E&M

2002/4

Svetonio racconta che l’imperatore Augusto, comandante saggio e prudente, scelse come stemma un delfi no intrecciato a un’ancora. Il disegno illustrava alla perfezione il suo celebre motto: “Festina lente” (affrettati lentamente). Aldo Manuzio, il più intelligente e moderno editore del Rinascimento, adottò il medesimo logo. Peccato che gli inventori di Internet avessero più familiarità con l’inglese che con il latino. La fretta sa concedersi una pausa: per questo è diversa dalla velocità, incapace di arrestarsi. Per convincersi della differenza basta corteggiare una ragazza: troppe esitazioni rischiano di metterti fuori gioco mentre una risposta veloce e non meditata ti garantisce l’accesso a un eterno martirio. Lo sport, dinamico e plastico per natura, trova la sua bellezza nella tensione tra fretta e lentezza. Qualcuno penserà alla ginnastica artistica, al nuoto sincronico, ai tanti gesti dell’atletica. Ma tutto lo sport, come la musica, è fatto di accelerazioni e di attese, di pause e di riprese. Insegna a gustare la vittoria che arriva quasi a tempo scaduto, quando si scavalca la squadra antagonista sfoderando la sorpresa dell’ultimo minuto. Proprio per questo il mondo sportivo rifiuta ogni tipo di overdose. Vive il doping come carenza di misura. Umberto Agnelli si domandava, un giorno, perché tutti gli italiani non juventini odiassero la Juventus. Semplicissimo: per la sua congenita ambizione a stravincere.

Anche l’impresa, a fatica, si adegua. Per esempio, comincia ad accorgersi che il cliente vive male un’overdose di servizio. Quando entro in un negozio e mi asfissiano con un’assistenza ossessiva, esco innervosito, senza comprare. Mi tolgono il gusto di curiosare e di cambiare idea. Parafrasando lo slogan delle femministe, i miei gusti me li gestisco io.

C’è voluto un secolo di sport per ché l’impresa mutuasse dall’agonismo il benchmarking, figlio del fascino di una vittoria sul filo di lana, al fotofinish. Da un’eternità il golf e l’ippica conoscono l’onestà e il brivido della partenza a handicap. Non sentono il bisogno di ricorrere all’antitrust.

Uno dei campioni più noti al mondo è stato Sergey Bubka. Prati cava un genere di sport che quasi nessuno di noi ha mai tentato: il salto con l’a sta. Ma Bubka ce lo ricordiamo perché in dieci anni ha battuto il record del mondo per diciassette volte. Cominciò a Bratislava, il 26 maggio 1984, saltando 5,85. Ogni volta che partecipava a un mondiale, a una olimpiade, puntualmente Sergey registrava un nuovo record, garantendo risonanza all’atletica e prestigio alla sua immagine personale. L’ultimo lo realizzò il 31 luglio 1994 al Sestrière, con l’asticella posta a 6,14, misura mai più superata. Per diventare famoso come un grande calciatore scelse una strada inedita. All’inizio, quando un concorrente rischiava di superarlo, alzava l’asticella fin dove era necessario, battendo il suo precedente record anche di sei centimetri. Ma quando rimase da solo a scalare il cielo, decise di non sorprendere il mondo con un salto epocale, quel 6,22 che, nel momento di maggior fulgore atletico, era alla sua portata. Lo avesse fat-to, più nessuno avrebbe parlato di lui. Continuò ad alzare l’asticella di un solo centimetro. Preferiva un ritmo di crescita costante e rinunciava all’esplosione di un solo giorno.

Realizzò 17 record ma chissà quando vedremo quel 6,22 che, per alcuni mesi soltanto, le sue braccia potevano regalarci. È lui il campione degli incrementalisti, è lui il santo patrono del benchmarking. È diventato un mito, un centimetro alla volta.