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2005/1

Passerà alla storia l’arbitro olandese René Temmink. Stava arbitrando una partita tra il Den Haag, una modesta squadra di calcio dell’Aja, e il famoso PSV Eindoven. Quando gli ospiti conducevano oramai per due a zero, il pubblico cominciò a schernirlo come “la puttana del PVS”. Ma un limite intollerabile per l’arbitro, un ebreo, furono i cori con cui si incitava a liquidare lui e i suoi simili con il gas. Offeso dall’ignobile coro razzista, il signor Temmink ha fischiato la fine con dieci minuti di anticipo. E grazie a un precedente. Rafael Van der Vaart, un giocatore dell’Ajax, lui pure di origine ebraica, era stato insultato per novanta minuti. Cori osceni erano stati diretti anche alla fidanzata, Sylvie Meis, una nota fotomodella. La Federazione calcistica olandese è corsa ai ripari avallando l’interruzione di una gara qualora i cori dei tifosi assumessero una connotazione razzista. Il primo stop è arrivato nell’ottobre 2004. Avrà un seguito.

È strano che tutto questo avvenga proprio in Olanda, dove Anna Frank, l’immortale autrice del Diario, rivelava un’integrazione perfetta tra ebrei e popolazione locale. È curioso che i tifosi del Den Haag, oggi incriminati, vincessero proprio in quegli anni drammatici – 1942 e 1943 – gli unici due scudetti della loro storia. In un paese come l’Olanda, considerata permissivista – libertà di fumare, libertà sessuale, libertà di morire – è simpatico che sia proprio il calcio a insegnare che la libertà di ognuno deve trovare un limite nel diritto degli altri.

Il tema del razzismo, che i media hanno finalmente deciso di portare in prima pagina, sta diventando emblematico. Se ne parlerà a lungo nei prossimi anni. “Calcio e società civile” potrebbe essere il titolo di una ipotesi di meeting che l’UEFA sta studiando. La FIFA si limita a qualche espressione di solidarietà. A Zurigo ogni anno si divertono a cambiare le interpretazioni del fuori gioco, ma intanto fuori gioco finisce proprio quella convivenza che è l’anima dello sport.

Le Olimpiadi si prestano meno a queste discriminazioni, anche perché molte squadre nazionali, per racimolare qualche medaglia, non esitano a adottare atleti di colore, di rara bellezza e dalle prestazioni notevoli. Nel 1936, quando Hitler si sentì offeso che un nero, Jesse Owens, l’uomo più veloce del mondo, vincesse quattro medaglie d’oro proprio in quei giochi olimpici che dovevano sancire la superiorità della razza ariana, il dittatore lasciò lo stadio di Berlino, ma i giochi continuarono senza insulti. È nel pubblico del calcio che oggi si annida il razzismo. E se i giocatori del Treviso, per solidarietà con Omolade, loro compagno di squadra nigeriano, giocarono una partita con il volto dipinto di nero, non va dimenticato che a Verona, quando si stava per acquistare un giocatore di colore, venne esposto un fantoccio nero con il cappio al collo, accompagnato da un invito alquanto esplicito: “Dategli lo stadio da pulire”. L’acquisto non ebbe luogo.

Sono convinto che ne usciremo. Molti anni fa, negli stadi inglesi, quando scendeva in campo un giocatore di colore, le banane lanciate sul terreno di gioco facevano parte del folklore del calcio britannico. Adesso il fenomeno è scomparso. Servono anni di educazione e buon gusto. Elvis Presley, uno dei padri del rock’n’roll, ebbe il merito di “sdoganare” per il pubblico di tutto il mondo un certo tipo di musica nera che aveva assorbito in gioventù, come il blues e i gospel. Anche il calcio, se si sentirà cittadino del mondo, troverà le strade della sua liberazione. Ogni popolo regala qualcosa agli altri. Per fortuna siamo diversi.