E&M

2004/3

Vincenzo Perrone

La fiducia è una cosa seria

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La fiducia è una cosa seria. Che si dà alle cose serie: diceva, ormai molti anni fa, una reclame che l’ironia della storia vuole fosse di un’azienda alimentare. In questi giorni, di fiducia si parla tanto, soprattutto perché migliaia di risparmiatori in diverse parti del mondo hanno scoperto di averla mal riposta in chi ha loro consigliato un investimento obbligazionario e nell’azienda di Parma che quelle obbligazioni si era impegnata a onorare. È il momento buono, forse, per fare qualche riflessione.

Della fiducia sono state date molte definizioni, anche perché molti sono i campi del sapere nei quali il fenomeno è stato oggetto di studio: psicologia, scienze politiche, sociologia, economia e management, solo per citarne alcuni. Una definizione che sintetizza elementi comuni a molte altre è la seguente: fiducia è la volontà di Ego di accettare di rendersi vulnerabile all’azione non controllabile di Alter; volontà basata su aspettative positive maturate da Ego nei confronti di Alter.

Secondo questa definizione, alcuni ingredienti essenziali perché si possa parlare di fiducia in una relazione sono i seguenti: occorre che chi si fida metta a rischio qualcosa di importante ed è necessario che le parti siano abbastanza libere di scegliere, da un lato, se e quanto rendersi vulnerabili e, dall’altro, se tradire o meno la fiducia ricevuta. Una macchina può essere affidabile, ma dire che mi fido della mia Panda dovrebbe far sorridere proprio perché all’auto non è concessa la libertà di scegliere se tradire o meno le mie aspettative. Della fiducia è possibile anche fare a meno, per esempio mettendo sotto controllo continuo l’azione di Alter. Se ho il sospetto che gli addetti alla movimentazione bagagli di un aeroporto approfittino della propria posizione (e della fiducia di datore di lavoro e viaggiatori) per ripulire degli oggetti di valore le valigie che passano sotto le loro mani, installerò delle telecamere nascoste in modo da controllare direttamente il loro comportamento e verificare se i miei sospetti sono fondati. Appena faccio questo smetto di fidarmi e sostengo un costo: quello, appunto, del controllo. Conviene soffermarsi subito su questo punto: ciò che rende la fiducia una risorsa sociale di valore anche per l’organizzazione degli scambi economici è che quando è presente consente di ridurre i costi di controllo e di sanzione che altrimenti dovrebbero essere sostenuti dalle parti, e dalla società in generale, per consentire lo stesso tipo di azione o di scambio. La fiducia non costa, almeno non direttamente, e produce risultati economici positivi. E non solo perché consente di scrivere contratti meno complicati, di non avere a libro paga stuoli di avvocati o di evitare di doversi affidare a un’agenzia di investigazione privata, ma perché, in positivo, crea un clima nel quale si possono insieme scoprire nuove opportunità di azione economica e di guadagno: due parti che si fidano l’una dell’altra comunicano di più e possono trovare, insieme, in modo creativo soluzioni a problemi comuni con vantaggio reciproco.

Abbiamo detto che decidiamo di renderci vulnerabili perché nutriamo aspettative positive circa le intenzioni e il comportamento di Alter. Come si formano queste aspettative? Rispondere a questa domanda significa indagare le cause della fiducia e individuare le aree nelle quali è possibile intervenire per mantenerla, farla aumentare o distruggerla.

Se, a parità di situazione e di informazioni relative ad Alter, qualcuno si fida e qualcun altro no, vuol dire che esistono differenze individuali capaci di spiegare diversi livelli di fiducia. Ognuno ha la sua storia e la sua personalità, e questo influenza il grado di affidabilità che siamo disposti a riconoscere ad altri. Su queste differenze è difficile intervenire, anche se, trattandosi di tratti di personalità che si sviluppano principalmente nei primi anni di vita, potremmo chiederci se i nostri modelli familiari, le esperienze scolastiche e di socializzazione che si possono fare nel nostro paese siano favorevoli o meno allo sviluppo di persone capaci di fidarsi.

All’estremo opposto di ciò che sta chiuso nel profondo di ciascuno di noi vi è quello che si respira nell’aria di una società: esiste una fiducia impersonale, una fiducia di base sulla quale si possono sviluppare giudizi di affidabilità più specifici relativi a controparti determinate. La fiducia impersonale è una fiducia di sistema e nel sistema sociale di cui facciamo parte. È fiducia in regole che riteniamo siano accettate, interiorizzate e rispettate dalla stragrande maggioranza dei nostri simili. È l’aspettativa che il contratto sociale tenga. Se la mattina, poco prima di metterci il paletot e di prendere le chiavi dell’auto, ci chiediamo se abbiamo preso il cellulare e non se abbiamo per caso dimenticato la P38 è perché pensiamo che la nostra sopravvivenza fisica non sia in pericolo appena varcata la soglia di casa. Perché abbiamo fiducia nella morale dei nostri concittadini, nella legge, nella polizia che la fa rispettare e nella magistratura che può sanzionare duramente i colpevoli. Se però ci siamo svegliati in un albergo di Caracas o di San Paolo e dobbiamo attraversare la città per andare a un appuntamento di lavoro, il fatto di non avere una scorta armata e un’auto blindata potrebbe magari renderci nervosi. Così come in un paese è possibile installare contenitori di giornali dai quali chiunque può ritirare la propria copia (una copia) dopo aver pagato il prezzo relativo e pur avendo la possibilità di estrarre tutte le altre, mentre in altri lo farebbe solo il furbo più veloce e pronto poi a rivendere l’intera mazzetta all’angolo della strada, a metà prezzo. Il che consiglia, in questo caso, forme di distribuzione più presidiate ma, di nuovo, più costose e meno comode.

La prima cosa da considerare, allora, è che la fiducia, per estendersi al di là della stretta rete di rapporti familiari e amicali – per esistere, quindi, in epoca moderna – ha bisogno in primo luogo di una società civile ordinata e regolata, nella quale vi sia la certezza del diritto e della sua applicazione, e un importante minimo di moralità diffusa. Qualunque cosa minacci l’ordine sociale – nel Sud del nostro paese come nelle nazioni che, magari dopo anni di tirannia, vedono improvvisamente affermarsi una libertà senza regole – e metta in crisi la fiducia, e con essa la possibilità di scambio economico, ci spinge a chiuderci nel clan o a ricercare la protezione del più forte. Per questo la fiducia impersonale cambia da paese a paese e ci si può anche divertire a metterli in graduatoria, distinguendo quelli ad alta o bassa fiducia, come ha fatto non molto tempo fa l’impareggiabile Fukuyama, che non ha esitato a collocare l’Italia nel secondo gruppo.

Tra questi due estremi, l’interiore della nostra personalità e l’esteriore della società in cui viviamo, si situano relazioni specifiche con altri determinati. Per fidarmi di Alter devo aspettarmi almeno tre cose, e tutte e tre insieme: che il suo comportamento sia predicibile, ovvero che faccia sempre quello che dice di voler fare o che io mi aspetto che in una data situazione Alter faccia; che sia affidabile, ovvero non solo che faccia quello che mi aspetto, ma che lo faccia anche bene, in modo competente; e infine che sia equo, che si comporti cioè mettendo il mio interesse almeno alla pari con il proprio. Basta venir meno agli impegni presi, dimostrarsi incapaci o iniqui, per distruggere la fiducia. Il modo più lungo e impegnativo per maturare queste aspettative è attraverso un processo di conoscenza e apprendimento graduale delle intenzioni e dei comportamenti di Alter. A furia di comunicare, di investire, poco all’inizio e via via sempre di più nella relazione, di verificare ripetutamente l’affidabilità e l’equità di Alter, arriviamo a fidarci. Questo è il motivo per cui ci si fidanza o si convive prima di sposarsi, o si assegnano a un nuovo fornitore uno o più ordini limitati prima di acquistare grandi quantità. Attraverso l’esperienza si sviluppa lentamente una fiducia sempre più forte e fondata, fino alla quasi identificazione con Alter.

Non sempre, però, possiamo concederci il lusso dell’esperienza diretta e della conoscenza approfondita. Ci sono situazioni nelle quali mettiamo la nostra stessa vita nelle mani di perfetti sconosciuti. A parte qualche persona afflitta dalla paura di volare, a nessuno verrebbe comunque in mente di ritardare la partenza di un aereo pretendendo di conoscerne personalmente il comandante, di discutere almeno una ventina di minuti con lui di rotte, di tecnica di navigazione e di emergenze brillantemente affrontate, prima di decidere se fidarsi o meno a partire. La stessa cosa accadrebbe con il medico del pronto soccorso al quale ci siamo rivolti per avere aiuto. Di cosa ci stiamo fidando in questi casi? Ancora una volta del buon funzionamento della società, e in particolare di quelle istituzioni, oggi sotto i riflettori per buone ragioni, che hanno il compito di certificare l’affidabilità di persone e aziende impegnate in attività particolari: il medico, il poliziotto, la banca, il docente universitario, la società quotata in borsa o il pilota di linea. Dietro di loro occorre che vi siano istituzioni capaci e corrette nella valutazione del loro livello di addestramento, di integrità morale, di capacità di svolgere con professionalità i compiti loro affidati.

Quella della certificazione dell’affidabilità è da sempre una funzione importante, ma oggi, all’aumentare delle alternative di scelta che si presentano agli individui e, con esse, dell’incertezza e della complessità delle decisioni che devono prendere, assume un ruolo cruciale e si estende a nuovi ambiti. La logica del “bollino blu”, genialmente inventata per differenziare sulla base della qualità presunta una banana da tutte le sue simili, oggi si estende ai ristoranti, alle business school, agli ospedali, allo stesso modo con il quale si applica alle emissioni obbligazionarie di aziende e paesi. Qualcuno ci dice che Alter è affidabile e ci consente di risparmiare il tempo e il danaro che ci costerebbe verificarlo di persona. Presupposto essenziale perché tutto funzioni è allora che ad essere predicibili, affidabili ed eque siano le Istituzioni di garanzia. Se cominciamo a dubitare del fatto che chi assegna il bollino di affidabilità abbia interessi in conflitto con quelli che dovrebbe proteggere, non sia competente e capace di accertare effettivamente l’affidabilità del soggetto che deve certificare o cambi in modo non prevedibile e trasparente i criteri di valutazione, magari adattandoli caso per caso, siamo costretti a smettere di fidarci di una serie ormai innumerevole di soggetti. Per questo, oggi, puntare seriamente l’attenzione sulla prospera e redditizia industria della certificazione di affidabilità significa impegnarsi veramente per la protezione e lo sviluppo della fiducia nella società.

Se questi sono i meccanismi che portano allo sviluppo e al mantenimento della fiducia, è possibile derivare dalla loro conoscenza alcune considerazioni utili per la gestione della crisi provocata in Italia dai recenti scandali finanziari. In primo luogo occorre meditare sulla relazione tra risparmiatori e banche, perché è qui che il vulnus alla fiducia si sta rivelando più grave e pericoloso. Si dovrebbe ricominciare a costruire la fiducia a partire dallo sportello, dall’interazione tra il cliente e l’operatore che in quel momento rappresenta la banca e svolge un ruolo di consulenza nell’orientare le scelte di investimento della persona che gli si presenta davanti. La prima questione critica è quella della competenza: ci si può fidare della competenza effettiva di questo operatore? È possibile che in molti casi la risposta a questa domanda sia purtroppo negativa. Considerati come gli ultimi anelli di una lunga catena distributiva nella quale le conoscenze e le competenze vere e rilevanti rischiano di essere molto più a monte, gli operatori possono finire per assomigliare più a piazzisti che a consulenti. Le informazioni di cui dispongono sono poche: quelle essenziali per orientare una scelta. Spesso solo durata e rendimento (previsto? presunto?) degli strumenti finanziari che offrono. I clienti dovrebbero sapere che, in queste condizioni, o sono già sicuri della bontà dello strumento al quale stanno affidando i propri risparmi o fidarsi di chi glieli propone rischia di essere un azzardo, solo leggermente mitigato dalla reputazione della banca per la quale quello specifico impiegato lavora. E le banche dovrebbero considerare il fatto che se operassero per migliorare le competenze di chi è interfaccia critica tra istituzione e cliente, opererebbero per rifondare una relazione fiduciaria su basi più solide.

Uno studio recente ha anche dimostrato che maggiori ambiti di libertà e di autonomia decisionale concessi agli operatori che svolgono la funzione di boundary spanner – ovvero con ruoli posizionati sul confine dell’impresa nei quali sono sia rappresentanti degli interessi dell’organizzazione sia collettori/filtri delle esigenze dei clienti – possono avere un impatto positivo sullo sviluppo di fiducia da parte di chi sta all’esterno. Questi devono infatti poter ritenere che il boundary spanner abbia la libertà di trovare il miglior compromesso possibile tra esigenze che possono essere contrapposte, operando anche per la soddisfazione degli interessi dei clienti. C’è poi la questione dell’equità. Perché vi sia da parte del cliente l’aspettativa di un trattamento equo sulla quale basare la propria fiducia occorre che aumenti ulteriormente il grado di trasparenza nella comunicazione. Trasparenza sull’interesse che la banca collocatrice ha nel suggerire certi strumenti, sui legami con le imprese emittenti obbligazioni, sui livelli di rischio impliciti nei rendimenti. Una maggiore consapevolezza degli interessi in gioco consente di valutare le motivazioni reali che stanno dietro i comportamenti di Alter (in questo caso la banca) migliorando i giudizi di affidabilità.

È anche possibile partire dalla fiducia per dire qualcosa a proposito della controversa separazione tra poteri di controllo volti ad assicurare la stabilità del sistema, da un lato, e un giusto livello di concorrenzialità all’interno dello stesso, dall’altro. Se la separazione serve a evitare che il primo obiettivo (stabilità) prevalga sul secondo (concorrenza), allora essa è auspicabile anche per l’impatto che potrebbe avere sulla fiducia nelle imprese. Il fine della stabilità porta infatti a privilegiare il livello del sistema rispetto a quello delle singole imprese componenti: la rete che le collega è infatti sia protettiva sia di controllo, volta com’è ad assicurare che non si verifichino crisi finanziarie locali capaci di mettere in difficoltà, con un effetto domino, l’intero comparto. Il rovescio del positivo di questa medaglia è che se tutte le imprese sono legate tra loro e rispondono alla stessa Autorità che tutto vede e a tutto provvede, la fiducia o è nel sistema, nel complesso delle imprese che lo compongono, o non è. L’effetto domino, che si vorrebbe scongiurare sul piano delle crisi economiche, avviene comunque ed è inarrestabile sul piano simbolico e della reputazione. La mancanza di fiducia che si sviluppa verso una singola impresa che ha operato male diventa immediatamente sfiducia in tutte. Con le conseguenze gravi che si possono immaginare e forse oggi anche misurare. Un sistema più competitivo e, soprattutto, noto e riconosciuto a ragione per essere tale, produrrebbe effetti diversi. Competere vuol dire proporre differenze che generano valore. Per una banca che propone un cattivo affare, ce ne dovrebbero essere altre dieci che danno ottimi consigli. Ai clienti si dovrebbe dare la possibilità di optare facilmente per un’alternativa, contribuendo con il loro comportamento e con le loro scelte a migliorare l’efficienza del sistema, come è noto del resto a chiunque abbia seguito almeno un corso base di microeconomia. Credere a ragione, come oggi ancora non si può del tutto, che il sistema delle imprese non sia un insieme omogeneo e organizzato, se non – peggio – colluso, limiterebbe forse i danni collettivi di immagine e spingerebbe i clienti verso scelte più responsabili, oltre a dare loro la possibilità di imparare a distinguere tra imprese di cui ci si può fidare e altre che è meglio non frequentare.

È importante, a questo proposito, riflettere ulteriormente sul rapporto tra fiducia e apprendimento. Diego Gambetta, uno dei più importanti studiosi in questo campo, afferma che chi è propenso a fidarsi è mediamente più accurato nel valutare il livello di affidabilità di Alter rispetto a chi è più incline alla sfiducia. La differenza nel livello di accuratezza dipenderebbe dal diverso grado di apertura all’esperienza che contraddistingue i due soggetti e dai conseguenti processi di apprendimento. La persona propensa a fidarsi entra infatti più facilmente in relazione facendo esperienze numerose, alcune buone e altre che lo sono meno, ma tutte utilizzabili per ricavare informazioni vantaggiose al fine di migliorare i giudizi di affidabilità negli episodi di interazione successivi. Chi non si fida si espone di meno ma rischia di più. E questo perché, entrando poche volte in relazione, può fare esperienza su un campione meno significativo e per questo più distorto di casi, rimanendo meno esperto nel valutare il livello di affidabilità di Alter. Da questo punto di vista, e senza essere nemmeno troppo paradossali, si potrebbe sostenere che gli scandali finanziari abbiano una funzione positiva per lo sviluppo di soggetti capaci di fidarsi. Essi infatti ricordano a tutti che la fiducia è una cosa fragile e paradossale, dal momento che più ce n’è e più aumentano per i malintenzionati gli incentivi ad approfittarne. Sono quindi occasione di apprendimento. L’importante è che gli scandali non siano di entità tale, come purtroppo paiono essere quelli che occupano le cronache non solo del nostro paese, da spingere persone, clienti, risparmiatori, investitori verso il polo opposto, quello della sfiducia. Raggiunto il quale, come si è detto, si rischia un impoverimento relazionale e una chiusura che avranno il potere di rendere ancora più probabili e altrettanto cocenti ulteriori delusioni. La fiducia, soprattutto nelle relazioni economiche, va accompagnata da un’attenzione vigile, e sottoposta a verifica di tanto in tanto, per imparare a riporla in chi se la merita davvero. E, soprattutto, non può e non deve sostituire altre forme di controllo e di garanzia. La fiducia facilita e rinforza, ma non basta da sola a tenere in piedi un mercato o una comunità.

Da quanto detto fin qui dovrebbe essere chiaro che, quando si parla di fiducia, il livello individuale, quello della relazione con altri determinati e quello della società in generale sono tutti strettamente interdipendenti. Se si vuole davvero che la fiducia cresca occorre lavorare a tutti i livelli. Occorre, in fin dei conti, impegnarsi per migliorare la qualità di una società civile. In questo modo gli appelli alla crescita della fiducia avrebbero un senso concreto e non si ridurrebbero solo a un richiamo moralistico che rischia di rimanere sterile. Si lavori bene sulle regole, sugli incentivi, sui sistemi di controllo e sulla trasparenza di quelli di informazione, sui grandi e piccoli conflitti di interessi, sulle ignavie colpevoli e gli attivismi troppo di parte, e si vedranno anche crescere due forme di fiducia fondamentali: quella in noi stessi e nel nostro futuro. Gli psicologi cognitivi ci dicono che esse sono alla base dell’ottimismo. Il vero motore di una sana economia e di una società nella quale sia bello vivere.

Per saperne di più

Si veda il pdf allegato.