E&M

2003/2

Claudio Dematté

Gestire le imprese quando il mercato diventa incerto e difficile

Scarica articolo in PDF

Per molte imprese il 2002 è stato un anno difficile o, peggio, un anno da dimenticare. È stato l’anno della crisi Fiat e del suo indotto, del tracollo della Cirio, della moria di tante piccole imprese, alcune delle quali valide, sorte sull’entusiasmo delle nuove tecnologie. Anche quelle che chiudono in positivo lo devono più alla loro bravura che alle condizioni della domanda, che in nessuna parte dell’anno sono state positive. Questo periodo verrà ricordato come quello della grande frenata, iniziata nel secondo semestre del 2001, dopo gli anni dell’euforia, degli alti tassi di crescita, della tanto declamata “nuova economia”. Ma rimarrà nella coscienza e nell’esperienza degli operatori come la fase della grande incertezza, delle previsioni sempre più ottimistiche della realtà, delle illusioni di ripresa continuamente smentite. E rimarrà nel bagaglio professionale degli imprenditori e dei manager, specialmente dei più giovani che non hanno mai attraversato periodi di crisi prolungata, come un’esperienza importante, se ciò che è accaduto nel 2002 verrà distillato, meditato e assunto a punto di riferimento per altri momenti di crisi che purtroppo si presenteranno di tanto in tanto anche in futuro: l’esperienza di gestire le imprese quando il mercato diventa incerto e difficile.

Questo insegnamento è importante anche perché l’anno nuovo non promette di essere migliore; anzi, si apre nel pessimismo, a dispetto dei continui, anche se sempre più timidi, annunci di ripresa. E quindi servirà anche per gestire i mesi a venire. La lezione del 2002 è importante anche per gli studiosi di economia aziendale e di management perché conferma la validità di principi di gestione che alla luce dell’euforia degli anni precedenti sembravano superati. I punti sui quali occorre riflettere sono i seguenti: 1. l’effetto amplificato del calo della domanda sui conti economici; 2. la lievitazione strutturale dei costi, se non deliberatamente governati; 3. l’importanza, quando l’andamento della domanda è incerto e variabile, della struttura dei costi, intesa come rapporto fra costi fissi e costi variabili; 4. l’effetto moltiplicativo e travolgente della spirale viziosa tipica delle fasi di crisi; 5. il ruolo critico della struttura patrimoniale e della finanza; 6. le condizioni psicologiche per gestire le imprese in periodi di difficoltà.

L’effetto amplificato del calo di domanda

Una delle lezioni che i manager che sono cresciuti in periodi di sviluppo dovrebbero avere appreso dagli eventi del 2001 è che, quando la domanda aggregata di un bene o un servizio flette, l’effetto sui conti delle imprese viene amplificato perché di norma si producono contemporaneamente due fenomeni: 1. il calo del fatturato, salvo il caso in cui l’impresa sia in controtendenza; 2. comunque, anche se l’impresa riesce a recuperare quote di mercato, subisce la generale compressione dei margini dovuta al diverso rapporto fra offerta e domanda.

Quest’ultimo effetto deriva dal fatto che l’adeguamento dell’offerta non è mai sincrono rispetto al variare della domanda, ma avviene, se avviene, con un ritardo temporale. L’effetto viene poi amplificato se gli operatori vivono nella convinzione, com’è successo nel 2002, che la ripresa sia sempre dietro l’angolo. In questo caso l’adeguamento dell’offerta alle nuove condizioni di mercato viene continuamente postposto con gli effetti negativi sui margini che ne conseguono.

Questo tipo di fenomeno è risultato evidente in molti settori sia manifatturieri sia di servizi. Emblematico è il caso dei servizi di intermediazione finanziaria, dove l’impatto negativo è stato perfino triplice: il calo di domanda di nuovi servizi, il calo dei volumi dello stock di attivo gestito in seguito al crollo dei corsi dei titoli azionari, la riduzione dei margini in seguito alla forte concorrenza. Ma anche nei servizi professionali di consulenza o di system integration effetto volume ed effetto margine si sono sommati deprimendo doppiamente i conti aziendali. Lo stesso è successo in molti settori manifatturieri, nei quali la lamentela più frequente è proprio sul fronte dei margini che molti avevano assunti a livelli superiori.

La logica economica sulla questione è chiara. Tuttavia molti operatori, anche quelli che avevano messo in conto un rallentamento della domanda, non avevano conteggiato nelle loro previsioni il doppio effetto e si sono trovati di fronte a situazioni di gran lunga peggiori di quelle ipotizzate negli scenari meno favorevoli.

Quando le condizioni volgono al peggio, all’ottimismo esuberante che pur sarebbe tonico per l’organizzazione occorre sostituire una forte dose di prudenza che, alla luce di quanto si è visto nel 2002, non è mai troppa. Chi, nel preparare i budget, impiega modelli di simulazione per saggiare la sensibilità dei risultati rispetto alle varie possibilità di sviluppo, deve essere accorto, inserendo nei modelli, a parità di altre condizioni, margini in declino quando si prevede domanda in calo e l’opposto quando è in crescita: un accorgimento raro, purtroppo.

I costi, se non governati, crescono sempre

Anche questa affermazione sembra ovvia. Ma è una verità troppo spesso trascurata. Quasi tutti i costi, se non sono deliberatamente sottoposti a una cura dimagrante, contengono meccanismi di indicizzazione. Quelli del personale, anche se è venuta meno la scala mobile, tendono a crescere non solo in rapporto all’inflazione, ma anche per gli scatti di anzianità che trascinano verso l’alto il monte salari, oltre a qualche incremento di merito che è sempre necessario per tonificare l’organizzazione. Gli affitti contengono meccanismi di adeguamento, così come accade anche per altri costi, come quelli dei servizi esterni (che contengono costi di lavoro di terzi), i costi dell’energia o dei trasporti.

Il dato di fatto è che senza correzioni, in quasi tutte le imprese il budget dei costi di un esercizio tende a essere superiore a quello dell’esercizio precedente.

Se la domanda non cresce, o peggio ancora se diminuisce, il conto economico si trova sotto la forbice dei costi in espansione per le ragioni suddette e dei ricavi in calo per i due effetti illustrati nel punto precedente, con evidenti riflessi sull’equilibrio economico. Proprio per questa ragione nelle fasi di domanda calante sapere controllare i primi diventa un fattore critico di successo. Spesso anzi è la sola strategia praticabile.

È questa la strada giusta anche quando occorre parallelamente investire per migliorare la competitività con nuovi prodotti o con processi più efficienti. Meno costi correnti e più investimenti non sono due strategie in contrasto l’una con l’altra. La realizzazione di investimenti comporta un’uscita di cassa e parallelamente, anche se per una quota soltanto dei medesimi, un aumento di costi, nella misura della rata di ammortamento. Quando la situazione finanziaria e quella economica sono sotto tensione, fare investimenti per migliorare la competitività diventa più difficile proprio perché nel conto economico e in quello finanziario non c’è spazio, se preventivamente o parallelamente non si tagliano altri costi. Ecco allora che una strategia di contenimento dei costi correnti è la premessa per poter fare investimenti.

Peraltro, in alcune circostanze è proprio grazie agli investimenti (per esempio di automazione) che si riesce a contenere i costi. Solo che, in questo caso, occorre prima fare gli investimenti, e dopo si possono cogliere i frutti. Per questi motivi la relazione fra costi e investimenti è multidimensionale e non antitetica.

Per quanto sia evidente l’importanza delle politiche di contenimento dei costi, esse si scontrano sempre con una forte resistenza. La struttura gerarchica piramidale delle imprese fa sì che i responsabili dei vari nuclei organizzativi si sentano in dovere di proteggere i budget di costo storici assegnati alle loro unità, anche quando potrebbero contenerli, e che percepiscano un taglio come una diminutio del potere loro e di quello della loro unità organizzativa. Per questo vi si oppongono, anche se vi fossero possibilità di riduzione. La necessità di “inventare” il zero based budgeting è la riprova che senza meccanismi specifici (e perfino con essi) ottenere una riduzione è un’operazione quanto mai ardua. Coloro che stanno al vertice della struttura conoscono bene questo meccanismo perverso, avendolo praticato loro stessi in momenti diversi. Ma non hanno le conoscenze dettagliate necessarie per intervenire là dove i costi si generano. Emanano allora dei diktat di taglio dei costi definiti in termini generali (non meno dell’x%) che sono magari centrati nel loro ammontare complessivo – tutte le organizzazioni hanno una certa dose di grasso, e i vertici lo sanno – ma che non riuscendo a individuare i punti esatti dove incidere creano sovente seri scompensi.

Le politiche di taglio costi incontrano però un problema più generale: sono molto poco popolari, specialmente in un paese come il nostro, dove hanno alta reputazione gli inventori e i creativi. Chi le imbocca teme che la propria posizione professionale venga sminuita con la qualifica di “tagliateste” o di “ragiunat”. Ricordo ancora, sempre a titolo di esempio, in una conferenza del settembre 2001, quando si profilava il rischio di una domanda calante, la reazione poco convinta degli altri relatori, ma anche del pubblico, fatto di imprenditori e di manager, al mio invito a dare priorità per l’anno 2002 al contenimento dei costi sia per mantenere l’equilibrio economico sia per aprire spazi per investimenti sul fronte commerciale e su quello volto all’innovazione di prodotto e di processo.

In fasi di domanda calante una politica siffatta è invece una componente essenziale di qualsiasi strategia. Le strade per perseguirla sono diverse. Dal semplice taglio di ciò che non è necessario e che non produce valore per il cliente alla riorganizzazione della logistica, dalla ristrutturazione dei processi produttivi alla specializzazione degli stabilimenti, dal ridisegno dei sistemi di approvvigionamento alla rinegoziazione di tutti i contratti con i fornitori. Alcuni costi non c’è modo di ridurli se non esternalizzando la funzione che li genera, in quanto è l’esercizio di un soggetto specializzato che fa di essa il suo core business ciò che genera efficienza ed innovazione: è questo il caso di servizi che nelle imprese sono secondari, come quelli di gestione degli immobili o delle mense o dei trasporti.

Altri costi si possono ridurre solo riorganizzando i processi da cui derivano anche con l’uso delle nuove tecnologie dell’informazione (in specifico Internet): emblematico a questo riguardo è il caso dell’e-procurement, che può determinare consistenti risparmi sugli acquisti, sulla necessità di scorte, e anche sul personale necessario per svolgere la funzione.

In talune circostanze questi interventi, per quanto incisivi, non sono sufficienti per ripristinare l’equilibrio economico. Si può presentare la necessità di incidere anche sull’organico del personale se questo era stato dimensionato su un’ipotesi di domanda superiore. Questo tipo di operazione è il più difficile e il più traumatico per chiunque abbia una coscienza e rispetto per le persone. Lasciarlo come ultima ratio è comprensibile ed è anche segno di responsabilità sociale. Ma non intervenire in tempo può causare l’innesco di una spirale che conduce l’impresa sulla strada del fallimento, con la perdita di tutti, anziché di alcuni, posti di lavoro.

Un esempio per tutti delle grandi possibilità di recupero sul fronte dei costi: proprio nel 2002, con la domanda bloccata e il fatturato stabile, in una sussidiaria di una multinazionale che pur si credeva ben gestita, il management è riuscito, intervenendo con metodo e con energia su tutte le fonti di costo, a ridurle al punto tale da riuscire ad aumentare i profitti pur con ricavi stagnanti del 60%. Anche se performance simili è difficile riuscire a ripeterle per più anni, uno spazio di recupero sui costi c’è quasi sempre. Ciò che conta – e che il più delle volta manca – è la volontà di intervenire.

L’importanza crescente della struttura dei costi

In periodi come quello che stiamo attraversando, caratterizzato non solo da una domanda stagnante ma anche da grande volatilità e incertezza sulla sua evoluzione futura, non è importante solo il livello dei costi, ma la loro struttura, in particolare il rapporto fra costi fissi e costi variabili.

Come è noto, la distinzione fra questi due tipi di costi nella realtà non è così facile come nella teoria, perché alcuni costi che apparentemente sono variabili lo sono solo quando l’attività si espande, non quando si contrae. Ma la distinzione rimane pur sempre rilevante. Infatti, ciò che mette in difficoltà le imprese in fasi di andamento altalenante della domanda non è solo il livello dei costi, ma l’avere costi fissi elevati. Sono questi che alzano il punto di break-even, e sono questi che con domanda in declino innescano la rottura dell’equilibrio economico.

Per questo le considerazioni fatte sopra si applicano a maggior ragione ai costi fissi. È su questi che deve appuntarsi lo sforzo di contenimento. Nella prospettiva di andare incontro a un periodo difficile, l’operazione deve andare ben oltre: non soltanto ridurre i costi fissi, ma anche trasformarli il più possibile in costi variabili, anche se si dovesse sostenere una loro lievitazione. Questa trasformazione si realizza in diversi modi. L’outsourcing è lo strumento principale per intervenire sui costi già in essere, decentrando su soggetti esterni specializzati funzioni fino a quel momento svolte internamente. Questo tipo di intervento può consentire risparmi anche considerevoli in virtù della specializzazione, come già detto nel punto precedente; ma anche se non dovesse realizzare una riduzione ha il vantaggio di trasformare costi fissi in costi variabili, il che è perfino più importante in momenti di domanda instabile.

Gli interventi sulla struttura dei costi sono tanto più facili quanto più sono preventivi rispetto al momento del bisogno. È nel momento in cui la domanda cresce che si possono impostare più agevolmente soluzioni organizzative che consentano di soddisfarla senza alzare i costi fissi, piuttosto che ridurli quando la domanda cala. Per questo è importante anticipare gli interventi piuttosto che dovere intervenire nel momento di difficoltà.

L’effetto moltiplicativo e travolgente delle spirali viziose

Ciò che si scorda facilmente nei momenti di buon andamento economico è che le attività economiche sono soggette a fenomeni a spirale che si autorafforzano, in senso positivo o in senso negativo, con effetti di accumulazione e di accelerazione. Si scorda che quando la domanda cala, non solo si deprime il fatturato, ma calano anche i margini (fenomeno già ricordato nel primo punto). Ma si scorda anche la sequenza a spirale fra i tre classici equilibri che reggono ogni gestione: economico, finanziario e patrimoniale. Il primo è quello relativo al conto economico e riguarda il rapporto fra costi e ricavi. Il secondo concerne il conto finanziario e riguarda il rapporto fra entrate e uscite. Il terzo è costituito dal rapporto fra mezzi propri e mezzi di terzi e più specificamente dalla adeguatezza del patrimonio ai fini dell’esercizio di impresa.

Quando le condizioni della domanda si deteriorano e l’impresa non riesce a mantenere l’equilibrio costi e ricavi con le azioni di cui si è detto sopra, a subirne gli effetti non è solo il conto economico che va in perdita, ma anche il conto finanziario e quello patrimoniale. L’effetto su questi ultimi tende, anzi, ad amplificarsi in quel tipico fenomeno di spirale negativa per cui gli effetti accelerano con il passare del tempo e si rafforzano, se non si provvede a un energico intervento di turnaround. Le perdite incidono infatti in due sensi: da un lato riducono il patrimonio contabile; dall’altro, bruciando flussi di cassa, rendono necessario il ricorso al credito, che a sua volta innesca un incremento degli oneri finanziari, che aggravano la perdita del ciclo successivo.

Questo fenomeno a spirale, se non ben conosciuto, trascina facilmente le imprese verso la crisi, perché contiene meccanismi di forte accelerazione. Il patrimonio che si consuma per via delle perdite e l’indebitamento che cresce per il flusso di cassa negativo prodotto dalla gestione in perdita sono due fenomeni contestuali che generano un effetto cumulato ed esplosivo: quando la spirale diventa palese saltano i meccanismi di fiducia sui quali si reggono i rapporti con le istituzioni e i mercati finanziari. Scattano allora i declassamenti dei rating, l’aumento dei tassi di interesse richiesti, la domanda di rientro dai fidi, la crisi di liquidità e l’impossibilità di proseguire l’attività. Fenomeni che hanno recentemente colpito alcune non piccole imprese, quasi colte di sorpresa da un’accelerazione che, invece, è nello stato delle cose.

Una profonda consapevolezza di questo tipo di dinamica a spirale dovrebbe essere nel patrimonio professionale di tutti i dirigenti e di tutti gli imprenditori. Può favorire la maturazione di questa consapevolezza il fatto che le direzioni finanziarie predispongano modelli di simulazione che mostrino concretamente e a priori l’interrelazione fra andamento del conto economico, evoluzione dei flussi di cassa e mutamenti che si producono nel rapporto fra patrimonio e indebitamento.

Solo sapendo che le crisi delle imprese non procedono in forma lineare, ma si avvitano in meccanismi cumulativi a spirale, è possibile affrontare periodi di domanda difficile, senza il rischio di farsi catturare dalla corrente. Il ritardo e la scarsa determinazione con cui si affrontano i rinnovi dei prodotti, gli investimenti per l’efficientamento degli impianti, i tagli di costo sono spesso il frutto di una sottovalutazione del fenomeno in questione.

Il ruolo critico del patrimonio e della finanza

Per quanto detto sopra, nei momenti in cui la domanda si fa debole e l’equilibrio economico può essere compromesso, senza interventi decisi e tempestivi, diventa importante la solidità patrimoniale dell’impresa.

Negli ultimi anni la teoria economica, specialmente la scuola della nuova finanza di matrice anglosassone, ha indotto con diverse argomentazioni e attraverso diversi filoni a razionare l’uso del capitale di rischio. Per alcuni studiosi (per esempio Jensen) l’uso consistente di debito è l’unico modo per “disciplinare” i manager delle aziende ad azionariato diffuso, i quali altrimenti si sentono liberi di investire a piacimento, senza tenere conto del rendimento atteso dei vari progetti. Per altri (come la scuola della massimizzazione del valore per gli azionisti) l’uso congruo del debito è condizione sine qua non per migliorare il rendimento per gli azionisti, tenendo anche conto dell’esistenza di uno scudo fiscale sull’impiego del debito. Nella prassi, poi, molti interventi di private equity si strutturano nella forma di Leverage Buy Out proprio sulla base delle idee suddette. Questi principi di finanza, a dire il vero, sono sempre soggetti alla parallela valutazione del maggior rischio che incombe sulla gestione allorché si utilizza in misura consistente debito anziché capitale di rischio. Ma nei periodi di domanda esuberante questo maggiore rischio è sistematicamente dimenticato. Il problema torna di attualità quando si entra in periodi di stagnazione o recessione generale o settoriale. Allora il rischio di un uso eccessivo di debito torna a galla.

Proprio per il fenomeno della crisi a spirale di cui si è detto, l’impresa che può contare su un forte patrimonio e un basso indebitamento è in grado di attraversare i momenti di difficoltà più facilmente. Se anche dovesse registrare qualche perdita, può continuare a investire senza per questo incorrere nel rischio di vedersi ritirare i fidi o declassare il rating. Anzi, grazie alla sua forza patrimoniale, può approfittare del momento per sferrare un attacco, sia agendo sui prezzi sia con altre forme, per conquistare quote di mercato e mettere in crisi i concorrenti finanziariamente più deboli. Senza poi tenere conto che è nelle migliori condizioni per acquisirli, se del caso.

L’esperienza del 2002 dimostra che alcune vecchie regole sono sempre valide: l’uso intelligente del debito fa parte della buona gestione, ma quando i tempi volgono al peggio è meglio rafforzare i mezzi propri. Alcune imprese che, consapevolmente o inconsapevolmente, erano riuscite a raccogliere fondi sul mercato azionario poco prima del suo tracollo sono riuscite ad attraversare l’anno difficile, pur essendo meno forti sul piano industriale di altre che sono invece cadute sotto il peso sia della crisi di mercato sia del debito.

Le condizioni psicologiche per gestire le imprese nei periodi di crisi

 Una conoscenza dei meccanismi che regolano l’equilibrio dinamico delle imprese è condizione essenziale per guidarle nei periodi difficili. Ma non basta. Come è già apparso a più riprese, c’è un problema cognitivo, ma c’è anche una questione più profonda: per gestire le fasi difficili sono necessarie non solo conoscenze, ma anche particolari disposizioni psicologiche e caratteriali.

Occorre, anzitutto, una buona capacità di prospettiva: solo anticipando le difficoltà si possono predisporre le azioni per evitarle o contrastarle. Chi è ottimista acritico cade nei problemi senza avere avuto il tempo per prevenirli o affrontarli adeguatamente.

In secondo luogo occorre una forte dose di determinazione, perché le azioni da intraprendere sono quasi tutte poco gloriose, e molte sono impopolari. Condizione necessaria per trovare la forza per assumere decisioni siffatte è la convinzione che l’interesse dell’impresa debba essere anteposto agli interessi particolari dei suoi stakeholders.