E&M

2005/3

Durante l’ultima guerra, mentre i giovani del paese erano al fronte, i pochi uomini rimasti cercavano di regalarci qualche scampolo di brivido sano. Giocavano alla “bala”. Quattro contro quattro, prendevano a pugni una palla di gomma cercando di mandarla il più possibile vicino alla linea di fondo del campo avversario o, ancora meglio, oltre la stessa. La mano era ricoperta da un fazzoletto per colpire con la massima forza senza sentire dolore. Oggi diremmo: giocavano “a pallapugno”. L’incontro si svolgeva nella strada principale del paese ed erano le case stesse a delimitare il terreno di gioco. Le ragazze, che avevano gli innamorati al fronte, dimenticavano un attimo la solitudine e anche loro partecipavano al tifo, galvanizzando gli atleti in campo, non più giovanissimi. Quando il pallone finiva sui tetti, non sempre rimbalzava nella strada. A volte si fermava in una grondaia. C’era chi saliva sul tetto e, a passi felpati, in piedi, giungeva al bordo del precipizio. Poi la magia: brandendo un bastone per la polenta recuperava la palla.

Sempre i giochi degli adulti contagiano i bambini. Sulla strada in salita che affianca casa mia, alcuni operai di passaggio si fermavano a giocare con noi ragazzi. I loro tiri da adulti rimbalzavano spesso sul tetto di casa. Ma se la palla si fermava nella grondaia, il bastone della polenta lo brandiva mio nonno, ma con intenzioni minacciose. La partita finiva mestamente. Trovarla, in tempo di guerra, un’altra palla.

Nessuno sapeva di ripetere una sfida antichissima, conosciuta dal tempo dei romani. Un pallone da lanciare con un pugno il più lontano possibile è un gioco davvero elementare. Una prima regolamentazione risale al 1555. Goethe scrisse di aver assistito, nel 1786, a una partita di pallapugno a Verona, mescolato a cinquemila spettatori. Emblema della cultura contadina, della campagna e dei piccoli borghi, questo sport contagiò anche Edmondo De Amicis, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio. Il buon Leopardi, quando scrisse A un vincitore nel pallone si riferiva proprio a questo gioco. E la sala di Parigi, dove nel 1789 il Terzo Stato giurò di non separarsi sino a quando la Francia non avesse una Costituente, si chiamava Jeu de Paume perché all’interno si giocava alla pallacorda, una delle infinite varianti della pallapugno.

Per la verità, sino al 2003 il gioco si chiamava “pallone elastico”. Ma due anni fa un cambio di ragione sociale ha dato vita alla Federazione Italiana Pallapugno (FIPAP), disciplina associata al CONI. Gestisce ogni anno un regolare campionato, dalla serie A alla serie C due, a cui vanno aggiunti i campionati giovanili delle varie categorie. Si gioca soprattutto nel sud del Piemonte e in Liguria. Alcune partite richiamano anche tremila spettatori. Il primo scudetto fu assegnato nel 1912. I praticanti sono ventimila e le società tesserate un centinaio. Da tempo sfrattati dalle strade e dalle piazze del paese, i giocatori si avvalgono oramai di un proprio terreno di gioco chiamato sferisterio. Tutte le squadre possono contare su sponsor molto variegati: banche e hotel, grande distribuzione e alimentari, termosanitari e arti grafiche. Una televisione di Cuneo trasmette gli eventi più importanti. È un mondo sotterraneo, ignorato come le infinite piccole imprese che hanno fatto l’Italia.

E adesso sentite l’ultima. Nel 2004 è stato organizzato, proprio in Italia, il primo campionato del mondo di pallapugno. Nel girone eliminatorio battiamo l’Argentina per 6-1, l’Ecuador per 6-2 e il Belgio per 6-1. In semifinale superiamo la Francia per 6-1. In finale, il 25 aprile 2004, ci ritroviamo l’Ecuador e lo ribattiamo, ancora per 6-2. Siamo campioni del mondo.