E&M

2004/4

Gianni Canova Severino Salvemini

Il fantasma del denaro

Il film francese Il costo della vita di Philippe Le Guay mette a fuoco, attraverso una storia corale fatta di destini incrociati, alcune delle differenti modalità con cui oggi ci relazioniamo con il denaro, con le sue funzioni e – forse – anche con il suo fantasma.

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Il costo della vita

Regia Philippe Le Guay

Interpreti Fabrice Luchini, Vincent Lindon, Isild Le Besco

Francia, 2004

Dare, ricevere. Scambiare, barattare. Il valzer della vita – sembrano suggerire con garbata leggerezza gli autori del film francese Il costo della vita – è tutto qui: una danza di scambi che ha nel denaro il suo metronomo e, al contempo, la sua unità di misura. Come in certe operine marsigliesi di Robert Guédiguian, non senza visibili legami con un film come Il gusto degli altri di Agnès Jaoui, Il costo della vita imbastisce un rondò ritmato e corale fra alcuni abitanti della Lione di oggi. Tutti, a modo loro, hanno problemi col denaro. Chi perché ne ha troppo, chi perché ne ha troppo poco. Chi perché tende a spendere più di quanto guadagni e chi perché tende a non spendere nulla di tutto ciò che guadagna. Potenza del denaro, misteri dello scambio. Per un’operaia di mezza età che si ritrova con la carta di credito bloccata subito dopo esser stata licenziata, c’è una giovane ereditiera che disprezza gli otto milioni di euro ricevuti in eredità dalla famiglia e che è disposta anche a far la sguattera in un ristorante pur di dimostrare a se stessa e al mondo di essere in grado di provvedere da sé al “costo della vita”. C’è un ricco dirigente tanto taccagno che è capace di chiudersi in bagno pur di non partecipare alla colletta aziendale per fare un regalo alla collega che va in pensione, e c’è un aspirante imprenditore che offre pranzi e cene a tutti, con esibita prodigalità, anche se non ha i soldi per pagare i debiti e le cambiali che lo assillano. Come in un gioco a destini incrociati, la sceneggiatura fa sì che tutti i personaggi incrocino – in un modo o nell’altro – le loro storie: a volte si sfiorano, altre volte innescano – appunto – il rito reciproco del dare e del ricevere. Quanto costa la vita? Che cosa ci rende prodighi e che cosa avari? Cosa sfugge al potere del denaro? Con grazia quasi mozartiana, il regista Philippe Le Guay (anche cosceneggiatore con Jean-François Goyet) danza attorno a questi interrogativi, divertendosi a orchestrare un balletto dolceamaro sul ruolo del denaro nella società contemporanea. A partire dagli spunti offerti dal film, discutono sul tema – come di consueto – Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. L’aspetto che più colpisce nel film di Philippe Le Guay è la lucidità e la precisione con cui il regista riesce a mettere a fuoco le diverse predisposizioni individuali nei confronti del denaro. L’intreccio descrive una gamma di comportamenti differenti che ben riassumono i possibili rapporti – simbolici, oltre che concreti – che ognuno di noi intrattiene con il denaro, con le possibilità che esso apre o chiude, e forse anche con il suo “fantasma”. C’è chi è portato a risparmiarlo e a tesaurizzarlo, chi lo fa circolare, chi lo spreca, chi si illude di poter comprare tutto grazie – appunto – alla disponibilità di denaro contante.

G.C. Hai parlato, non a caso, di “chi è portato” a comportarsi in un modo e di chi invece “è portato” ad assumere comportamenti differenti. Forse qui sta uno dei nodi di fondo della questione, che il film non sempre illumina in modo adeguato. Voglio dire: da cosa dipende il nostro rapporto col denaro? Da una predisposizione innata? Da una vocazione psicologico-caratteriale? Da una cultura? Da un’educazione? Detto bruscamente: è la natura o la cultura a guidare e determinare il nostro rapporto con i soldi?

S.S. Direi che il film di Philippe Le Guay ha il pregio di mostrare – appunto – come ci siano predisposizioni diverse, generate da motivazioni differenti: a volte sono motivazioni psicologiche e caratteriali (come nel caso dell’avaro che si sottopone a un training di “prodigalità” con la “bella di giorno” a pagamento), altre volte sono motivazioni decisamente ideologiche (come nel caso della ragazzina che lavora come cameriera per lavare l’“onta” del denaro che ha ricevuto in eredità dalla famiglia), altre volte ancora il rapporto col denaro è mediato da elementi e tratti marcatamente sociologici (come nel caso del rapporto mancato fra l’anziano industriale e la prosperosa infermiera che rifiuta il suo corteggiamento). Il costo della vita offre “occhiali” diversi e punti di vista plurimi sul medesimo tema.

G.C. Spesso il diverso rapporto con il denaro sottende anche differenti micromodelli di organizzazione sia nella sfera privata sia in quella pubblica. Penso, per esempio, alla figura dell’aspirante imprenditore che ostenta di fronte a tutti la propria liberalità ma poi non riesce a convincere le banche della solidità del suo progetto di investimento.

S.S. È indubbiamente una figura interessante. Emblematica, per certi versi. Non riesce a convincere l’intermediazione finanziaria e ad ottenerne la fiducia perché il denaro gli scivola via. Lo spreca. E lo fa perché commette un errore per certi versi classico: quello di scambiare il cliente per un amico. O quello di confondere l’amico e il cliente. È un modello relazionale più diffuso di quanto si pensi, ed è inevitabilmente votato al fallimento. Il film di Philippe Le Guay lo dimostra con convincente evidenza.

G.C. Il modello opposto mi sembra quello del dirigente afflitto da un’avarizia tanto tignosa da sfociare nella taccagneria. L’attore Fabrice Lucchini dà al suo personaggio una connotazione fortemente letteraria e ne fa un avaro che richiama – anche nei tratti somatici – certe indimenticabili figure di Molière o Balzac. E tuttavia, nel contesto del film, assume una connotazione sociologica molto interessante come esempio di un comportamento privo di qualsiasi predisposizione al rischio e portato, anzi, a ridurre quasi a zero il “costo della vita”. Il film lo mette giustamente alla berlina e ne fa un esempio assoluto di disvalore: la sua cautela nello spendere finisce per essere molto prossima alla rapacità.

S.S. Da questo punto di vista, direi che il film lascia intravedere una benevola critica moralistica al calvinismo più estremo di certe culture europee: quelle che non spendono, si privano di ogni piacere e finiscono per identificare la virtù con l’esercizio ossessivo del proprio “dovere”. Un “dovere” così esercitato – suggerisce Philippe Le Guay – risulta alla fine controproducente e non genera nessun circuito virtuoso neanche all’interno dell’organizzazione per cui si illude di operare.

G.C. Alla fine, come in una commedia settecentesca, tutti i nodi si sciolgono in ospedale. Chi ci va per partorire, chi per curare una dolorosa forma di stitichezza dagli evidenti risvolti psico-metaforici, chi per consumare l’epilogo di una possibile storia d’amore. Ed è proprio l’amore, non a caso, che rompe la logica economica del dare e dell’avere all’insegna di piccoli gesti improntati alla logica disinteressata del dono. Un finale troppo ideologico e programmaticamente ottimista?

S.S. Non direi. Non dimenticare la frase che il banchiere appassionato di giardinaggio aveva detto al suo cliente spiantato: “Il denaro è una questione d’amore e di rigore”. Forse la filosofia del film è riassunta proprio in questo motto. I personaggi non usano quasi mai il denaro in funzione di un bisogno concreto e immediato. Ne fanno un uso mediato e simbolico. Pensa anche solo alla “bella di giorno” Hélena, che usa il proprio corpo come merce di scambio solo per il gusto di trasformare in banconote il fantasma del desiderio maschile. Hélena opera con amore e con rigore, per questo ha un rapporto soddisfacente, vincente e appagato col denaro. Non si può lasciar nulla né all’improvvisazione né all’indifferenza. L’aridità interiore e la mancanza di rigore coincidono nel film con la scarsa disponibilità di denaro. È un’indicazione interessante: e vale sia per la cashless society che opera prevalentemente nel regime dell’immateriale sia per i modelli socio-organizzativi che ancora sentono il fascino del fruscio delle banconote.