E&M

2003/4

Claudio Dematté

Perché l’internazionalizzazione profonda passa anche attraverso acquisizioni e alleanze

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L’internazionalizzazione è quel processo attraverso il quale le imprese non solo dispiegano le loro vendite su più mercati esteri, ma dagli stessi mercati o da altri attingono anche per il loro approvvigionamento di materie prime, di componenti, di tecnologie, di impianti, di attrezzature, di risorse finanziarie, di forza lavoro. Essa comporta spesso anche la localizzazione su più mercati esteri delle stesse attività produttive o di parti di esse. L’internazionalizzazione non è quindi la semplice attività di esportazione. Meno che meno quel tipo di esportazione che si limita a consegnare in mano a importatori esteri il prodotto finale affinché lo collochino poi presso i punti vendita locali con la loro organizzazione e sotto il loro controllo. È un processo di dispiegamento geografico dell’intera filiera produttiva dell’impresa per cogliere le migliori condizioni nei diversi mercati, sia quelli di approvvigionamento dei fattori, sia quelli di sbocco dei prodotti, sia quelli dove meglio si realizza la produzione.

Ho già avuto modo di sottolineare, in un altro editoriale, che nel nuovo scenario competitivo le imprese che operano esclusivamente all’interno dei singoli mercati nazionali, salvo qualche eccezione, vedono limitate le loro prospettive di sviluppo e sono per di più esposte al rischio di subire l’invasione di concorrenti esteri senza potersi appoggiare su altri mercati e senza essersi preparate ad affrontarli sul terreno loro o in campo terzo. La mancata diversificazione dei mercati di sbocco e/o di approvvigionamento o di produzione le espone, inoltre, al rischio di variazioni di competitività per mere oscillazioni del cambio reale, quando le variazioni del cambio nominale si discostano dai differenziali di inflazione.

Ma oggi questo problema non colpisce solo le imprese rimaste ostinatamente domestiche. Interessa anche le imprese che si sono aperte ai mercati di sbocco internazionali ma lo hanno fatto esclusivamente con la modalità esportativa: quindi, quelle che hanno perseguito l’internazionalizzazione per quanto riguarda i mercati di sbocco, ma l’hanno realizzata solo su questo fronte, limitandosi a pochi mercati e per di più in forma “leggera”, non dando radici profonde al loro operare su scala internazionale.

Tre sono le tesi di questo editoriale: 1. la presenza sui mercati esteri solo in forma esportativa leggera espone l’impresa al rischio di essere facilmente e velocemente soppiantata da chi “controlla” il mercato; 2. nelle presenti condizioni competitive solo un’internazionalizzazione attenta a tutti i mercati – a quelli di sbocco come a quelli delle tecnologie, di approvvigionamento e di produzione – consente alle imprese di reggere il confronto competitivo; 3. l’internazionalizzazione “profonda” e quella che non si limita al solo mercato di sbocco passa quasi necessariamente attraverso linee di sviluppo esterne, con l’impiego di alleanze di vario genere e con il ricorso alle acquisizioni. Ma alleanze e acquisizioni sono operazioni difficili e del tutto speciali, che richiedono un cambio di mentalità e un know-how che non rientra nel patrimonio normale di un’impresa. Vediamo ora il fondamento logico di queste tre tesi.

La necessità di dare un radicamento alla presenza sui mercati di sbocco

Come è noto, molte imprese si avviano sulla strada della internazionalizzazione in forme poco programmate e quasi inerziali. Partecipano a una fiera, talvolta nel proprio stesso mercato domestico, dove arrivano compratori anche da altri paesi, e si fanno trascinare all’estero da importatori di quei paesi. Altre volte assumono un ruolo più proattivo e, proprio per approdare sui mercati esteri, partecipano a fiere internazionali nei mercati target o intraprendono specifiche iniziative commerciali per acquisire sugli stessi un importatore. Il più delle volte il complesso delle attività che devono essere perseguite per accompagnare il prodotto presso i punti vendita e poi verso il consumatore finale viene svolto da un “distributore” locale, il quale si avvale dalla rete di vendita allestita anche per altri suoi clienti, o costituita ad hoc, e si dà cura, oltre che della funzione di vendita, anche di quella di marketing (dove c’è), di distribuzione fisica, di incasso crediti, di ritiro dei resi, di assistenza post-vendita e quant’altro è necessario per completare l’anello della distribuzione all’ingrosso. Il resto della filiera – quella della vendita al dettaglio – quasi sempre è sotto il controllo di operatori indipendenti locali. Nei mercati più evoluti, costoro sono grandi imprese di vendita al dettaglio che nemmeno si avvalgono dei distributori all’ingrosso, preferendo approvvigionarsi direttamente presso i produttori.

Quanto più leggera è la presenza dell’impresa sul mercato estero – cioè quanto meno numerose sono le funzioni da essa controllate – tanto più essa è in balia vuoi del distributore all’ingrosso, là dove questo è il ganglio dominante, vuoi delle grandi imprese di distribuzione, se questa è la struttura del mercato prevalente a valle del produttore. Nella maggior parte dei mercati convivono sia la catena lunga che vede il distributore all’ingrosso servire una moltitudine di distributori al dettaglio indipendenti, sia la catena corta, costituita dalla grande impresa di distribuzione al dettaglio.

Quanto più un’impresa riesce ad affondare radici nel mercato estero, controllando più funzioni possibile e penetrando più in profondità nella filiera in direzione del consumatore finale, tanto più difficile è che possa essere scalzata da quel mercato.

Il primo passo in questa direzione consiste, di solito, nel trasformare il rapporto con l’importatore da mero rapporto contrattuale di mercato in rapporto più vincolante e stabile: un’entrata nel suo capitale, accompagnata da accordi per una presenza più penetrante dell’esportatore nella gestione operativa. Il passo successivo è quello di acquisirlo per farlo diventare una longa manus dell’impresa esportatrice. Grazie a questi sviluppi l’impresa esportatrice può acquisire un rapporto molto più stretto e più saldo con i distributori al dettaglio; può sviluppare con essi forme di servizio pre- e post-vendita che li vincolino in modo più duraturo; può raccogliere informazioni sulla concorrenza non distorte dagli interessi dell’importatore, specie se questi è plurimarca; può impostare e gestire direttamente programmi di fidelizzazione con il trade, senza cadere nella esclusiva guerra dei prezzi. Con il controllo stretto delle funzioni di servizio al trade l’impresa che esporta può impostare con i distributori al dettaglio anche programmi che consentano una migliore evidenza dei prodotti suoi, con la creazione di spazi dedicati, di azioni di promozione diretta al consumatore finale, fino a giungere all’allestimento di “shop in the shop”. È con l’insieme di queste azioni che l’esportatore modifica la propria posizione sui mercati esteri passando da una presenza “leggera”, esposta a variazioni, anche piccole, di prezzo da parte dei concorrenti, a un radicamento più profondo, protetto, rispetto alla mera concorrenza di prezzo, da una serie di legami consolidati con il trade.

Ecco che già qui emerge l’importanza, per approfondire la presenza sul mercato estero, di procedere per “linee esterne”: anziché andare in proprio, avvalersi dapprima di un’alleanza con un operatore terzo (l’importatore locale); poi rinsaldarla con una partecipazione anche azionaria al fine di meglio allineare interessi e prospettive; infine acquisirne il controllo quando diventa possibile e strategica l’internalizzazione di questo anello della filiera.

È evidente che, ove l’impresa riesca a prendere il controllo anche della distribuzione al dettaglio, rafforza ulteriormente la presa sul mercato estero. Ma una simile operazione richiede tempi lunghi e investimenti ingenti.

Le strade che possono essere percorse sono diverse. Quella dello sviluppo nel trade per linee interne aprendo un proprio punto vendita dopo l’altro è quella più lenta e dispendiosa. Ma non solo: è anche quella più difficile, sia per la difficoltà di gestire in proprio una funzione che è strutturalmente diversa dal produrre, sia per i problemi dell’operare in un contesto estero in una funzione così difficile, sia perché tanto le scelte di localizzazioni – che sono cruciali in questo tipo di attività – quanto la probabilità di riuscire a catturare quelle più convenienti sono sfavorevoli a chi non è del paese.

Per queste ragioni, anche se alcuni tipi di imprese, come quelle del lusso, aprono propri punti vendita diretti (quelli che vengono chiamati flag stores, negozi bandiera), lo fanno per ragioni di immagine, limitandosi a poche località di prestigio. Un controllo molto più profondo del trade è pressoché impossibile da raggiungere con lo sviluppo in proprio.

Una forma che consente di conciliare l’obiettivo dell’esportatore di avere una rete propria con la necessità di know-how e imprenditoria commerciale locale, oltretutto contenendo l’investimento per il primo, è il modello del franchising o formule simili, come quella perseguita da Benetton. Ciò che si attiva in questo caso è un modello di sviluppo basato sull’alleanza fra soggetti diversi allineati attorno a un comune obiettivo con apposite formule contrattuali e con specifici modelli gestionali.

L’alternativa più radicale – quella che consente un controllo ancora più forte del trade – è quella dell’acquisizione di reti già strutturate, com’è successo a Luxottica negli Stati uniti, con l’acquisto di Lens Crafter e Sun Hut o a De Rigo in Inghilterra e Spagna con l’acquisizione rispettivamente di Dollon Achinson e di General Optica. L’acquisizione di una rete esistente consente di superare il problema del gap di conoscenza rispetto al mestiere della vendita al dettaglio e rispetto al mercato estero, ma ha, come contropartita, il problema dell’elevato investimento.

Il radicamento vero sul mercato estero lo si raggiunge solo quando si penetra profondamente nei pensieri e nei desideri della clientela: quando si è in grado di catturare la “share of mind” prima ancora che la quota di mercato. Per raggiungere questo stadio è necessario che i consumatori di quel paese siano stati esposti a una lunga sequenza di esperienze d’acquisto e d’uso positive con il produttore. Solo in quel momento matura quel legame profondo che prende il nome di brand. Sviluppare un brand su un mercato estero è quanto di più difficile e oneroso, anche perché il produttore che viene da fuori deve trovare spazio fra quelli che quel mercato lo coltivano da sempre. In molto mercati, specialmente in quelli maturi, è possibile un’entrata di nicchia, soprattutto se il nuovo entrante ha una proposta innovativa capace di attrarre uno specifico gruppo di consumatori. Ma andare oltre le posizioni di nicchia diventa problematico senza transitare per la conquista di un brand locale a forte radicamento. Per questo motivo, a un certo punto del processo di internazionalizzazione sorge la necessità di acquisire un produttore locale, con il problema successivo di integrarlo nella strategia complessiva dell’impresa. Spesso quel produttore locale aveva anch’esso percorso sentieri di sviluppo internazionale: si apre allora la necessità, post-acquisizione, di riordinare le posizioni, di posizionare i marchi sui diversi mercati, di rivedere la distribuzione geografica della produzione e anche la specializzazione dei vari stabilimenti che cadono sotto il controllo dell’impresa.

Da ultimo vi è un’altra ragione che conduce inesorabilmente un’impresa che voglia diventare sempre più internazionale verso le acquisizioni: in quasi tutti i settori, ma soprattutto in quelli che presentano economie di scala, economie di scopo, curve di esperienza e simili economie di dimensione, quando i mercati si approssimano allo stadio della maturità si innescano processi di concentrazione che premiano chi è più veloce nell’aggregare altre imprese e penalizzano chi, non essendo riuscito a posizionarsi a nicchia, si trova emarginato. Si pensi al settore degli elettrodomestici, dove i sopravvissuti che controllano la maggior parte del mercato sono tutte imprese che sono cresciute su scala continentale o anche transcontinentale attraverso non solo la crescita interna, ma anche e soprattutto con acquisizioni sia sui mercati domestici sia su quelli internazionali.

Come si può rilevare, il radicamento sul mercato di sbocco in mercati esteri presenta problemi di varia natura, che difficilmente possono essere superati con il mero sviluppo per linee interne senza dover pagare il prezzo di tempi troppo lunghi o di investimenti rischiosi ed eccessivi. Il ricorso alle alleanze o alle acquisizioni è quasi una strada obbligata.

La necessità di ricercare le migliori fonti di approvvigionamento dei fattori per preservare la ...

Un più forte controllo dei mercati di sbocco è uno dei passi che le imprese devono compiere per dare spessore alle loro strategie di internazionalizzazione. In realtà, premessa e condizione per potere reggere i mercati internazionali (ma anche quelli domestici) è l’avere prodotti e servizi competitivi. La competitività – è risaputo – dipende da un insieme di elementi – la qualità e il costo dei fattori della produzione, dei componenti, delle tecnologie, del capitale – oltre che dalla capacità di concepire e realizzare prodotti in grado di soddisfare i bisogni dei consumatori. Sempre di più, per essere competitivi sul mercato di sbocco, occorre essere capaci di cogliere le migliori condizioni sul mercato dei fattori, esplorando in continuazione quanto di nuovo, di migliore e di meno costoso si rende disponibile nel mondo.

Nei settori soggetti a maggiore innovazione questa apertura internazionale è condizione essenziale per costruire e mantenere una competitività nei prodotti finiti. Quando questi sono anche sistemi complessi di tecnologie e di funzioni, nessuna impresa riesce da sola a presidiare tutti i fronti di innovazione che possono arricchire e perfezionare il prodotto.

Da queste osservazioni si deduce che per essere competitivi sul mercato dei prodotti occorre impostare un sistema di alleanze e spesso anche di acquisizioni per presidiare dinamicamente gli elementi necessari per comporre il prodotto finale. Aziende come Nokia, che in poco più di un decennio sono passate da una realtà locale, e per di più poco competitiva, a una grande impresa internazionale, lo hanno fatto non solo stringendo svariate alleanze e realizzando diverse acquisizioni sul fronte dei mercati di sbocco, ma operando nelle stesse forme anche sul fronte delle tecnologie, dei componenti, della determinazione degli standard: alleanze e acquisizioni a decine e decine. Per conservare un adeguato grado di controllo dell’ambiente dal quale scaturiscono le innovazioni che più possono scompaginare i giochi competitivi – ambiente che è sempre più ampio – non bastano i processi di sviluppo per linee interne: occorrono alleanze; e là dove emergono elementi di possibile vantaggio competitivo forti, anche acquisizioni.

Vale anche in questo caso quanto detto al punto precedente: gestire un insieme di collaboratori dipendenti è già difficile; gestire un processo il cui esito dipende dal rapporto di collaborazione con un’altra impresa è doppiamente difficile, perché occorre finalizzare verso un obiettivo che, almeno in parte, deve essere comune a due squadre di soggetti che rispondono a due centri direzionali. Sul fronte delle acquisizioni, quelle da farsi per presidiare i mercati dei fattori della produzione non sono da meno, per difficoltà, rispetto a quelle necessarie per controllare meglio i mercati di sbocco. Basti pensare alle difficoltà che comporta l’acquisizione di un’impresa che sta sviluppando una nuova tecnologia, dove si acquista futuro, beni intangibili e personale che rimane solo se si riesce a preservare la motivazione e l’entusiasmo per i progetti sui quali è impegnato.

La necessità di dislocare le produzioni dove è più conveniente dal punto di vista costo/qualità

In un regime di economie aperte, sempre più libere negli scambi che gli operatori possono realizzare con soggetti di altri paesi, sia sul fronte dei prodotti sia su quello dei componenti, sia su quello dei capitali, l’unico fattore che rimane vincolato nella sua mobilità è il personale, sia per motivi di inerzia negli spostamenti, sia per vincoli all’immigrazione. In queste condizioni di mobilità asimmetrica, il luogo dove è più conveniente produrre può mutare anche in tempi relativamente brevi. È sufficiente un’alterazione dei rapporti di cambio, oppure una spinta salariale più accentuata in un paese, oppure un asimmetrico sviluppo della forza lavoro nelle diverse aree, o ancora l’accumularsi in determinate aree di un pool di expertise particolare, per fare sì che mutino i luoghi dove la produzione è più competitiva. Gli impianti, d’altro canto, non sono cosa che si possa spostare con facilità e senza costo.

Ma se variano nel tempo le localizzazioni più convenienti, un’impresa che voglia rimanere competitiva deve essere capace di tenerne conto. Lo può fare spostando gli incrementi di produzione verso i nuovi luoghi, se è tempestiva nell’avvertire il cambiamento in atto. Oppure può essere costretta a farlo con dismissione dei vecchi stabilimenti per delocalizzare su altri mercati anche lo stock storico di produzione.

Talune imprese, proprio tenendo conto di questo variare anche repentino dei luoghi più convenienti, preferiscono non realizzare in proprio l’intera produzione, dando in outsourcing una certa quota della medesima, oppure la produzione dei componenti. Se l’assetto strategico per cogliere queste opportunità (e sfuggire ai rischi) è di questo genere, si pone il problema di dover fare conto, per la predisposizione del prodotto, sull’opera di terzi. Poiché in molti casi sarebbe troppo rischioso affidarsi esclusivamente ad acquisti spot, sia per il controllo di qualità, sia per la sicurezza degli approvvigionamenti, sia per la possibilità di orientare e controllare l’evoluzione dei processi produttivi, si pone il problema di costruire propri stabilimenti, o di disporre di una capacità produttiva “controllata”, o di comperare produttori in quei paesi dove è diventato conveniente produrre. Molto spesso le barriere di lingua, la diversità delle culture, la difficile comprensione delle normative, la specificità dei rapporti con il contesto locale rendono preferibili soluzioni quali le alleanze o le acquisizioni, rispetto alle operazioni green field. Talvolta si preferisce perfino acquistare un produttore non del tutto in linea con ciò che sarebbe necessario, procedendo poi agli adeguamenti necessari, pur di superare la barriera dell’ignoto che circonda la produzione all’estero.

Si torna di nuovo al punto centrale di questa nota: anche là dove per essere competitivi occorre collocare la produzione su mercati esteri, la via delle alleanze e delle acquisizioni ha un peso rilevante.

Conclusioni

Come abbiamo visto, comunque lo si osservi, il processo di internazionalizzazione si arena ben presto se ci si limita esclusivamente allo sviluppo per linee interne. Le barriere conoscitive, quelle normative, quelle ancora più profonde che legano, per storia condivisa, gli operatori locali fra di loro e li distinguono da quelli che vengono da fuori (consumatori, fornitori, produttori, autorità locali) fanno sì che un’internazionalizzazione più profonda – dove il termine profondo indica il grado di controllo sul mercato di sbocco, l’intimità con i consumatori finali, la dimestichezza con l’ambiente locale, il radicamento sociale – passi quasi necessariamente attraverso alleanze o acquisizioni. Le prime sono forme organizzative in cui si fanno convergere il know-how e le risorse dell’impresa che persegue l’internazionalizzazione con il know-how e le competenze dell’operatore locale sul quale si fa conto per diventare insider, sia che si operi solo sul mercato di sbocco sia che si debba manovrare anche su quello dei fattori o della produzione. Con le acquisizioni si compie un atto di conquista volto a catturare d’un sol colpo quel patrimonio di “localizzazione” che si presume incorporato nell’impresa target.

Entrambe le politiche sono essenziali se un’impresa non vuole limitarsi a rimanere solo un esportatore in balia dei venti della concorrenza. Un imprenditore che in dieci anni ha perseguito una serie di alleanze e di acquisizioni internazionali ha sintetizzato il problema in questi termini: “Agli inizi degli anni novanta eravamo un’impresa con un ottimo record di esportazione. Se non avessimo fatto i passi successivi (quelli delle alleanze e delle acquisizioni) oggi non saremmo nemmeno esportatori. Con molta probabilità avremmo dovuto vendere. Da meri esportatori abbiamo dovuto diventare insider, almeno in un certo numero di mercati, quelli strategici per le produzioni di cui ci occupiamo”.

Per fare questo, quell’impresa ha dovuto concludere una serie di alleanze e acquisizioni. Ciò l’ha costretta a cambiare radicalmente: dalla struttura proprietaria, che ha dovuto aprirsi per attrarre le risorse necessarie per realizzare queste operazioni; alla struttura di governo, che ha dovuto adeguarsi per gestire un gruppo di imprese disposte su diversi mercati; all’impianto organizzativo, che ha dovuto coordinare più dimensioni in contemporanea (più mercati serviti, diversi brand, più stabilimenti, più fonti di outsourcing); ai sistemi informativi, che hanno dovuto strutturarsi per integrare tempestivamente le operazioni sparse nel territorio. Senza contare la necessità di costruire, alimentare, gestire un sistema di alleanze, ognuna delle quali con un diverso interlocutore, con obiettivi differenti, con propri problemi e un proprio ciclo di vita.

Un’ultima nota: come si è cercato di argomentare, non c’è internazionalizzazione profonda senza il passaggio attraverso queste forme di crescita, le alleanze e le acquisizioni. È però certo e dimostrato, da diversi studi, che queste operazioni sono estremamente difficili, tanto che la maggioranza di esse si trasforma in una distruzione di valore per gli azionisti. La tensione fra la necessità di passare attraverso queste operazioni per realizzare una compiuta internazionalizzazione e l’alto rischio che le circonda è l’area sulla quale deve essere convogliata l’attenzione del management. Affinché queste operazioni non vengano evitate per timore dei rischi che le accompagnano, ma diventino parte integrante di una strategia di internazionalizzazione occorre un forte salto culturale, un’accurata preparazione precedente e preparatoria e una superiore capacità di gestione delle fasi di integrazione successiva. Ci vuole, soprattutto, una cultura diversa capace di vedere l’impresa come un organismo, con una propria identità, ma necessariamente aperto per potere includere, quando necessario, apporti o interi nuclei provenienti dall’esterno.