E&M

2004/6

Bruno Busacca

Made in italy: la tutela di una marca che non c’è

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Come un pendolo, che oscilla fra gli estremi della catena del valore, il dibattito sulla competitività del sistema Italia pone periodicamente in luce ora la necessità di investire più risorse nella ricerca e sviluppo, ora l’opportunità di agevolare la delocalizzazione della produzione nei paesi a basso costo di manodopera, ora l’esigenza di presidiare con maggiore efficacia la distribuzione e il mercato finale.

L’oscillazione verso gli stadi a valle della catena del valore si accompagna in genere agli accorati appelli che imprese, distretti, associazioni industriali e sindacali rivolgono agli organi istituzionali a vari livelli affinché sia presa piena coscienza della scarsa tutela del made in Italy. A questa carenza, che rischia di vanificare i già vacillanti sforzi innovativi delle imprese italiane, vengono in parte ricondotte le difficoltà che il nostro paese incontra nel fronteggiare la concorrenza sia dei rivali tradizionali sia dei nuovi protagonisti delle economie emergenti.

Indubbiamente la questione è rilevante e critica, anche se la discussione appare viziata da una prospettiva parziale e muove da un assunto tutt’altro che dimostrato.

Il primo aspetto (parzialità della prospettiva) è direttamente connesso al movimento oscillatorio del pendolo e richiama un copione già recitato molte volte nelle imprese.

Allorché, infatti, si manifestano consistenti difficoltà di mercato, la tentazione di attribuire le maggiori responsabilità a un’inadeguata gestione delle risorse e delle leve di marketing diventa presto irresistibile. In tale processo di ricerca del colpevole, che tipicamente si traduce nella punizione dell’innocente, le risorse di marketing, e in primo luogo la marca, rappresentano infatti un indiziato inevitabile, proprio perché costituiscono il ponte cognitivo fra domanda e offerta, gli strumenti di governo delle relazioni di mercato.

Spesso, tuttavia, all’origine delle difficoltà vi sono cause molteplici, riconducibili, per esempio, a carenze progettuali e/o produttive, a obsoleti sistemi di gestione delle risorse umane, all’assenza di ricerca e sviluppo, a limitati investimenti pubblicitari e promozionali, alle insufficienti risorse destinate alla rete commerciale e al servizio al cliente. L’analogia con quanto accade negli sport di squadra è fin troppo facile: i risultati insoddisfacenti vengono di solito addebitati a un reparto specifico, dimenticando che la performance di quest’ultimo è in larga parte funzione di quella collettiva.

Per non cadere in questo errore è necessario acquisire piena consapevolezza delle interdipendenze esistenti fra ricerca e sviluppo e marketing, fra produzione di idee e orientamento al cliente. Gli investimenti nelle risorse di marketing hanno senso solo se l’attività innovativa produce un valore aggiunto da diffondere nel mercato, così come gli investimenti in innovazione possono tradursi in un vantaggio competitivo sostenibile solo se aumenta la capacità di controllare direttamente i mercati di sbocco. Le riflessioni sulla competitività del nostro paese devono pertanto ampliarsi sino a comprendere gli anelli più strategici della catena del valore, evitando prospettive parziali che inevitabilmente si traducono in approcci riduzionistici al problema.

Il secondo aspetto (assunto non dimostrato) si riferisce alla convinzione che, pur in assenza di una strategia esplicita, elaborata e coordinata a livello nazionale, il made in Italy sia già una marca, potendo contare sull’immaginario veicolato a livello globale dal successo dei nostri artisti e imprenditori più illuminati, dalla bravura dei nostri atleti, dalla ricchezza del nostro patrimonio artistico e culturale, dalla bellezza del nostro territorio, dalla qualità dei nostri cibi. A questa marca, definita nella sua componente percettiva, mancherebbe solo un’identità riconoscibile.

Ciò spiega perché gran parte delle soluzioni specifiche proposte al problema della tutela del made in Italy siano basate sull’implicita ipotesi che la costruzione di una “marca ombrello” nazionale, in grado di proteggere le nostre imprese dalle intemperie della competizione globale, coincida di fatto con l’affermazione di un complesso di segni distintivi, idonei a favorire l’immediata identificazione dell’origine italiana delle produzioni. Di qui la discussione in merito al significato dell’espressione “made in”, alle aspettative protezionistiche che potrebbe generare, ai problemi che il suo utilizzo porrebbe alle imprese che hanno delocalizzato parte della produzione, alla difficile coesistenza di scelte compiute a livello nazionale ed europeo, alla scarsa utilità che ne trarrebbero le imprese più grandi e affermate, ai rischi di indebita appropriazione dei valori di un paese da parte di produttori stranieri in esso collocati con i propri impianti produttivi.

Certamente, al di là delle ragioni a sostegno delle diverse posizioni, la definizione della componente identificativa di una marca (cioè dell’insieme di elementi – dal nome, al logo, ai simboli, agli slogan – che ne consentono il riconoscimento) è una condizione necessaria per la sua esistenza. Con altrettanta certezza si può tuttavia affermare che essa non è sufficiente per garantire che tale marca possieda anche valore (o brand equity, nel linguaggio di marketing) e sia pertanto in grado di giocare un ruolo importante sul piano competitivo.

In realtà, come bene sanno le imprese italiane che sono riuscite a imporre il proprio brand a livello internazionale, la costruzione di una marca implica una chiara visione strategica, che deve orientare tutte le decisioni in merito alle politiche di prodotto, di prezzo, di distribuzione e di comunicazione. Il processo di brand building non può essere gestito nel lungo periodo solo secondo una logica bottom up, lasciando che siano gli elementi identificati dalla marca, le sue manifestazioni concrete, a definirne i valori. Troppo elevati sono infatti i rischi di giungere alla definizione di un’immagine incoerente, incompleta, eccessivamente ancorata a obiettivi commerciali o a valenze funzionali, spesso le più semplici da imitare.

Questo è ancora più vero nel caso in cui la marca in questione sia volta a identificare un sistema paese e debba pertanto abbracciare un vasto insieme di value proposition, coesistendo con i brand delle singole imprese che le propongono al mercato.

In una simile situazione, il raccordo tra i valori della “marca paese” e quelli che caratterizzano le singole “marche impresa”, che a quel paese appartengono, deve essere consapevolmente progettato, al fine di massimizzare i benefici derivanti dalla loro interazione, su piani diversi di astrazione. Nell’ottica della marca paese, infatti, le marche impresa rappresentano la manifestazione tangibile dei valori che ne definiscono l’identità, mentre nell’ottica delle marche impresa, la marca paese costituisce un’associazione cognitiva di livello più astratto, che deve arricchire di ulteriori valenze simboliche l’immagine dei beni e servizi offerti al mercato.

Il primo passo ai fini di un’efficace tutela del made in Italy consiste dunque paradossalmente nella presa di coscienza che la marca “Italia” ad oggi non esiste. L’affermazione potrà apparire provocatoria, ma è utile per sottolineare che finora è mancata l’attivazione di una strategia condivisa e coordinata a livello di sistema paese, volta ad affermare, all’interno e all’esterno dei confini nazionali, non solo i suoi segni di riconoscimento, ma soprattutto i suoi valori distintivi. Certo, una simile strategia richiede tempi non brevi e risorse significative, ma soprattutto un deciso orientamento al mercato, che chiaramente definisca la marca come un asset relazionale, specificando gli obiettivi da perseguire per rendere operante il suo potenziale competitivo e il percorso necessario per il loro conseguimento.

La marca rappresenta infatti molto più di un segno identificativo e distintivo; è una fondamentale risorsa intangibile, costruita aggregando, intorno a specifici segni di riconoscimento (brand element), un definito complesso di componenti cognitive e affettive (valori, aspettative, percezioni, emozioni), le cui valenze eccedono l’utilità annessa ai beni o servizi identificati dalla marca stessa.

Più in dettaglio, in una prospettiva marketing-oriented le componenti essenziali della marca sono costituite dall’identità (brand identity), dalla consapevolezza (brand awareness) e dall’immagine (brand image).

L’identità di marca si riferisce al complesso di fattori che ne consentono il riconoscimento e all’insieme di valori che ne hanno determinato la nascita e ne caratterizzeranno lo sviluppo. Secondo il modello associativo, la brand awareness è invece legata alla forza del nodo “marca” nella memoria, che si riflette nella capacità di identificarla in condizioni diverse, mentre la brand image può essere definita come l’insieme delle associazioni cognitive e affettive evocate dalla marca. Tali associazioni rappresentano gli altri nodi informativi legati al nodo rappresentato dalla marca nella memoria e determinano il significato di quest’ultima.

Il primo obiettivo da conseguire nel processo di costruzione di una marca si riferisce dunque alla definizione della sua identità. Ciò implica la selezione dei segni distintivi, ma il passaggio più critico riguarda la definizione dei valori che ne costituiranno il codice genetico. Questi valori devono infatti rappresentare il fondamentale criterio di selezione delle scelte operate (e da operare) nel corso dell’esistenza della marca. Essi attribuiscono un senso a tali scelte, costituendo, con le parole di Luhmann, “un surplus di rimandi ad altre possibilità dell’esperire e dell’agire” rispetto a ciò che viene effettivamente esperito e realizzato. Definiscono pertanto l’attitudine evolutiva della marca, il progetto che ha guidato e orienterà le sue manifestazioni verso gli obiettivi della consistenza e della continuità.

Un secondo obiettivo di importanza centrale riguarda lo sviluppo di un adeguato livello di consapevolezza, mediante il presidio delle dimensioni della profondità e dell’ampiezza. La profondità della brand awareness si riferisce alla probabilità e alla facilità di rappresentazione dei segni distintivi della marca, mentre l’ampiezza attiene al range di bisogni, di categorie di prodotto, di situazioni in cui la marca viene richiamata dalla memoria. Quest’ultima dimensione è spesso trascurata, nonostante si riveli determinante per il potenziale di crescita del brand. In molti casi, infatti, soprattutto quando si tratta di marche ombrello, il problema principale ai fini dello sviluppo non è favorire il riconoscimento della marca; più importante è ampliare la varietà e la frequenza delle occasioni in cui essa è ricordata.

Il terzo obiettivo consiste nel definire i contenuti dell’immagine di marca, affermando un set di associazioni forti, positive e uniche. Ciò implica la selezione del territorio competitivo della marca, fondata sulla corretta rappresentazione dei concorrenti con i quali confrontarsi e dei benefici ricercati dai target rilevanti da attrarre. Ai fini del conseguimento di tale obiettivo un passaggio critico è quello di stabilire i cosiddetti point of parity e point of difference. I primi rappresentano le condizioni necessarie, ancorché non sufficienti, per la credibilità della marca nel proprio territorio competitivo. I secondi sono alla base della preferenza verso la marca stessa. Entrambi possono riferirsi ad aspetti tangibili o intangibili, anche se questi ultimi (l’immagine degli “utilizzatori” della marca, i benefici psicologici e sociali da essa offerti, i tratti di personalità che la caratterizzano, la sua storia ed eredità culturale) tendono a prevalere quando il brand positioning, come nel caso di una marca paese, deve essere caratterizzato da un livello di astrazione relativamente elevato. Per esempio, nella progettazione della marca “The New Zealand Way (NZW)” sono state selezionate associazioni relative all’eccellenza nella qualità, alla responsabilità ambientale, all’innovazione, all’onestà, all’integrità, alla determinazione e all’apertura mentale della popolazione di quel paese.

Una volta chiariti i fondamentali obiettivi del processo di costruzione della marca, è necessario identificare i livelli in cui si articola il suo potenziale competitivo e il percorso evolutivo sottostante alla loro generazione e al loro accrescimento nel tempo. Per gli aspetti che qui interessano, tali livelli possono essere ricondotti ai potenziali di attrazione, di differenziazione e di relazione. La loro attivazione consente, rispettivamente, di:

· indirizzare il target verso l’offerta identificata dalla marca, favorendo la nascita di aspettative di valore superiori rispetto alle alternative concorrenti (potenziale di attrazione);

· rafforzare gli elementi di distinzione della marca sul piano concorrenziale (potenziale di differenziazione);

· favorire l’ampliamento del raggio d’azione della marca, facilitando l’estensione del suo network relazionale (potenziale di relazione).

Le nostre ricerche sui brand di successo hanno evidenziato che questi livelli di potenzialità vengono generati e alimentati attraverso un modello evolutivo tipico, articolato in tre stadi fondamentali (avviamento, ampliamento, accumulazione), che nell’insieme ricostruiscono il ciclo di sviluppo del valore della marca. Ciascuno stadio è volto al raggiungimento di uno specifico livello di potenzialità, attraverso il presidio di un altrettanto specifico vettore evolutivo, che sintetizza i processi gestionali da cui dipendono le componenti cognitive della marca.

Lo stadio di avviamento del ciclo evolutivo del valore della marca implica la generazione dell’identità e della consapevolezza di marca, dalle quali dipende l’effetto differenziale che la conoscenza della marca stessa (brand knowledge) è in grado di determinare sulle risposte ai suoi segni di riconoscimento. In questo stadio agisce il vettore “identificazione”, attraverso il quale viene alimentato il potenziale di attrazione della marca. Lo stadio successivo, relativo all’accumulazione del valore, si fonda sul vettore “valorizzazione” e rende operante il potenziale di differenziazione mediante la generazione di forti associazioni in merito alla capacità della marca di creare valore sul piano funzionale, simbolico e affettivo, in un modo unico ed eticamente responsabile. Il terzo stadio, concernente l’ampliamento del valore, implica invece il presidio del vettore “astrazione”, che, comportando un progressivo arricchimento del significato della marca e della sua proposizione di valore, rafforza sia l’ampiezza della brand awareness sia la positività delle brand association e favorisce la nascita del potenziale di relazione. Nello stadio di ampliamento del valore il rapporto di fiducia fra la marca e i target di riferimento si trasforma in una relazione di partnership. Tale trasformazione è appunto il risultato di un processo di astrazione, che si traduce in un progressivo ampliamento del legame con la marca, al di là dell’oggetto da essa originariamente identificato, grazie allo sviluppo di sentimenti di passione, di attaccamento e di autoidentificazione.

L’interazione fra i livelli di potenzialità descritti è alla base dell’esistenza della marca. In analogia con la teoria di creazione della conoscenza organizzativa, i cicli evolutivi del valore di questa risorsa implicano infatti un’interazione sempre più ampia fra i potenziali di attrazione, di differenziazione e di relazione, secondo un processo a spirale.

Forse ho abusato della pazienza del lettore, ma mi auguro che da questa digressione teorica traspaia con sufficiente chiarezza la necessità di affrontare la questione della “marca Italia” con un approccio strutturato, coerente con l’articolazione degli obiettivi e del processo di brand building. In sintesi, occorre più marketing strategico a livello istituzionale: adattando al problema la legge della requisite variety di Ashby, la complessità di un sistema gestionale non può essere infatti inferiore a quella della risorsa che tale sistema dovrebbe governare. La marca è un asset composito, peraltro “residente” nel sistema cognitivo di soggetti esterni, non una semplice etichetta.

Cosa fare, dunque, per costruire la marca Italia e governarla secondo i principi dello Strategic Brand Management, rigenerando e amplificando le associazioni positive derivanti dal patrimonio storico, culturale e imprenditoriale del nostro paese, che comunque l’espressione made in Italy già evoca? Tre semplici idee, condivise dai principali studiosi della marca a livello internazionale, per rispondere a questa domanda.

In primo luogo sarebbe opportuno esplicitare, in una sorta di brand declaration, i valori distintivi della marca Italia, declinandoli, nel rispetto della tradizione e delle nostre radici, in funzione: a. dei diversi target da attrarre (forza lavoro qualificata, consumatori, investitori, imprese e così via); b. delle molteplici “manifestazioni” della marca stessa (imprese, beni, servizi, territori e così via); c. dei concorrenti di riferimento. Tale documento dovrebbe anche specificare:

· i criteri di scelta dei segni di riconoscimento della marca;

· le linee guida strategiche che ne orienteranno la gestione, assicurando la distintività e la coerenza dei programmi di marketing nel tempo;

· i contenuti essenziali del sistema di misurazione utilizzato per verificare la loro efficacia, unitamente agli indicatori da utilizzare per controllare in modo sistematico il potenziale competitivo della marca.

In secondo luogo andrebbe condotta una ricerca estensiva su un campione rappresentativo dei target rilevanti per verificare la forza, la positività e l’unicità delle associazioni che definiscono l’immagine del nostro paese. Le evidenze raccolte dovrebbero quindi essere sintetizzate in un brand record, dal quale emergano le associazioni di idee da consolidare e quelle da cancellare, la loro consonanza rispetto ai valori della brand identity, lo stato dei livelli di potenzialità della marca. Una simile ricerca sarebbe fondamentale anche per uscire dalla trappola dell’inerzia in cui ho la sensazione che ci abbia fatto precipitare l’immaginario legato al mitico “stile di vita italiano”. Molti studi condotti negli ultimi anni evidenziano che il potenziale di attrazione dell’Italia si sta progressivamente indebolendo. Nella logica del ciclo evolutivo del valore della marca questo è un segnale da valutare con grande attenzione, perché fonte o risultante di un depauperamento degli altri livelli di potenzialità. Per esempio, una recente indagine svolta da un gruppo di ricercatori dell’Università Bocconi (nell’ambito dell’Osservatorio permanente sull’attrattività del sistema paese promosso dalla Fondazione Italiana Accenture) ha rilevato le percezioni sull’Italia di un campione composto da trecento imprese. Su sedici fattori di attrattività sono emersi solo cinque punti di forza (qualità della vita, livello di istruzione della popolazione, progresso sul piano sociale, presenza di settori di punta riconosciuti a livello internazionale, risorse e servizi culturali), peraltro giudicati non di primaria importanza ai fini delle decisioni di investimento e suscettibili comunque di ampi margini di miglioramento. Va inoltre sottolineato che i manager intervistati sono in larga parte italiani, il che solleva l’importante questione del cosiddetto branding interno, evidenziando la necessità di comunicare con chiarezza anche alla comunità nazionale i valori e il posizionamento della marca paese, per rafforzarne identità, immagine e appeal emotivo.

Un terzo passaggio, non certo per importanza, si riferisce alla definizione delle responsabilità e dei ruoli organizzativi necessari per governare il processo di costruzione e di gestione della marca Italia (brand architecture). Un comitato guida, che riferisca ai competenti organi istituzionali e in cui siano largamente rappresentati gli imprenditori che meglio hanno saputo affermare le proprie marche a livello internazionale, potrebbe incaricarsi di progettare l’architettura di base del sistema di gestione della marca, affrontando anche le modalità per tutelare con fermezza e sistematicità la marca paese dalla competizione sleale (contraffazione, imitazione servile, concorrenza parassitaria), disciplinarne l’utilizzo da parte delle singole imprese e controllare la coerenza fra i loro comportamenti sociali e di mercato e i valori della brand identity nazionale.

Resta il problema delle risorse necessarie per realizzare un progetto di così vasta portata. Problema indubbiamente non marginale, considerando sia lo stato dei conti pubblici, sia gli ancora timidi segnali di ripresa economica, sia la soglia minima di investimento per affermare una marca globale. Non crediamo, tuttavia, si tratti di un problema insolubile; lo sarebbe per una piccola impresa, non può esserlo per una nazione che si colloca fra le più ricche del mondo. Peraltro, le forze politiche stanno manifestando una grande sensibilità al tema della tutela del made in Italy, come dimostra, per esempio, l’azione di sostegno dell’immagine del nostro paese avviata dal Ministero degli Esteri attraverso la rete di ambasciate. Altrettanta sensibilità è evidenziata dai mezzi di comunicazione, dalle associazioni sindacali e industriali, dalle aree sistema. Insomma, non dovrebbe essere difficile costruire un consenso generalizzato intorno al progetto e individuare le possibili fonti di finanziamento. I benefici sarebbero infatti per tutti: un evidente caso di gioco a somma positiva, da cui potrebbero scaturire anche nuove energie, in grado di accelerare la tanto attesa ripresa della congiuntura. L’economia, si sa dai tempi di Katona, ha forti intrecci con la psicologia.

In ogni caso, non si parte da zero. Il made in Italy possiede ancora valenze significative e le nostre migliori imprese continueranno ad alimentarle coniugando qualità e design, innovazione e identità stilistica, efficienza e flessibilità. Abbiamo forse perso tempo, ma come è vero che “non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice”, è altrettanto certo che, movendoci con determinazione e senza più indugi, sapremo rigenerare le risorse di conoscenza e di fiducia da cui dipende il nostro vantaggio competitivo, a partire da una marca paese solida, emozionante e inimitabile.