interessante il modo in cui il film mette in evidenza la crescente insofferenza delle nuove generazioni verso l’idolatria del posto fisso.

S.S. Certo. In questa prospettiva è illuminante il conflitto generazionale a distanza che contrappone il protagonista al padre e alla famiglia. La famiglia vede nell’assunzione in Comune la svolta che “sistema” il giovane per tutta la vita, lui invece freme, frigge, cerca di adeguarsi, ma alla fine non ci sta. Quando poi scopre che il posto fisso l’ha avuto non perché vincitore di un concorso ma perché la buonanima di suo padre aveva versato, ai tempi, ben 15 milioni alla “persona giusta”, va su tutte le furie: lascia il posto in Comune, molla anche gli amici impegnati con il progetto della discoteca e decide di seguire il suo talento e le sue inclinazioni.

G.C. Ma anche in questo caso lo fa con molto realismo: “Se devo farmi sfruttare da un sogno, preferisco non averne”, dice agli amici. Se la fedeltà a un sogno implica come prezzo l’accettazione di un sistema basato su raccomandazioni, scambi di favori, furbizie e ipocrisie, il geometra Bettini non ci sta e sceglie un’altra strada. Il problema, caso mai, è capire quanto questa soluzione rispecchi davvero il sentire e le convinzioni delle giovani generazioni che si affacciano in questi anni sul mercato del lavoro.