E&M

2003/6

Gianni Canova Severino Salvemini

Il tacito e l’esplicito

In un delicato film francese, che segna il ritorno sugli schermi di uno straordinario Omar Sharif (Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, di François Dupeyron), una suggestiva metafora sull’inevitabile reciprocità di ogni processo di formazione. In azienda come nella vita.

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Monsieur Ibrahim e i fiori del corano

Regia François Dupeyron

interpreti Omar Sharif, Pierre Boulanger

Francia, 2003

In un’imprecisata città francese degli anni sessanta, un ragazzino di origini ebraiche e un vecchio arabo proprietario di una drogheria rompono le barriere culturali e religiose che li dividono e intrecciano una sincera e profonda amicizia. Il ragazzino si muove come una trottola, corre su e giù per la Rue Bleue su cui si affacciano tanto il negozio dell’arabo quanto l’abitazione in cui vive con suo padre, spia dalla finestra le simpatiche prostitute che esercitano il mestiere sulla strada e risparmia i soldi per chiedere a una di loro di insegnargli i segreti del sesso e dell’amore. L’arabo invece non si muove quasi mai, sta seduto dietro il bancone del suo negozio, vende merci e incassa denaro, ma intanto osserva il mondo e le persone, e regala al ragazzino importanti e preziose lezioni di vita. Sarà lui a adottare il ragazzo dopo l’abbandono del padre. E sarà sempre lui ad accompagnarlo in un viaggio iniziatico verso Oriente che segnerà il suo definitivo ingresso nel mondo degli adulti. Diretto da François Dupeyron e interpretato da un efficacissimo Omar Sharif, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano prospetta – dietro l’apparenza di favola gentile sul dialogo tra culture diverse – alcune interessanti indicazioni metodologiche su questioni centrali nel dibattito sull’organizzazione, la formazione e l’interculturalità anche in ambito aziendale e professionale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Un primo elemento di grande interesse mi pare si possa riscontrare nello stile formativo che l’anziano monsieur Ibrahim adotta nei confronti del giovane ebreo. È uno stile non impositivo, sorridente, complice, tollerante. Quando monsieur Ibrahim si accorge che il ragazzino compie piccoli furti nel suo negozio, non lo rimprovera né lo redarguisce. Non dice nulla, lascia correre. Ma poi fa in modo da far capire al ragazzino che lui sa, che ha sempre saputo, e che se non è intervenuto è perché ha scelto di farlo.

S.S. Direi che la posizione del vecchio arabo che se ne sta seduto sul suo sgabello e osserva sorridendo il mondo che lo circonda è un esempio emblematico di cognitivismo fondato su quelli che un teorico come Bandura chiama i “giudizi osservativi”. La sua esperienza si forma sull’osservazione diretta, la sua saggezza deriva prima di tutto dalla sua capacità di osservare e di ascoltare. In questo senso, non è solo lui che insegna qualcosa al ragazzino: prima ha imparato a sua volta qualcosa dall’adolescente di cui diventerà maestro. La formazione, insomma, è biunivoca, viaggia su binari incrociati: è perché ha accresciuto la sua conoscenza osservando il giovane che a un certo punto l’anziano può ergersi a maestro.

G.C. È una lettura molto suggestiva. Questa circolarità del processo formativo trova conferma, del resto, nella stessa struttura del film che, non a caso, termina presentando il ragazzino ormai adulto seduto al bancone che fu di monsieur Ibrahim, intento a educare un nuovo adolescente che non solo si comporta nel negozio esattamente come aveva fatto lui tanti anni prima, ma indossa addirittura una maglietta rossa molto simile a quella che lui aveva indossato. Da questo punto di vista, il film ci dice con forza che ogni processo di apprendimento si gioca sempre in due, e che i saperi si trasmettono nel tempo solo attraverso relazioni di tipo simmetrico fondate sulla reciprocità.

S.S. Insisterei anche su un altro aspetto. Il personaggio interpretato da Omar Sharif incarna alla perfezione quella che Polany definisce la “conoscenza tacita”. È il sapere non concettualizzato di cui dispongono certi vecchi “maestri” – pensiamo, per esempio, a certi artigiani – che sanno moltissimo ma hanno difficoltà a concettualizzare e a sintetizzare in formule astratte e trasmissibili il loro sapere. Il vecchio diventa un maestro solo nel momento in cui il giovane gli fa delle domande e riesce in tal modo a esplicitare il tacito, a tirargli fuori il suo know-how segreto.

G.C. Certo: il giovane interroga, ma lo fa perché il vecchio ha saputo incuriosirlo. Siamo di nuovo lì: alla formazione come processo di implicazione reciproca. Nel caso del film di Dupeyron, direi che il giovane esplora, mentre il vecchio certifica, conferma o corregge, rendendo autentica e autorevole la conoscenza. In ogni caso, mi pare che il film scarti con forza ogni ipotesi di formazione come trasmissione dall’alto di conoscenze consolidate, come quelle che il padre pretenderebbe di imporre al figlio, ricevendo in cambio solo netti rifiuti. Quel che si tratta di capire, piuttosto, è se un simile modello formativo funziona anche in ambito aziendale e professionale…

S.S. Mi pare di poter dire che Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano prospetta una relazione formativa molto attuale, in cui si mescolano e si alternano momenti affettivi e momenti normativi. L’accondiscendenza di monsieur Ibrahim nei confronti dei piccoli furti del ragazzo non è solo una benevola captatio benevolentiae: è l’atteggiamento tipico di quel capo che tollera l’errore, che ammette nel giovane un comportamento di sperimentazione, che non perseguita chi devia rispetto alla norma, ma attende – da iniziatore più che da semplice formatore – che il deviante arrivi a sentire in sé l’opportunità di rientrare nella norma.

G.C. Tutto ciò si sovrappone a una riflessione molto stimolante sul tema dell’interculturalità. Non dimentichiamo che i due protagonisti del film sono divisi non solo dall’età e dall’esperienza, ma anche dall’appartenenza a religioni e a culture diverse. Il ragazzino arriva a intuire la differenza culturale di monsieur Ibrahim, e ne è incuriosito, mentre per suo padre il signor Ibrahim non ha neppure un nome, è l’arabo e basta, cioè un negoziante che ha un orario di lavoro strano e tiene aperta la bottega anche quando i negozi francesi chiudono.

S.S. L’abilità di Ibrahim sta proprio nel modo in cui sa indurre nel ragazzino la curiosità per l’altro, l’interesse per la diversità. Anche da questo punto di vista il film di Dupeyron contiene una lezione importante: ogni processo di crossing culturale ha i suoi tempi e i suoi ritmi, non può essere pianificato e imposto in modo astratto, si deve sempre aspettare che i soggetti coinvolti arrivino con la loro maturazione a sentire la necessità e a scoprire i vantaggi dell’incontro e dello scambio.

G.C. In questo senso, l’elogio della lentezza celebrato da Ibrahim ha un valore molto attuale: non si contrappone alla velocità, non rallenta le corse dell’adolescente su e giù per Rue Bleue, non frena la sua smania di conoscenza (del mondo, del sesso, del cibo), addirittura pratica in prima persona la velocità (si pensi all’auto rossa fiammante con cui i due intraprendono il viaggio finale in Turchia). Semplicemente, la lentezza di Ibrahim è uno stile mentale: quello di chi pensa rapido ma poi non forza le cose, non fa pressing sugli interlocutori, lascia che i processi si compiano nel tempo necessario. E nella consapevolezza della necessità di trasmettere agli altri ciò che si è appreso dalla vita e nella professione.

S.S. Monsieur Ibrahim lo dice apertamente attraverso una delle massime che deriva dal suo Corano. Non dal Corano, beninteso, ma da ciò che del Corano ha fatto proprio: “Ciò che dai è tuo per sempre, ciò che tieni è perduto per sempre”.