E&M

2003/1

Gianni Canova Severino Salvemini

 Capitani coraggiosi

Due modelli di leadership a confronto (e in conflitto) in un film americano che racconta – dal punto di vista dei russi – un episodio reale (e misconosciuto) della guerra fredda nei primi anni sessanta.

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K-19

Regia Kathryn Bigelow

Interpreti Harrison Ford, Liam Neeson

USA, 2002

1961. In piena guerra fredda, l’Unione Sovietica si appresta a varare il suo primo sommergibile nucleare. Il progetto è top secret, ma le indiscrezioni che trapelano parlano del K-19 come di un monumento all’inefficienza e alla retorica del regime: la tecnologia pare ambiziosa ma imperfetta e l’infinita serie di problemi che affliggono il sottomarino quando ancora si trova nei cantieri navali russi gli attira, da parte dell’equipaggio, l’eloquente soprannome di “fabbricante di vedove”. Nel tentativo di porre rimedio alla situazione, gli alti comandi della marina militare sovietica nominano un nuovo comandante, che dovrà guidare il sommergibile verso gli ultimi test nel Pacifico. Ma la retrocessione del comandante storico, ridotto al rango di secondo, provoca malumore e inquietudine nell’equipaggio e fa crescere la tensione a bordo. In mezzo all’oceano, poi, scoppia il disastro: un guasto al reattore nucleare trasforma il K-19 in una bomba a tempo che rischia di provocare un’esplosione atomica e di spingere le due superpotenze antagoniste verso un punto di non ritorno. Il destino del mondo, insomma, è nelle mani dell’equipaggio esausto e dei due ufficiali, che devono mettere da parte le rivalità personali per far fronte in poco tempo a circostanze terribili dagli esiti potenzialmente catastrofici.

Diretto con mano ruvida e robusta dalla regista Kathryn Bigelow (Point Break, Strange Days) e ispirato a un episodio realmente accaduto agli inizi degli anni sessanta, K-19 narra di “uomini sul fondo” e di “capitani coraggiosi”, di pressioni psicologiche e di lotte contro il tempo, in un intreccio che va oltre i canoni consolidati del film di guerra sottomarina nello stile di Caccia a Ottobre Rosso per tracciare una sorta di dramma delle coscienze. Il tono è spesso enfatico e ridondante, le pose sono quasi sempre marziali e la retorica imperante fa pensare a una sorta di parabola zdanovista (anche se in versione a stelle-e-strisce) sul tema degli “eroi del popolo”. E tuttavia, nonostante i suoi evidenti limiti formali, il film della Bigelow offre più di uno spunto per ripensare ai modi di esercizio della leadership oltre che a temi di grande interesse organizzativo quali il funzionamento della squadra e il rapporto fra decisioni top-down e decisioni bottom-up. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Mi sembra che il film illustri con evidenza quasi cristallina le diverse categorie etiche del lavoro. È quasi un manifesto programmatico delle varie motivazioni individuali e collettive che generano e fondano l’esistenza stessa di un’organizzazione.

S.S. Certo. Nel film di Kathryn Bigelow c’è l’etica del dovere e c’è l’etica della fedeltà, c’è il senso di responsabilità e c’è quello di solidarietà. E tuttavia tutto ciò si esprime in un contesto che mette a fuoco soprattutto il tema della squadra: i membri dell’equipaggio del K-19 rivestono ruoli complementari e devono a ogni costo saper essere cooperativi in termini di efficienza performativa e prestazionale, oltre che concorrenziali rispetto all’esterno. Sono costretti ad agire in uno spazio ristretto (i cunicoli soffocanti del sommergibile) e sotto la pressione del tempo (devono riuscire a compiere determinate azioni entro un certo tempo limite): sono le condizioni canoniche per collaudare, in qualsiasi tipo di organizzazione, la tenuta e la capacità operativa di un team.

G.C. Lo si vede molto bene quando il film narrativizza la necessità di entrare nel reparto contaminato del sommergibile per tentare di riparare il guasto: prima si fa appello al senso del dovere, poi i vari membri dell’equipaggio che si offrono come volontari per questa “missione” ad alto rischio agiscono spinti dal senso di responsabilità e dalla solidarietà verso i compagni, oltre che da una sorta di spirito di corpo che li induce a imitare uno dopo l’altro il comportamento di abnegazione di chi li ha preceduti nella decisione di avvicinarsi al reattore in avaria. Mi chiedo quanto ciò sia determinato da motivazioni “ideologiche” storicamente determinate e quanto invece sia imputabile a una sorta di orgoglio dell’organizzazione in quanto tale. Cioè a una totale identificazione dei singoli membri con l’organizzazione di cui fanno parte…

S.S. Direi che nel film ci sono entrambe le componenti. Da un lato, K-19 racconta un episodio specifico della guerra fredda, in un contesto profondamente segnato da motivazioni ideologiche. Dall’altro, però, mostra anche come i membri della squadra – per spirito di corpo, per orgoglio collettivo, per necessità di sopravvivenza – a un certo punto decidano di supplire con il loro sacrificio alle inefficienze del regime e della macrorganizzazione militare da cui dipendono. Capiscono che il valore della loro azione sta nella reputazione che ne ricavano presso l’esterno, di fronte alla comunità internazionale, più che agli occhi dei dirigenti moscoviti. Da questo punto di vista, il film mette all’opera – come in una sorta di apologo ad alto valore metaforico – una squadra perfetta: un esempio emblematico di qualità totale.

G.C. Tutto ciò si intreccia continuamente con una riflessione ad ampio raggio sul tema della leadership. Il vero nodo drammaturgico del film, in fondo, è il conflitto fra i due leader, impersonati rispettivamente da Liam Neeson e Harrison Ford: uno è il leader naturale, l’altro è il leader gerarchico; il primo è il leader retrocesso, il secondo è il leader usurpatore imposto dall’esterno e arrivato da fuori…

S.S. Non solo: nel gergo organizzativo, il personaggio di Liam Neeson è un “leader caldo”, mentre quello di Harrison Ford è un “leader freddo”. Il primo agisce cercando il coinvolgimento anche emotivo e sentimentale dei suoi collaboratori, il secondo invece è più razionale, esamina le situazioni in modo distaccato. Il “vecchio” Harrison Ford è un decisionista, il “giovane” Neeson vorrebbe invece fare in modo che le decisioni non appaiano imposte con il comando ma sembrino suggerite dal basso e dalla determinazione collettiva della squadra. Anche in questo caso, il film illustra una situazione quasi da manuale, pur con tutte le semplificazioni imposte dalle esigenze drammaturgiche e narrative: c’è la scena in cui il consenso al comando nasce dal basso (quando i vari reparti esprimono il loro accordo con il piano d’emergenza), ma c’è anche quella che illustra il rispetto della gerarchia, pur nel dissenso o nella palese contrarietà (la scena dell’ammutinamento mancato).

G.C. Anche in questo caso mi chiedo quanto questo modello di funzionamento organizzativo sia tipico di un contesto militare gerarchico come quello messo in scena nel film e quanto invece sia utilizzabile – sia pure in chiave metaforica – anche per l’analisi di organizzazioni di altro tipo…

S.S. Io trovo che sia interessante soprattutto il modo in cui il film mette in scena il conflitto fra i due diversi modelli di leadership ricorrendo non tanto ai dialoghi – spesso troppo retorici o ideologici per avere un qualche valore anche fuori da quel contesto – ma al linguaggio gestuale, mimico e non verbale. Penso, per esempio, a quando i vari membri dell’equipaggio si avvicinano al leader detronizzato, gli comunicano senza parole la loro fedeltà, gli fanno sentire che lo ritengono il loro leader naturale, ma allo stesso tempo gli dicono anche – con gli sguardi, con i gesti – che sanno di dover accettare il nuovo leader gerarchico, anche se non è competente. È una situazione che si verifica spesso anche a livello aziendale: arriva il bocconiano teorico, astratto, senza esperienza aziendale, e pretende di imporre il suo metodo, la sua visione. I veterani dell’azienda, in genere, lo accettano a denti stretti: lavorano e ubbidiscono, ma aspettano il momento in cui cadrà in ginocchio a chiedere la loro solidarietà. Ed è un momento che quasi sempre arriva, prima o poi. Ecco: mi sembra che K-19 illustri alla perfezione soprattutto questo meccanismo.