E&M

2002/6

Gianni Canova Severino Salvemini

La rimozione delle devianze e la profilassi delle eccezioni

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Minority Report

Regia di Steven Spielberg

Interpreti: Tom Cruise, Colin FarrellUSA, 2002

Per capire il presente, a volte conviene provare a immaginare il futuro. Il nuovo film di Steven Spielberg lo fa: ispirandosi a un bel racconto dello scrittore Philip K. Dick, Minority Report prospetta allo spettatore un mondo che, pur lontano dalla realtà attuale, prefigura alcuni sviluppi possibili, non così estranei alla nostra esperienza concreta. razione si svolge a Washington D.C. nel 2054. Da sei anni la criminalità urbana è stata del tutto cancellata grazie all’ attività di uno speciale corpo di polizia, la Pre-Crimine, capitanata dal detective John Anderton (Tom Cruise). Questi, seguendo le indicazioni dei Pre-Cognitivi – tre veggenti immersi in una vasca e collegati a sensori che registrano le loro visioni su monitor speciali – riesce a catturare e arrestare tutti i “potenziali” criminali prima che compiano un delitto. Ma pochi giorni prima che la popolazione venga chiamata alle urne per decidere, per mezzo di un referendum, se adottare le tecniche della Pre-Crimine a livello nazionale (e, quindi, se fare della preveggenza un metodo di governo), un ispettore del Dipartimento di Giustizia, Danny Witwer (Colin Farrell), apre un’indagine per verificare l’integrità di un sistema apparentemente infallibile. Intanto, Anderton scopre che i Pre-Cognitivi lo hanno indicato come prossimo artefice di un omicidio che egli non ha alcuna intenzione di commettere. Da leader di un’organizzazione che garantisce il funzionamento del sistema. Anderton si trova così trasformato in un pericoloso criminale a cui la sua stessa organizzazione è tenuta a dare la caccia, ed è costretto a fuggire nei bassifondi della città per sottrarsi ai controlli di un mondo totalitario in cui ogni sua mossa possibile è registrata da un Grande Fratello cibernetico che arriva ovunque e che tutto vede. Severino Salvemini e Gianni Canova discutono del modello organizzativo che sottende questo tipo di mondo e sull’eventuale rapporto che esso intrattiene con la realtà tecnologica e produttiva attuale.

G.C. La cosa che trovo interessante del nuovo film di Steven Spielberg è il tentativo di prospettare nuovi scenari tecnologici, ipotizzando le conseguenze che questi possono produrre sui comportamenti e sulle organizzazioni sociali. Mi colpisce molto, e un po’ anche mi inquieta, questa idea di un futuro ossessionato dalla preoccupazione di eliminare a priori ogni fattore di rischio e di incertezza.

S.S. Non c’è dubbio. Da Minority Report emerge un’idea di organizzazione sociale in cui le varianze decisionali tendono a essere ridotte a zero. La parola d’ordine sembra essere quella di eliminare le eccezioni: formalizzare i comportamenti e prevedere le devianze in modo da azzerare gli elementi di rischio. È il vecchio sogno di un’organizzazione che sappia prevedere tutto a priori, che sia capace di risolvere i problemi prima ancora che questi si manifestino. La metafora che meglio esprime questo tipo di organizzazione è quella dell’orologio: vado a vedere dove ci sono frizioni e cerco di eliminarle perché tutte le rotelle si incastrino e il meccanismo funzioni alla perfezione. Dimenticando che le frizioni, gli attriti e gli imprevisti sono il sale non solo della vita ma spesso anche di un’organizzazione, e che proprio da un attrito o da un’ eventualità non predetta possono scaturire opportunità di miglioramento e di soddisfazione.

G.C. Minority Report prospetta invece un futuro codificato in partenza, tendenzialmente privato di ogni possibile dinamismo. È come se l’organizzazione di quel mondo fosse pensata in modo da sondare preventivamente ciò che le persone vogliono o si aspettano, per poi soddisfare ogni loro esigenza e formalizzare quindi una realtà magari anche appagante ma di fatto bloccata e avvitata su se stessa.

S.S. Non mi sembra, peraltro, un quadro solo futuristico o fantascientifico; ci sono tracce e indizi di modelli che vanno in questa direzione già nella nostra realtà attuale. Penso, per esempio, a come sta cambiando il nostro rapporto con le macchine. Nella situazione tipica della società industriale, la macchina e l’automazione erano in grado di svolgere operazioni elementari fortemente standardizzate; ora invece – nella società postindustriale – tendono ad affrontare sempre più frequentemente anche le devianze, le incertezze, gli elementi di ambiguità. Siamo già ora di fronte a macchine che cercano di capire i problemi (la cosiddetta intelligenza artificiale). Spielberg è solo un passo più in là: nel suo film i problemi sono già eliminati dalle macchine.

G.C. Un altro elemento di indubbio interesse, almeno dal punto di vista del management, mi sembra la parabola percorsa dal personaggio interpretato da Tom Cruise: da responsabile del funzionamento di una struttura che deve garantire la tenuta di un modello organizzativo, si trova a essere individuato come l’elemento che più ostacola l’efficienza e la credibilità della struttura stessa. Da leader a corpo estraneo da rimuovere, insomma, secondo un destino o una sorte che non sono poi così rari anche nell’ organizzazione o nella storia di certe aziende reali ...

S.S. In parte è vero. Quando diventi l’uomo simbolo di una certa struttura, o il suo garante presso l’esterno, il rischio che chi ti sta sopra provi a metterti in difficoltà per cercare di farti fuori e sostituirti con una dirigenza meno scomoda e meno autorevole è un rischio possibile. Nel film, però, tutto ciò assume un coloritura un po’ troppo – come dire – orwelliana, come se ci fosse un grande burattinaio che vede, prevede, manovra e provvede. Sul piano del funzionamento delle dinamiche relazionali all’interno delle organizzazioni mi aspettavo piuttosto che i collaboratori del personaggio di Cruise a un certo punto si schierassero con lui, o che venissero allo scoperto per tentare di proteggerlo. Invece no: lo lasciano solo, lo abbandonano al suo destino, continuano a svolgere le loro mansioni come se nulla fosse. È un’anomalia, ma credo sia dovuta – in questo caso – alla retorica dell’uno contro tutti tanto cara (e funzionale) al cinema hollywoodiano.

G.C. Anche la strategia del product placement che impregna il film è coerente con lo scenario complessivo. Minority Report non solo è un film zeppo di marche come mai prima si era visto al cinema, ma anche nel rapporto fra merci e consumatori che si delinea nel corso della vicenda sembra che il sistema tenda ad azzerare ogni elemento di rischio e di incertezza.

S.S. È un’esasperazione un po’ parossistica ma non del tutto arbitraria di certe tendenze del cosiddetto emotional malrketing. Nel passaggio dal consumatore-massa al consumatore-individuo, alcuni fatti che si vedono nel film sono perfettamente nell’ordine delle cose. Penso, per esempio, alla scena in cui il protagonista entra in un centro commerciale e viene subito scannerizzato e riconosciuto dalle commesse, che lo chiamano per nome e mostrano di ricordare perfettamente i suoi ultimi acquisti: è un esempio perfetto di come certo marketing intende la “personalizzazione” del rapporto con il consumatore. Che si dice va conosciuto a fondo, coccolato, blandito. Va sondato nei suoi gusti e nelle sue predilezioni. Questo mi sembra l’aspetto meno futuristico e più attuale di Minority Report: la perfetta illustrazione di un marketing che non è più staccato dalla vita del consumatore, ma ne è parte integrante, tanto che si insinua nelle sue emozioni, e impregna di sé le atmosfere, il layout e la logistica degli ambienti in cui si svolge la vita quotidiana del possibile cliente. Anche in questo caso, tuttavia, il rischio è pensare di poter rimuovere a priori il dinamismo dell’acquisto e la sua imprevedibilità, nella tentazione di ottimizzare la pianificazione continuando a offrire al cliente ciò che già una volta l’ha soddisfatto e appagato.