E&M

2005/2

Per mezz’ora rimase seduto nella doccia. Andriy Schevchenko ancora non ci credeva. Grazie a un suo implacabile rigore, il Milan aveva vinto a Manchester la sua sesta Coppa dei Campioni. “Quella rete ha dato un senso alla mia carriera. Mi sentivo veramente realizzato.” Una foto meravigliosa lo ritrae mentre si accosta timoroso alla statua che Kiev ha innalzato al più grande personaggio della sua storia calcistica, l’allenatore che ha plasmato grandi giocatori e ha portato la sua squadra ai vertici dell’Europa, il colonnello Valery Lobanowski. Un ragazzo minuscolo ed esile appoggia sulla panchina dove è seduto il suo maestro la Coppa dei Campioni appena vinta. Il trofeo ha perso i nastrini rossoneri per rivestire quelli azzurri e gialli dell’Ucraina. Quella coppa, Andriy voleva condividerla con l’uomo che stava alle radici del suo successo. Quando Lobanowski morì, Schevchenko era in tournée negli Stati Uniti con il Milan. Tutti, compresa la fidanzata che diventerà sua moglie, si resero conto che dovevano lasciarlo partire subito per Kiev. Quella storia, per lui, era senza fine. E quando vinse il pallone d’oro, il primo pensiero fu per Valery Lobanowski. È importante avere avuto un maestro, nella vita.

Ti serve quando stai attraversando momenti difficili. “Anche gli anni storti fanno parte della vita” ricorda Schevchenko, che apparteneva a una famiglia benestante. Quando successe il disastro di Chernobyl fu trasferito per un anno e mezzo sul Mar Nero. La società non lo aveva dimenticato e al suo rientro andò a riprenderselo. Non tutto fu facile. Un menisco lo fermò per cinque mesi. Fu bocciato quando domandò di essere ammesso alla scuola superiore di sport. Arrivarono anche le prime sconfitte. All’inizio neppure il suo ruolo era chiaro. Ha giocato persino in porta. È qui che serve un maestro: il punto di riferimento, specie quando perdi. Non risolve i problemi, infonde determinazione. Quando sbarcò in Italia, il ragazzo andava a Milanello anche il giorno di riposo. Zaccheroni proibì al magazziniere di dargli un pallone. E lui, imperterrito, correva e scattava da solo.

Un grande maestro non è egoista. Anzi, insegna che siamo fatti di altri. Ti spinge a imparare da tutti. Schevchenko parla bene di Zaccheroni, dice che gli ha insegnato l’Italia. Solo lui oramai si ricorda del turco Terim, perché gli ha fatto gustare la cultura calcistica di un altro paese. Da Ancelotti ha imparato la tranquillità. Sente di dovere tutto a tutti. “Senza la società, senza i compagni, non sarei quello che sono.”

Chi guida un giovane sa che deve lasciarlo sognare. Durante un viaggio in Italia, Andriy fece sosta anche a Milano e vide lo stadio di San Siro. Dentro di sé il ragazzino diceva: “Qui vorrei segnare tanti gol”. A sogno avverato dirà ai ragazzi della sua Ucraina: “Se sono riuscito io, anche voi potete farcela”.

“Se un grande giocatore decide di fare il tecnico – gli diceva Lobanowski – deve dimenticare di essere stato un grande giocatore. A capo di una squadra serve un grande uomo.” E ancora: “Non tirarti mai indietro, gli altri possono avere bisogno di te”. Non vuole che si sappia, ma Andriy devolve i ricavati dei contratti pubblicitari a un’associazione dell’infanzia ucraina. E adesso sta costruendo un orfanotrofio a Kiev. Un maestro è grande quando ti insegna a trasmettere ad altri i tuoi valori con l’umiltà e la determinazione richieste dalle cose sacre. Ti fa sentire un anello indispensabile di una grande catena che attraversa il mondo. Se credi negli altri, non cercare la tua strada nella vita. La strada verrà da te.