E&M

2005/1

Gianni Canova Severino Salvemini

Portafoglio e pregiudizio

Il film documentario The Corporation di Jennifer Abbott e Mark Achbar racconta la realtà contemporanea delle grandi società di capitali con un approccio molto ideologico, intriso di tutti i vecchi pregiudizi contro l’impresa e la sua cultura.

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The Corporation

Regia di Jennifer Abbott e Mark Achbar

Soggetto dal libro di Joel Bakan

Film documentario

Canada, 2004

Il genere documentario, al cinema, sta prendendo il posto che un tempo era occupato sulla stampa quotidiana dagli “editoriali”, o che nella pubblicistica prendeva il nome di pamphlet: non una ricognizione obiettiva su un problema d’attualità o su una questione di grande interesse per l’opinione pubblica, ma un intervento mirato a sostenere una tesi, un punto di vista, un’interpretazione soggettiva del problema, spesso nei toni aspri e polemici della denuncia o addirittura del j’accuse.

Michael Moore, con il suo Fahrenheit 9/11 (Palma d’oro al Festival di Cannes dello scorso maggio) ha fatto da apripista, subito seguito da un numero non esiguo di opere che applicano il medesimo modello, con una vis polemica spesso molto d’effetto anche se non sempre sostenuta da adeguate argomentazioni. The Corporation di Jennifer Abbott e Mark Achbar è forse il titolo che – in questa chiave – ha suscitato più scalpore: non tanto per meriti filmico-estetici, quanto per la virulenza e la radicalità delle posizioni che sostiene. Ispirato al libro dello studioso canadese Joel Bakan The Corporation. La patologica ricerca del potere e del profitto (Fandango Libri Edizioni), il film è un durissimo atto d’accusa nei confronti delle grandi società di capitale, accusate di essere le istituzioni dominanti del nostro tempo (così come in altri tempi o in altre contingenze storiche sono state dominanti istituzioni quali la monarchia, la chiesa o – in Unione Sovietica e nella Cina del dopoguerra – il partito comunista). Diviso in capitoletti dai titoli ammiccanti (“Giustificare l’avidità”, “Patologia del commercio”, “Il trionfo dell’esca”) stampati in bianco su sfondo rosso, The Corporation raccoglie opinioni e testimonianze di esponenti della cultura radicale americana (da Noam Chomsky all’autrice di No logo Naomi Klein, da Jeremy Rifkin al cineasta Michael Moore) alternandole al racconto di alcuni manager e amministratori delegati di grandi società. Che cosa imputano gli autori alle Corporations? E con quale fondatezza storica e sociologica? Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. A me pare che tanto il libro quanto il film che ne è stato tratto siano una sorta di “antologia esemplare” di tutti i pregiudizi e i luoghi comuni sull’economia capitalistica, dipinta come fatalmente corruttrice e socialmente irresponsabile.

G.C. A tratti è così. Ma a tratti il film muove anche accuse meno ideologiche e più circostanziate, a cui potrebbe essere interessante provare a rispondere.

S.S. La tesi di fondo del film è semplicissima: le Corporations hanno un solo obiettivo, quello di produrre profitti e incrementare i dividendi. Esse dominano il mondo – nella visione degli autori – perché sono irresponsabili, manipolatrici e tendenzialmente asociali…

G.C. Forse è anche peggio di così. Le Corporations – dicono gli autori – hanno il medesimo comportamento amorale di uno psicopatico (assenza di rimorsi e di sensi di colpa, nessun interesse per le conseguenze delle proprie azioni, inconsapevolezza delle ricadute sociali prodotte dai propri gesti), con la differenza che uno psicopatico può essere perseguito dalla legge, mentre una Corporation no.

S.S. A me pare che proprio qui si annidi la debolezza di fondo del film: gli autori confondono il male che c’è nell’uomo con quello che secondo loro si alligna nelle società per azioni. Il film si basa su un’opzione filosofica abbastanza malevola: l’uomo è calcolatore, speculativo, massimizza sempre l’utilità e l’interesse personale. Liberi – se lo ritengono – di pensarla così. Il problema nasce quando gli autori del film trasferiscono questa antropologia pessimista dall’umanità in generale alle società per azioni. È un passaggio la cui coerenza logica è tutta da dimostrare.

G.C. Non sono del tutto d’accordo. Mi sembra, anzi, che il film più di una volta sottolinei la sostanziale “bontà” degli esseri umani, che si ritroverebbero corrotti e contagiati dalla voracità congenita delle Corporations. Uno degli aspetti più impressionanti del documentario di Abbott e Achbar è proprio nel modo in cui rappresenta l’assoluta inconsapevolezza dei manager e la loro indiscutibile buona fede: quasi tutti appaiono come individui colti e sensibili, preoccupati per la difesa dell’ambiente, ma del tutto ignari dei danni prodotti dagli interessi della Corporation che essi rappresentano. Penso, per esempio, alla scena in cui Sir Mark Moody-Stuart, all’epoca presidente della Shell, si mette a dialogare con i contestatori che gli hanno occupato il giardino, offre loro tè e pasticcini, condivide le loro preoccupazioni ecologiche, del tutto ignaro del fatto che in quello stesso istante – dicono gli autori – la società da lui presieduta sta compiendo in Nigeria uno dei crimini ambientali più gravi della storia.

S.S. È proprio questa demagogia che trovo assolutamente fastidiosa nel film. Mi sembra inaccettabile questo tentativo di presentare i grandi manager delle Corporations come individui dalla personalità sdoppiata: buoni e bravi nel privato e squaletti feroci quando assumono il ruolo del “corporated man”.

G.C. Non si può negare, però, che qualche squaletto coi dentini acuminati il film ce lo faccia vedere per davvero: penso anche solo all’operatore di borsa che all’indomani dell’attentato terroristico alle Twin Towers gioisce per il fatto che le quotazioni dell’oro sono raddoppiate e i suoi clienti ci hanno tutti guadagnato.

S.S. D’accordo. Cerchiamo però di non essere miopi e proviamo a guardarci indietro: già nell’antica Roma Cicerone pronunciava arringhe memorabili contro i governatori corrotti della Sicilia, e non c’erano le Corporations, allora. Ripeto: il problema, se c’è, riguarda gli uomini, non le società per azioni. Che sono, di per sé, un costrutto abbastanza neutro.

G.C. Ho più di una perplessità su quest’ultimo aspetto. Non dimentichiamo che non molti anni fa le Corporations ottennero per legge la possibilità di brevettare anche prodotti della natura. Mi sembra un terreno tutt’altro che neutro.

S.S. Questo è vero, ma non generalizziamo. Soprattutto in un momento come questo, in cui i consumatori sono ormai sufficientemente maturi e consapevoli per distinguere fra un’impresa che produce valore e un’altra che lo distrugge.

G.C. Come la mettiamo, però, con le stime catastrofiche sulle risorse energetiche ormai in rapido esaurimento – dicono gli autori – anche per la smania forsennata di privatizzare tutto?

S.S. Mi sembrano un po’ posizioni alla Rifkin: (La fine del lavoro), da catastrofisti apocalittici. Per fortuna (nostra…), Rifkin non ne ha mai azzeccato una… Del resto, anche il film di Abbott e Achbar è stato realizzato e commercializzato con le stesse logiche che mette sotto accusa.

G.C. È innegabile. Io stesso ho visto The Corporation in un sabato pomeriggio d’autunno in un multiplex della Warner. Cioè dentro una sala affiliata a una delle Corporations che il film si propone di denunciare.