E&M

2004/5

Gianni Canova Severino Salvemini

I “mulini a vento” dell’organizzazione

Il film Lost in La Mancha, disponibile in DVD, racconta un caso quasi classico di “fallimento organizzativo” dovuto all’incapacità del project management di gestire gli imprevisti e le eccezioni. Nella lavorazione di un film, ma non solo.

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Lost in La Mancha

Regia Keith Fulton, Louis Pepe

Interpreti Terry Gilliam, Johnny Depp, Jean Rochefort

Film documentario Gran Bretagna/USA, 2002

A volte, i fallimenti insegnano più dei successi. Costringono a riflettere sugli errori compiuti, a meditare sulle strategie adottate, a far tesoro dell’esperienza e a imparare dagli sbagli. Anche al cinema, anche nei meccanismi di produzione di un film. Lost in La Mancha – uscito frettolosamente nelle sale la scorsa stagione e ora disponibile in un prezioso DVD – è per l’appunto – come suggerisce chiaramente fin dal titolo – la storia di una perdita, di un fallimento: quello del regista inglese Terry Gilliam (Brazil, Le avventure del Barone di Münchausen, L’esercito delle 12 scimmie) e del suo progetto di realizzare un film dedicato a Don Chisciotte della Mancha, l’eroe dell’omonimo poema seicentesco di Miguel de Cervantes. Realizzato da Keith Fulton e Louis Pepe, Lost in La Mancha è molto più che un classico making off e ha poco a che vedere con un canonico backstage. Non è neanche il racconto delle difficoltà incontrate nella lavorazione di un film, come poteva esserlo – poniamo – Heart of Darkness rispetto ad Apocalypse Now di Francis Ford Coppola: in quel caso, infatti, il racconto riguardava un progetto che alla fine riusciva comunque a essere realizzato, mentre Lost in La Mancha racconta le disavventure di un progetto abortito, e mette in scena i tentativi di realizzare un’impresa che alla fine è stata abbandonata. Come è stato giustamente scritto: “Heart of Darkness è una celebrazione, Lost in La Mancha è un necrologio”. È cioè la cronaca, accorata e partecipe, di un fallimento organizzativo. Gilliam covava il progetto del film da più di un decennio. Era attratto dalla visionarietà di Don Chisciotte, dalla sua capacità di vedere il mondo come sognava che fosse. Ma il film che ha in mente è molto costoso e prevede un budget enorme per un film europeo: 40 milioni di dollari. Dopo estenuanti ricerche, Gilliam riesce a mettere insieme 32 milioni di dollari, e decide di partire comunque con le riprese del film, che dovrebbe intitolarsi The Man Who Shot Don Quixote. Nonostante un cast d’eccezione (Johnny Depp, Vanessa Paradis e l’attore francese Jean Rochefort nei panni di Chisciotte) e un budget comunque più che considerevole, il progetto implode su se stesso in poco più di una settimana. Le riprese nel sud della Spagna sono funestate da una serie di eventi catastrofici: non si può registrare il suono in presa diretta sul set per il continuo passaggio di rumorosissimi F16 che fanno capo a una vicina base Nato, un uragano inatteso non solo compromette parte delle attrezzature ma modifica anche il paesaggio, altera i colori della terra e rende inutilizzabili le immagini già girate. Come se non bastasse, Rochefort deve precipitosamente abbandonare il set a causa di un’ernia al disco complicata da un’infezione alla prostata. Come unica risposta a questa situazione di impasse, i produttori propongono di licenziare l’assistente di Gilliam, unico fra i membri della troupe dotato di un minimo di realismo. Gilliam non accetta, prende atto delle difficoltà insormontabili e decide di abbandonare il progetto “per cause di forza maggiore”. Nel suo narrare una vicenda emblematica, Lost in La Mancha offre stimolanti spunti di riflessione per analizzare cause e modalità di un fallimento organizzativo anche al di là dell’ambito strettamente cinematografico. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Mi sembra che la fallimentare lavorazione del film The Man Who Shot Don Quixote di Terry Gilliam illustri in modo paradigmatico un modello decisionale di tipo incrementale. È un modello che si basa sull’inerzia: una volta messo in piedi un progetto, si lascia che rotoli dove vuole lui perché i decisori non hanno né il coraggio di riorientarlo né la forza di interromperlo. È un modello tipico delle istituzioni fortemente pluricentriche (come possono essere, per esempio, le forme politiche): quanti più sono gli attori che possono decidere, senza che nessuno abbia l’autorità per imporre la sua decisione agli altri, tanto più è alta la possibilità che il progetto venga lasciato a sé, e che accumuli problemi su problemi, con il rischio che l’ultimo tassello incrementale faccia crollare l’intero castello. È come quando una barca è sovraccarica: sembra che stia a galla comunque, ma basta imbarcare una persona in più perché all’improvviso si inabissi.

G.C. Sono assolutamente d’accordo. Lost in La Mancha evidenzia molto bene proprio quello che tu dicevi: nessuno tra i presenti sul set sembra capace di prendere decisioni alternative, nessuno si assume la responsabilità di decidere, tutti aspettano fatalisticamente, sperando che la situazione migliori quasi magicamente il giorno successivo…

S.S. … e così facendo, a un certo punto si rendono conto che la situazione è ormai irrimediabilmente compromessa e che l’unica decisione possibile è quella di chiudere il progetto. Falliscono perché non hanno saputo gestire le eccezioni, la complessità, le variazioni non previste.

G.C. Il membro italiano della troupe, per la verità, a un certo punto tira in ballo anche la sfortuna. E ricorda che al cinema il Don Chisciotte è colpito da una sorta di maledizione: perfino Orson Welles, nel 1957, dovette abbandonare un progetto ispirato proprio dall’eroe di Cervantes.

S.S. Certo. Ma anche quella che tu chiami “sfortuna” fa parte degli imprevisti che una buona organizzazione deve saper fronteggiare. Quali sono le organizzazioni che si trovano in difficoltà nel gestire le eccezioni? O quelle troppo organizzate, rigide, analitiche, o – all’opposto – quelle troppo approssimative. Quelle che non si accorgono per tempo che – come si dice a un certo punto nel film – “tutto quello che poteva andar male, va effettivamente male”.

G.C. Loro si accorgono che le cose non funzionano, ma sembrano quasi l’Armata Brancaleone sul set. L’informalità, il cameratismo, la destrutturazione programmata di ogni gerarchia finiscono per essere elementi inibitori di fronte alla necessità di elaborare contromosse che consentano al progetto di non implodere in se stesso.

S.S. A loro parziale giustificazione bisogna anche dire che partono da un team vario e dissonante, molto cosmopolita. È un gruppo di lavoro scarsamente omogeneo, difficile da tenere insieme.

G.C. Ma la non omologazione dei membri del gruppo non potrebbe costituire invece un elemento potenzialmente positivo? Un valore aggiunto, capace di stimolare performance non canoniche e non scontate?

S.S. Potrebbe, ma non è detto che sia così. Il rischio è che si generi una babele e che si comprometta perfino la possibilità di comunicare all’interno del gruppo. Mi sembra che sia un po’ quel che accade fra i membri della troupe. Il loro fallimento deriva allora, senz’altro, prima di tutto da cause esogene, ma poi anche dalla loro incapacità di tenere sotto controllo gli imprevisti. Il project management è troppo autoriferito, non ha alcuna flessibilità, non è disposto a mettere in discussione il progetto a fronte delle novità che si vengono a verificare.

G.C. Ma non vedi errori anche a monte, nella fase stessa di elaborazione del progetto? Non ci sono debolezze o criticità già nel piano di lavoro predisposto dai produttori?

S.S. Certo. E sono errori di metodo, prima di tutto. Penso, per esempio, al tema della responsabilità. Se un attore come Rochefort, così cruciale e importante per la riuscita del progetto, prima arriva in Spagna in ritardo e poi molla tutti e torna in Francia per la sua ernia al disco, vuol dire che non era stato sufficientemente motivato e responsabilizzato circa il suo ruolo e la sua centralità per la riuscita del progetto.

G.C. Non c’è dubbio. Ma aggiungerei anche il fatto che il regista sembra illudersi, durante i primi giorni di lavorazione, che la sua creatività possa supplire – di per sé – alla mancanza di reti di protezione capaci di sostenere il progetto in caso di difficoltà. È un’illusione che pagherà a caro prezzo. Come se anche Gilliam si fosse trovato, suo malgrado, a combattere contro i mulini a vento partoriti dalla sua immaginazione, scoprendosi incapace – a un certo punto – di distinguere fra il suo progetto virtuale e le concrete emergenze della realtà.