E&M

2005/3

Severino Salvemini

Quando “carmina dant panem”: la cultura come risorsa economica

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Economia e cultura: due elementi che convergono da lontano

Economia e cultura: secondo alcuni una specie di ossimoro. Da una parte, l’economia – e il management ne è una sottodisciplina – rappresenta l’elemento razionale delle decisioni umane mentre, dall’altra, la cultura il lato più romantico e passionale. L’imprenditore con i piedi per terra e l’intellettuale nella sua torre d’avorio. La dimensione organizzativa che pone una serie di vincoli e di costrizioni al comportamento (si pensi alla convenienza nell’uso delle risorse scarse o alle logiche programmatorie di un budget o al rigore di certe norme e procedure) che la cultura non pone, essendo più orientata al genio e alla sregolatezza della creatività. L’economia si fonda per tradizione su fattori competitivi mentre la cultura, per la sua natura “disinteressata” è bene di merito e concetto astratto (l’Identità, la Tradizione, la Memoria, la Sapienza, il Senso, la Riserva di esperienza) e non tollera finalità competitive. Il background quantitativo insito nella scienza economica è assai distante dalla prospettiva umanistica e qualitativa che presiede agli studi e ai comportamenti dell’artista.

Tutto ciò condito da un’atmosfera di reciproco sospetto con cui specialisti di cultura e operatori d’azienda si guardano. Gli uni diffidenti di una possibile intrusione del management nel “sacro recinto” del museo, del teatro, della biblioteca, della galleria d’arte, temendo l’imposizione di soluzioni preconfezionate in ambiti lontani e il riciclo di pratiche manageriali sperimentate altrove (una disinvolta operazione di cut & paste senza cogliere le specificità dei mercati culturali e delle istituzioni ad essi preposte). Gli altri convinti che l’arte e la cultura siano un magnifico lusso, una finestra di evasione dalla routine quotidiana, un piacevole diversivo dalle preoccupazioni spesso logoranti del fare impresa in un’arena battuta da avversari agguerriti. Uno scarto da concedersi occasionalmente e con moderazione, più come espressione di una posizione esistenziale individuale che come attività in qualche modo collegabile all’impresa. La cultura come negazione della redditività e l’economicità come negazione della cultura.

Ecco, occorre partire da queste contrapposizioni per spiegare cosa è successo in questi ultimi vent’anni e quanto la distanza progressivamente sia stata colmata. In parte la divergenza è stata rimarginata perché c’è stata la crescita dei mercati culturali e la necessità di individuare un uso più accorto delle risorse nella gestione delle istituzioni culturali; in parte la sfida della produzione ad alto valore aggiunto e ad alto contenuto di conoscenza, informazione e valore simbolico (tipico della postmodernità) ha dato alla cultura un ruolo centrale anche nelle strategie di prodotto e di servizio più tradizionali.

Una gestione economica più moderna delle istituzioni culturali

Per ricordarci perché in Italia i processi artistici e culturali non sono solo patrimonio identitario collettivo ma anche asset economici di rilevante portata prospettica vale la pena di iniziare questo paragrafo con due basilari riflessioni.

1. Le ultime stime dell’Unesco confermano che dentro il perimetro del Bel Paese si situa più del 50% del patrimonio artistico dell’intero pianeta. Per far sì che tale patrimonio (rocche, dimore, castelli, monumenti, città, parchi e così via) possa essere tutelato, fruito e valorizzato occorrono investimenti, energie e risorse umane qualificate. Fattori produttivi costosi (e infatti il refrain che insistentemente circola è che “la cultura costa molto”), la cui assenza però porta a una privazione di introiti economici e di reputazione del paese ancora più penalizzante (e infatti il contro-ritornello recita che “la non cultura costa molto di più della cultura”). Questa riflessione si collega al movimento di pensiero secondo cui l’arte e la cultura, se adeguatamente curate, possono diventare fattori cruciali per una diffusa competitività territoriale, attraendo in loco la classe creativa.

2. La seconda riflessione riguarda la nuova centralità che le istituzioni che si occupano di entertainment avranno nella vita sociale delle prossime generazioni. Se si estrapolano le ore di vita attiva delle giovani generazioni che oggi hanno venticinque anni di età, si nota che queste ultime mediamente lavoreranno 80000 ore mentre ne dedicheranno al tempo libero 240000 (tre volte tanto!). Immediata è la conclusione che i settori collegati al tempo libero (beni culturali, spettacolo, turismo, eventi, musica, sport, cinema e così via) rappresenteranno i comparti economici in crescita nel prossimo futuro e l’occasione di allargamento del mercato del lavoro in direzione di un’occupazione creativa e di qualità.

Le precedenti considerazioni sintetizzano quanto la valorizzazione del patrimonio (e non solo – come spesso capita oggigiorno di sentire – la tutela o la conservazione dello stesso) e il sostegno allo sviluppo dei mercati dell’entertainment siano elementi indispensabili per la società postindustriale del XXI secolo.

E questa consapevolezza del peso dell’economia e del management nel settore culturale si sta facendo avanti convincendo piano piano anche le persone che per anni hanno mantenuto un atteggiamento di forte critica al mondo manageriale (si pensi all’atteggiamento impacciato e sostanzialmente dispregiativo con cui i “sacerdoti” dell’intellettualità hanno stigmatizzato l’economia della cultura come business: marketing equivalente a mercantilismo, fundraising a “far soldi”, fruizione di massa e promozione allargata del bene artistico come appiattimento dell’eccellenza estetica ecc.). Da un po’ di tempo si nota però un superamento dell’autoreferenzialità delle istituzioni culturali, spesso in difficoltà sul piano del bilancio economico e pertanto costrette a confrontarsi con il pubblico riuscendo a conciliare prodotti o manifestazioni difficili e raffinati (i cosiddetti “eventi di testa”) con un mercato che esprime bisogni più popolari e di massa.

Stanno restringendosi le difficoltà dell’ambiente artistico ad uscire da una visione organizzativa troppo intellettuale, e ciò è testimoniato anche da un nuovo linguaggio comune che riesce nei due mondi – artistico e manageriale – a veicolare i distinti valori professionali. La polarità di una prospettiva che originava una difficile comunicabilità si è progressivamente colmata, a mano a mano che si sono fatte strada convinzioni, sempre più fondate, sulla necessità di considerare i beni e le attività culturali in un’ottica più vicina al mercato e di dare ad essi una gestione manageriale più efficiente e più rispondente all’esigenza di qualità del servizio da parte dei fruitori. È aumentata nell’intera popolazione italiana la coscienza di mettere un po’ di ordine nell’immenso patrimonio culturale, che abbiamo per decenni mantenuto così male e sfruttato così poco. Gli enti che si occupano del problema si sono rinnovati sul piano giuridico-istituzionale, al fine di individuare nuove formule e meccanismi che aiutino a recuperare/acquisire autonomia e responsabilizzazione, più efficienza nell’uso delle risorse e maggiore efficacia nella soddisfazione della missione istituzionale.

Nel paese si è affermata quindi l’accettazione di una gestione manageriale delle istituzioni che operano nel comparto artistico e culturale. Si tratta di un processo più ampio che tocca anche altri comparti gestiti dallo Stato e dagli enti territoriali, quali la scuola, la sanità, la difesa, i servizi di pubblica utilità e così via, secondo una deriva che mette in discussione le politiche passate di welfare e dà crescente attenzione alle organizzazioni non profit. Tale maggiore predisposizione manageriale è richiesta dalla necessità di un atteggiamento di performance più vicino a quello delle imprese eccellenti e all’uso sempre più consapevole e misurato delle risorse economiche, progressivamente limitate da una spesa pubblica meno abbondante rispetto alle tradizioni del finanziamento sociale. A ciò si accompagna una generale trasformazione degli assetti istituzionali che aiutano le istituzioni artistiche e culturali a recepire i bisogni di una società in evoluzione.

Cruciale in tutto ciò diventa il management culturale perché aiuta, con tutta l’esperienza che la disciplina del management ha accumulato nella storia dell’impresa, a miscelare la natura, assai valoriale e ideale, che connota tradizionalmente il settore artistico, con la mentalità aziendalistica sensibile al giusto e razionale uso delle risorse che connota tradizionalmente il comparto delle aziende di produzione e di servizio. Management culturale che aiuta a selezionare le pratiche aziendali finanziarie, di marketing, organizzative, logistiche e di gestione delle risorse umane provenienti dal mondo del business e ad applicarle nelle realtà creative, capendo però le logiche sostanziali di queste organizzazioni, così diverse da quelle normalmente oggetto di studio degli aziendalismi. Proprio per evitare che un acritico trasferimento di conoscenze dia atto a un processo di banalizzazione del know-how aziendalistico, il quale poi non riesce a scalfire, nella sua retorica troppo analitica e razionalistica, il contesto artistico e culturale spesso fatto di storie e tradizioni interpretabili con altri paradigmi scientifici.

L’occasione attuale è notevole: vi sono grandi opportunità per valorizzare siti d’arte, testi letterari, composizioni musicali e opere cinematografiche, riuscendo a promuovere tutto il patrimonio e/o ricercando nuove opportunità per programmi audiovisivi o di arti performative all’insegna dell’italianità. Tutto ciò a condizione di un minimo di apertura delle due parti in gioco: un approccio più umile e modesto dei gestori della sapienza manageriale e un non arroccamento degli intellettuali su posizioni conservative e preconcette nei confronti dell’impresa e del mercato.

I beni culturali, i prodotti artistici, i servizi dello spettacolo certamente oggigiorno non ricoprono una quota di produzione nazionale e di occupazione paragonabile a quella dei grandi settori industriali e di servizi, ma nel giro di pochi lustri produrranno effetti molto rilevanti sulle dinamiche economiche e sociali dell’intera popolazione. È diventata quindi indispensabile una maggiore compenetrazione dei mondi della cultura e dell’economia e ciò richiede un confronto aperto e senza tabù.

La “culturalizzazione” dell’economia: quando la cultura rilancia l’impresa

Gli effetti benefici dell’arte e della cultura possono essere non limitati solo allo sviluppo dei mercati culturali, ma produrre invece significativi effetti spillover nell’economia in generale. Adriano Olivetti fu il primo a crederci, convinto com’era che il progresso civile e la crescita economica non potessero essere disgiunti. E l’azienda di Ivrea ha per molti anni rappresentato nel mondo uno dei più stimolanti laboratori, riuscendo a incardinare elementi di nuova estetica e di nuovo design nei prodotti stessi e nella loro promozione esterna.

Negli anni successivi al boom economico, e ancora oggi, la cultura è servita alle imprese soprattutto per esprimere programmi di sponsorizzazione e di mecenatismo, abbastanza laterali rispetto alle logiche di funzionamento aziendale. L’arte è stata considerata come un’opportunità da sfruttare, seppure con un raggio circoscritto di efficacia, anche per il difficile calcolo del ritorno economico in chiave di reputazione e di immagine. Ma tali investimenti negli ultimi dieci anni, nonostante il ciclo economico sia stato dominato da grande incertezza e da una forte recessione, sono cresciuti e le imprese che hanno investito si sono date traguardi ancora più ambiziosi che in passato. Ciò la dice lunga anche sul fatto che i modelli di consumo tradizionale cominciano a mostrare i loro limiti e sulla progressiva attenzione dei consumatori a chiedere conto di cosa e di come le imprese producano. I consumatori acquistano sempre più secondo un modello identitario complessivo e la sponsorizzazione o il mecenatismo culturale indicano la volontà delle imprese di mostrare come la propria attività sia vicino alle aspirazioni e ai desideri del proprio pubblico.

Ma ciò che oggigiorno va sottolineato è il progressivo superamento della concezione comunicazionale della cultura per le imprese. La cultura recupera infatti nel processo produttivo dell’impresa il ruolo di materia prima e ne dà senso economico, facendola diventare input strategico di sopravvivenza economica. Non si investe dunque in cultura per deboli e indiretti interessi di prestigio sociale (tipici dei progetti di sponsorizzazione), ma posizionando l’investimento stesso più a monte nella catena del valore.

Questa considerazione ha indubbiamente del rivoluzionario rispetto a quanto abbiamo detto in premessa di questo articolo. All’inizio, infatti, abbiamo parlato di economicità come negazione della cultura (i beni artistici considerati improduttivi e pertanto poco interessanti per un orientamento speculativo). Poi abbiamo detto che la sponsorizzazione o il mecenatismo si collocano alla fine della filiera produttiva, perché la produzione di valore economico precede il suo impiego in ambito culturale (la cultura non è altro che uno dei tanti mezzi di destinazione della ricchezza, quasi come una specie di “dividendo sociale” al territorio). Ora affermiamo che il rilievo che la cultura assume nell’economia immateriale contemporanea sta nella sua capacità di produrre valori mediante significati. Essa orienta il mercato, condiziona le organizzazioni, influisce sul contesto in cui si opera. Il tutto in un’economia simbolica dove conta sempre meno il valore d’uso dei prodotti (il prodotto per quello che è) e conta sempre di più la valenza simbolica e evocativa che esprimono e raccontano i beni e le esperienze di servizio.

È la sostituzione del capitalismo industriale con quello culturale che la teoria aziendalistica comincia a distinguere tra le nebbie e le foschie prodotte dal fordismo e dal postfordismo. Alcune delle imprese più evolute hanno imparato ad abitare in questo ambiente di postmodernità, dove non si producono o vendono semplicemente oggetti, definiti dalla loro prestazione utile, come faceva la prima modernità. Quelle imprese oggi producono e vendono prima di tutto i significati che questi oggetti incorporano. E anche le imprese che paiono molto distanti da queste mutazioni – si pensi alle manifatturiere o a offerenti servizi standardizzati di massa – devono fare i conti con questi elementi “alti” derivanti dalla produzione culturale.

Assistiamo così ad un vero e proprio rovesciamento della relazione cultura-economia: da una situazione in cui la produzione del reddito era responsabilità esclusiva dell’impresa, la quale decideva se dedicare alla cultura parte delle proprie eccedenze finanziarie, si passa a una situazione in cui il focus culturale non è più periferico rispetto al core business dell’azienda, bensì centrale, perché stimolo tra i principali per comprendere le avanguardie del benessere e dello sviluppo umano. Si può pertanto comprendere la rilevanza delle risorse umane di un’impresa: tanto più il capitale simbolico è presente e compreso nelle persone che operano in azienda e che presidiano le decisioni strategiche d’impresa, tanto maggiore sarà il livello del capitale simbolico insito in un determinato marchio o più specificamente in un determinato prodotto. La “culturalizzazione” dell’economia è dunque una tappa evolutiva del mercato che apre la strada a una più felice contaminazione tra impresa e cultura. Un incontro che – all’insegna del mutuo scambio e della reciprocità dei benefici – influisce con energia positiva sulla costituzione e sul posizionamento della marca acquisendole un consenso allargato, frutto di un impegno dichiarato nei confronti della comunità degli utenti e dei consumatori.

La cultura come ingrediente essenziale per attrarre sul territorio la classe creativa

L’odierna crisi del modello industriale canonico e la consapevolezza che il “volo del calabrone” dell’economia italiana (piccole aziende e distretti industriali inclusi) si sia fermato hanno aperto un necessario approfondimento sulla scarsa innovatività delle nostre imprese. Le difficoltà che queste incontrano – anche le meglio gestite – nell’arena internazionale fanno suonare segnali d’allarme acuti e testimoniano che le nostre aziende devono recuperare molta più innovazione di quanto sia stato millantato per anni con un generico “made in Italy”. Le sirene protezionistiche, sorprendentemente riapparse nel dibattito economico (anche perché autorevolmente sostenute da ministri economici) sono fallaci e illusorie, perché ben poco si può fare nei confronti di contraffazioni e di opportunismi di piccolo cabotaggio.

La strada sta dunque nel potenziamento dell’innovazione e della creatività. E lì il senso estetico, il pensiero laterale, l’intelligenza emotiva possono giocare tutte le loro carte. Se il talento creativo diventa un asset fondamentale, la cultura per l’impresa assume un ruolo decisivamente centrale.

Alcuni studi recenti condotti sul territorio mostrano l’importanza della creatività come elemento di vantaggio competitivo: chi saprà essere creativo e riuscirà a tradurre questa creatività in elementi concreti conquisterà sugli altri un vantaggio differenziale e sostenibile nel tempo. Ma la creatività da dove può emergere? Da nuovi talenti, da nuove tecnologie, da nuove predisposizioni a tollerare dissonanze cognitive, ma soprattutto dall’accostamento dei settori culturali ai tradizionali settori manifatturieri e terziari. E ciò avviene, in particolare, in quelle città e in quei territori dove sono frequenti i luoghi d’offerta di avvenimenti, di segni e di momenti che rappresentano simbolicamente la cultura.

La presenza di offerta culturale diventa dunque un’utile condizione per attrarre i nuovi creativi sul territorio e per far sì che essi crescano e migliorino le proprie capacità di lavorare insieme.

Una cultural policy più socio-economica che in passato

In ultimo, qualche riflessione rispetto agli attori che dovrebbero inserire i concetti presentati in precedenza in un più ampio programma di politica culturale. Se è vero che nel prossimo futuro il capitalismo culturale si sostituirà al capitalismo industriale, coloro che hanno il compito di elaborare la cultural policy del paese dovrebbero aggiungere al legittimo presidio della conservazione artistica del patrimonio una serie di capitoli di natura più socio-economica, rivolti proprio alla cultura come risorsa per la competitività.

Infatti, c’è una evidenza piuttosto eloquente: i paesi che negli ultimi anni si stanno distinguendo per qualità degli interventi culturali di sistema sono anche quelli che più sono cresciuti nei ranking globali della competitività (paesi scandinavi, Regno Unito, Benelux, Canada, Australia, Giappone ecc.).

Un primo passo è allora superare la concezione residualistica della cultura rispetto agli altri rilevanti investimenti pubblici (difesa, istruzione, sanità ecc.), spostandola da una storica marginalità a una nuova centralità nell’azione di governo. Ciò richiede di difendere i processi artistici e di spettacolo anche in tempi di declino strutturale del welfare e di particolare rigore per la finanza pubblica, inserendoli tra i principali motori per il recupero della competitività nazionale e riconoscendo il ruolo fondamentale della cultura nello sviluppo socio-economico del paese.

Un secondo passo è poi il superamento della concezione di Stato riluttante a delegare a Regioni e a enti territoriali il funzionamento delle istituzioni artistiche e culturali, cedendo funzioni di gestione diretta e concentrandosi invece sul ruolo strategico di centro propulsivo e di regolatore del sistema.

Un terzo passo è infine quello di attrarre con meccanismi di incentivo i privati nell’imprenditorialità culturale, sviluppando soluzioni incisive di defiscalizzazione e bilanciando in tal modo il giusto mix tra pubblico e privato. Ciò apre il delicato problema di selezionare i giusti candidati di alto livello per i ruoli di governance, inserendo profili di rilevante competenza manageriale e imprenditoriale in contesti dove spesso le persone vengono incluse più per motivi di status o di appartenenza ai salotti buoni che non per convinzione che tra aspirazioni culturali e obiettivi di impresa ci siano spazi di incontro.

Tre semplici suggerimenti per una policy più aggressiva e determinata sul piano economico, che superi ciò che spesso si nota oggi nel paese: una politica culturale priva di mezzi e costretta a seguire una logica di soluzione delle emergenze, in un quadro privo di una visione strategica complessiva. Un orientamento strategico necessario, che porti a elevare la professionalità prospettica di questi settori per poter giungere, tra dieci anni, a comparti a elevata managerialità culturale, competitivi a testa alta con le analoghe istituzioni europee.

Per saperne di più

Si veda il pdf allegato.