E&M

2002/3

Claudio Dematté

Quando i business crescono per clonazione

Scarica articolo in PDF

Nelle attività dedite alla produzione di beni fisici o anche di beni immateriali ma incorporati su supporti fisici – come i libri, i dischi, i DVD – la dimensione massima producibile economicamente in un singolo stabilimento viene dettata dalla trasportabilità del prodotto (per esempio, a causa della sua deperibilità) e dal rapporto fra incidenza dei costi di trasporto e le economie derivanti dalla produzione su larga scala. Per la maggior parte di queste attività ci sono, in genere, ampie possibilità di crescita senza dovere aprire altre unità produttive altrove. Anzi, l’espansione della produzione nello stesso stabilimento è sovente una condizione importante per aumentare l’efficienza e ridurre i costi. Ci sono, invece, altre attività che strutturalmente devono svolgersi in prossimità o perfino in presenza del cliente, come nella maggior parte delle attività di servizio, dove la produzione e il consumo sono contestuali. Quando ciò si verifica, il raggio d’azione dell’impresa che le esercita da una singola postazione è geograficamente delimitato dal tempo/costo che il consumatore è disposto a dedicare per accedere a quel luogo. Tale raggio d’azione può essere più o meno ampio, secondo il tipo di attività, e può anche variare nel tempo, per l’evoluzione dei mezzi di trasporto o per altre ragioni, come testimonia l’avvento dei super e degli ipermercati, che hanno un’area gravitazionale di gran lunga maggiore rispetto ai piccoli negozi. Un’attività soggetta a questa legge è quella della distribuzione tradizionale che, esplicandosi nella consegna del prodotto al consumatore, richiede la presenza di quest’ultimo nel luogo in cui si esercita la distribuzione. Ma anche altre attività rientrano in questa categoria soggetta a vincoli alle loro possibilità di crescita con una sola unità produttiva: i ristoranti, i bar, gli alberghi, le lavanderie, i fornai, i centri servizi, quali i laboratori fotografici, i centri diagnostici e altri ancora.

Quando un’attività è soggetta a questo tipo di restrizioni si aprono due possibilità:

1. che essa venga svolta da una moltitudine di imprenditori indipendenti, ognuno dei quali operante in ambiti geografici diversi;

2. che venga realizzata da imprese che si espandono con l’apertura di nuove unità operative distribuite nello spazio, con un processo che si potrebbe definire di clonazione.

In questo secondo caso si hanno imprese-rete, costituite da più nuclei operativi sparsi nel territorio. Si pensi alle catene di ristoranti, di alberghi, di distributori di benzina, alle imprese della grande distribuzione, alle banche retail con le loro reti di filiali, alle varie catene di negozi specializzati o alle imprese che esplicano la loro attività attraverso una rete di centri di servizio sparsi sul territorio (come mail box). In alcuni paesi, fra i quali l’Italia, è finora prevalso il primo modello, quello costituito da una moltitudine di operatori indipendenti. In altri, come nel Nord Europa, in Francia o negli USA ha trovato una maggiore diffusione il secondo, quello delle catene. Di fronte alla diversa diffusione di questi due modelli si aprono alcuni interrogativi:

1. perché in un paese prevale il primo modello e in un altro il secondo? Ci sono motivi per ritenere che un modello sia più efficiente dell’altro e, se la risposta è positiva, a quali condizioni quello più efficiente prende il sopravvento?

2. Lo sviluppo e la gestione di un’impresa che per svilupparsi deve procedere alla moltiplicazione delle basi operative solleva problemi di management particolari, oppure il governo è sostanzialmente simile a quello delle altre imprese?

Perché e quando le catene prevalgono sugli operatori indipendenti

Abbiamo rilevato che in certi paesi molte delle attività che per svilupparsi richiedono più basi operative distribuite nello spazio vengono svolte da imprese che si espandono aprendo più unità. In altri, invece, lo stesso tipo di attività viene realizzato in prevalenza attraverso una molteplicità di operatori indipendenti. Perché questa differenza? Quali sono i fattori che fanno propendere in una direzione o nell’altra? Ci sono vantaggi economici nell’assumere una forma o l’altra?

In teoria, ragionando sulla catena del valore che caratterizza le attività in questione, il loro svolgimento su larga scala – attraverso più unità operative – dovrebbe consentire alcuni vantaggi rispetto alla gestione di piccola impresa monocellulare: economie sui costi (per esempio, quello degli acquisti); vantaggi in termini di impatto comunicativo, con riflesso sull’incidenza dei costi di comunicazione, oppure sui ricavi ottenibili a parità di costi; benefici nella gestione delle scorte; contenimento dell’incidenza delle spese generali. Questi vantaggi potranno essere maggiori o minori, ma secondo logica si dovrebbero materializzare in quasi tutte le attività. Si pensi alla distribuzione, dove la quota preponderante dei costi è quella degli acquisti e i margini sono strutturalmente limitati. Se la possibilità di riduzioni nel costo degli acquisti c’è ed è significativa – fatto accertato (si parla della possibilità di ridurre di un 1% circa ogni volta che raddoppia il volume degli acquisti) – il miglioramento rispetto al margine è tale da fare presumere che vi sia una deriva inesorabile verso la rarefazione dei singoli distributori indipendenti e l’affermazione di distributori multiunità.

Così è effettivamente accaduto in molti paesi. Perché in altri non si è ancora verificato? È un problema di ritardo, legato allo stadio di sviluppo, o vi sono ragioni più profonde, tanto da dovere presumere che il modello dell’impresa a forma di catena in certe realtà non abbia possibilità di attecchire per mancanza di humus idoneo? Come si può facilmente intuire, la risposta al quesito è determinante sia per i policy makers sia per coloro che vogliono avventurarsi in strategie di sviluppo di imprese-catene.

Le ragioni per le quali quest’ultimo tipo di imprese può faticare a svilupparsi possono essere diverse. In parte ricalcano quelle più generali che spiegano come in certe realtà siano più diffuse le piccole imprese rispetto a quelle grandi anche nell’attività manifatturiera, dove pure le economie di scala sono dimostrate da tempo e sovente sono anche più marcate. In parte sono diverse e specifiche a questa tipologia di attività.

In alcuni casi le imprese multicellulari non si sviluppano semplicemente perché – a dispetto della teoria – non danno luogo ad alcuna riduzione di costi. Questo può accadere per tre ragioni. Perché in certi settori la possibilità di ridurre i costi proprio non c’è. Oppure perché questa possibilità ci sarebbe, ma per coglierla occorre svolgere l’attività in modo diverso, riprogettare la catena del valore e disporre di un know-how per gestire diversamente le diverse fasi e le diverse componenti del processo produttivo. Infine, la riduzione dei costi può non materializzarsi semplicemente perché alla riduzione di certi costi si associa un aumento più che proporzionale di altri, rispetto alla gestione su piccola scala di una unità singola. In quest’ultimo caso, l’aumento di altri costi non appena l’esercizio della singola unità produttiva passa dal singolo imprenditore indipendente alla catena è conseguenza del sopravvenire di alcuni costi evitati o ridotti nel modello di impresa monocellulare, come quelli fiscali o quelli del costo del lavoro regolare; in altri casi è la conseguenza del cambiamento di status dell’esercente da imprenditore a dipendente. Alcune forme di “catena”, come i franchising o i partenariati, sono strutturate appositamente in quella forma per cogliere i potenziali benefici della grande dimensione, senza perdere i vantaggi della gestione imprenditoriale sulle singole unità territoriali.

Anche là dove le imprese multicellulari sono in grado di produrre valore per i clienti nella forma di minori costi non è detto che riescano a soppiantare le imprese monocellulari per il forte valore di differenziazione che queste ultime possono essere in grado di produrre. Questo elemento è più o meno apprezzato secondo la cultura, i gusti e le abitudini del luogo. A titolo di esempio, là dove la buona cucina è considerata un valore importante ed è apprezzata per la sua originalità e varietà, il plus che singoli ristoranti, ognuno con il proprio menu, la propria impostazione, il proprio chef, il proprio differenziato modello di servizio possono offrire può essere valutato di gran lunga di più del vantaggio di costo che una catena è in grado di offrire. Da quanto detto si evince che la mera esistenza teorica di un potenziale di maggiore efficienza nell’adozione di una forma di impresa pluricellulare non si traduce affatto nella scomparsa delle imprese monocellulari. Le preferenze e le abitudini costituiscono una barriera a difesa di queste ultime, così come certe condizioni istituzionali, quali la possibilità maggiore o minore di evadere le imposte o di disapplicare le norme sul lavoro in funzione della dimensione di impresa. Lo stesso assetto normativo per quanto riguarda le licenze, così come le leggi sulla tutela degli avviamenti e quelle sugli affitti possono costituire una protezione della piccola impresa monocellulare e una barriera per lo sviluppo delle imprese costituite nella forma di catene. Come si è accennato, esiste tuttavia un altro, forse più importante, ostacolo allo sviluppo di quest’ultimo tipo di operatori, quello della capacità progettuale e gestionale: per cogliere i benefici della maggiore dimensione e non perdere tutti i vantaggi della singola unità produttiva gestita con lo spirito e la determinazione propria dell’imprenditore occorre una capacità progettuale e gestionale che in alcuni paesi non ha ancora avuto modo di svilupparsi.

La maggiore o minore diffusione delle imprese a forma di catena è dunque il portato di una serie di fattori. Con riferimento al nostro paese, la ancora limitata presenza di imprese multicellulari è certamente il riflesso dell’assetto fiscale, della normativa sul lavoro, della diversa capacità di enforcement delle norme relative all’uno e all’altro campo nei riguardi delle piccole imprese rispetto alle grandi, del sistema di amministrazione delle licenze e degli avviamenti, della preferenza dei consumatori italiani verso prodotti differenziati. Ma la mia tesi è che la minore diffusione di catene è anche la conseguenza di un ritardo nello sviluppo del know-how specifico necessario per cogliere i vantaggi della strutturazione dell’impresa a rete pluricellulare, minimizzando la perdita dei vantaggi che derivano dalla gestione imprenditoriale delle singole cellule.

La tesi, per la verità, è più forte: è che alcuni fattori che finora avevano frenato lo sviluppo delle catene stiano progressivamente venendo meno; che di conseguenza si stiano aprendo spazi di crescita sui quali operare, a vantaggio degli operatori in grado di cavalcare le nuove possibilità, ma anche con beneficio per l’efficienza complessiva del sistema economico. Nel settore della distribuzione di massa ciò si è già verificato, e in tempi che hanno superato anche le previsioni più ottimistiche. Il fatto nuovo è che quest’onda sta ora toccando altri settori della distribuzione, ma anche il settore dei servizi, dei ristoranti, degli alberghi, degli ottici che, com’è noto, sono molto più che semplici punti di vendita, realizzando essi anche un importante nucleo di servizi, dalla misurazione della vista all’adattamento delle montature, al montaggio delle lenti. Le ragioni per le quali siamo entrati in una stagione diversa, più favorevole allo sviluppo delle catene, stanno sia nell’attenuazione delle differenze nel carico fiscale e nel costo del lavoro fra le due tipologie di imprese, sia nella modernizzazione e relativa liberalizzazione delle normative sulle licenze, sia nella volontà di un numero crescente di imprese di rafforzare la differenziazione della loro offerta scendendo a valle nella distribuzione diretta, sia, infine, nelle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie dell’ITC (con l’arrivo di Internet a banda sempre più larga e server sempre più potenti) per la gestione di reti di unità disperse sul territorio.

Sostenere che si è creato un ambiente più favorevole non significa affatto dare per scontato che il fenomeno si propagherà in tutti i settori né che lo farà con la stessa intensità o con le stesse formule sperimentate in altri contesti. Oltretutto, anche se esiste la possibilità di trarre vantaggi dalla gestione su larga scala in alcune funzioni delle attività in questione, occorre tenere presente che non c’è solo il modello dell’impresa pluricellulare per cogliere questi benefici. Si possono ottenere anche con altre forme organizzative, come la centrale di acquisto comune o strutture consortili di servizio che preservano l’autonomia dei singoli operatori indipendenti. Ma rimane il punto di fondo: si è aperto uno spazio per l’esercizio di un’imprenditorialità nuova che, a dispetto delle prime apparenze, richiede professionalità perfino più sofisticate di quelle necessarie per gestire imprese manifatturiere.

Lo sviluppo e la gestione dell’impresa pluricellulare

Se è vero che stanno aprendosi interessanti possibilità di sviluppo per le imprese che vogliano giocare sulle inefficienze insite nei sistemi di produzione frammentata che ancora caratterizzano buona parte della distribuzione non grocery e delle attività di servizio, è necessario comprendere la logica con la quale occorre affrontare queste attività per ridurre il rischio di errori.

Il primo passo è sicuramente quello di accertare – concretamente e con riferimento alla specifica attività sulla quale s’è puntata l’attenzione – se vi siano fasi o componenti di detta attività sulle quali si possono ottenere economie di dimensione. Per fare questo è necessario, ma non sufficiente, scomporre la rete del valore esistente e raccogliere dati sui costi attuali e sulla loro probabile elasticità rispetto ai volumi. Occorre fare qualche cosa di più: bisogna pensare a come ognuna di queste subfunzioni potrebbe essere organizzata se, anziché essere svolta da ogni singola unità produttiva indipendente, venisse progettata in una visione d’assieme per più unità. E a quel punto analizzare la nuova funzione di costo. Per fare un esempio, è tipico di ogni ottico avere un proprio laboratorio per l’adattamento delle montature e per il montaggio delle lenti, come una funzione strumentale alla vendita. È proprio necessario che questa attività venga svolta nei negozi, oppure potrebbe essere accentrata e svolta congiuntamente per più punti vendita? Se si dovesse scegliere questa modalità operativa, è certo che non si potrebbe garantire il servizio nel giro di poche ore, come accade quando il laboratorio è presso ogni singolo negozio. Quale reazione avrebbero i clienti a fronte di un cambiamento nei tempi di risposta alle loro esigenze; se, per esempio, l’occhiale fosse disponibile non dopo un paio d’ore, ma dopo 24 o 48 ore? E quali vantaggi si avrebbero dall’eliminazione dei singoli laboratori decentrati attraverso la costituzione di un unico laboratorio per più punti vendita al quale questi inviassero in tempo reale gli ordini di lavoro, ricevendo il prodotto finito a stretto giro di consegna grazie a un efficiente sistema di logistica? Grazie all’accentramento e alla specializzazione è facile che si possano avere diversi vantaggi: la liberazione di spazi costosi nei punti vendita, da dedicare al potenziamento dell’attività commerciale; l’ottimizzazione nell’impiego dei tecnici, con riduzione dei loro tempi morti e dei picchi di lavoro; l’accentramento dei magazzini per le montature e per le lenti, dovendosi mantenere sul punto vendita soltanto quanto necessario per l’attività dimostrativa al cliente; con l’accentramento dei magazzini, la possibilità di ottimizzare il processo di acquisto e di ridurre le rotture di stock. Quanto pesano questi vantaggi in termini di efficienza e di costo, e come si rapportano alla necessità di ritardare di alcune ore la consegna del prodotto finito?

Analisi di questo tipo consentono di valutare, attività per attività e paese per paese, tenendo conto delle preferenze relative della clientela, se vi siano possibilità di aggiungere valore in una riorganizzazione rispetto al tutto decentrato che è propria del modello a più operatori indipendenti. Questo tipo di analisi va svolta con riferimento a tutte le sottofunzioni di cui si compone un’attività. Nel caso dei fornai, per esempio, l’intera attività viene svolta da ogni singolo imprenditore: gli acquisti, la ricerca di nuovi pani o di altri prodotti che possono essere posti in vendita assieme a quelli di base, la preparazione del pane nelle sue diverse fasi, la predisposizione delle vetrine e di quanto può servire per rendere accogliente il negozio e per indurre il consumatore ad acquisti aggiuntivi rispetto a quelli di base (visual merchanding), l’eventuale azione di “pubblicità” per attrarre nuovi clienti, l’amministrazione. Tra queste attività, ce n’è qualcuna che, se svolta in forma accentrata, possa produrre una riduzione di costi o un incremento di ricavi? E quale impatto potrebbe avere questo tipo di attività sui conti dei singoli operatori indipendenti? Se la risposta è che una riorganizzazione siffatta è in grado di aumentare sensibilmente i loro risultati economici o migliorare le loro condizioni di lavoro e di vita, allora c’è spazio per intervenire. Non necessariamente attraverso l’apertura di una catena multinegozio; può essere una formula di franchising, oppure una forma di partenariato, oppure una struttura consortile. Questo è quanto accaduto in Francia, dove sono ormai presenti diverse reti di fornai con insegna comune e servizi accentrati che sostituiscono parte del lavoro prima svolto da ogni singolo punto vendita. Questa analisi preliminare per scoprire i punti di inefficienza del sistema in essere è cruciale e va compiuta con molto realismo, sapendo che solo là dove vi sono spazi significativi di miglioramento c’è la possibilità di alterare lo status quo con una proposta alternativa. Se il miglioramento è appena marginale e se le abitudini sono radicate, il costo per vincere l’inerzia è in grado di annullare tutti i vantaggi e quindi l’economicità dell’operazione.

Fin qui abbiamo ragionato nella prospettiva di un imprenditore che voglia inserirsi in un’attività già svolta da una molteplicità di operatori indipendenti con una propria proposta che sia più efficiente rispetto all’esistente. In realtà l’obiettivo potrebbe anche non essere quello di cercare una maggiore efficienza, ma semplicemente di impostare una piattaforma differenziata rispetto a quanto esiste, in termini di livello di servizio, di target di consumatori cui si indirizza o anche soltanto per forma e aspetto: fattori, questi, che peraltro concorrono, assieme al servizio, a produrre segmentazione. In alcuni casi la sostituzione di un sistema di operatori indipendenti con una unica rete a gestione accentrata può nascere non tanto dal bisogno di superare le inefficienze di tale sistema, bensì dalla volontà di un produttore di controllare direttamente il rapporto con il cliente finale per ottenere una più forte differenziazione, una maggiore fidelizzazione, un flusso costante di informazioni di ritorno, la possibilità di regolare la qualità del servizio rispetto a standard reputati essenziali per la strategia perseguita. In questo caso i benefici che si prospettano possono non essere semplicemente di costo. Anzi, questi possono essere del tutto secondari rispetto all’obiettivo di un controllo diretto di tutta la filiera per rafforzare il brand nei confronti del cliente finale.

Il problema che si pone è comunque della stessa specie: sostituire una moltitudine di operatori del tutto indipendenti con un insieme di punti operativi coordinati a sistema, in funzione del progetto che si vuole perseguire. Che si voglia costruire una piattaforma di massa più efficiente a beneficio di quanti intendano utilizzarla, che si miri a creare per uso di terzi una rete differenziata per qualità di servizio o per caratterizzazione, che si intenda costruire una rete proprietary per gestire il proprio rapporto con il cliente finale, rimane il fatto che ci si misura rispetto a una realtà costituita di una moltitudine di operatori indipendenti, verosimilmente raggruppati in cluster simili, rispetto ai quali occorre produrre un differenziale, vuoi di costo, vuoi di differenziazione. Questo è il problema di base. In realtà, vi è un’ulteriore fattispecie: quella di chi ha messo a punto un’attività che riscuote successo, che intende espanderla e che per fare ciò è costretto a replicarla in altri luoghi, stante i vincoli spaziali alla sua espansione di cui si è detto all’inizio. Può essere un ristorante che incontra i gusti dei consumatori; può essere una formula di albergo che ha successo per l’insieme degli ingredienti che offre; può essere un tipo di bar (come Starbuck negli USA); può essere un centro di servizi per imprese o per famiglie. Anche in questo caso il problema che si pone è lo stesso: come passare dall’esercizio di un unico nucleo produttivo alla gestione di una molteplicità di unità. Con quale formula ci si espande? Come si organizza il sistema pluricellulare? lasciando che ognuna delle nuove unità operi in totale indipendenza o identificando gli elementi da mettere in comune per sfruttare le economie di dimensione, lasciando alla gestione decentrata i rimanenti?

Da quanto detto, risulta chiaro che quale che sia il motivo in grado di indurre un imprenditore a cimentarsi su questo fronte, per realizzare il suo progetto egli deve intraprendere una serie di attività strettamente interconnesse: avendo presente l’insieme delle funzioni che devono essere realizzate, deve stabilire il posizionamento e il format dell’unità di base, le funzioni da gestire in comune, il modello e la velocità di moltiplicazione, la pianificazione geografica delle unità, il sistema di finanziamento, il modello di controllo e di governo del sistema.

La formula imprenditoriale dell’unità base

In alcuni casi, come già accennato, l’idea di impostare un piano di sviluppo basato sulla “clonazione” scaturisce dal successo di un’iniziativa che non può espandersi se non replicando la sua formula in altri luoghi, per esempio un ristorante, com’è accaduto con il mitico McDonald’s o il nostro Pastarito o Brek. Se l’idea prende le mosse da un business già esistente e di successo, la definizione della formula imprenditoriale dell’unità di base è già nei fatti. In questo caso occorre invece trovare la formula per la sua moltiplicazione nello spazio e quella che consente di estrarre economie di dimensione a mano a mano che le unità gestite si accrescono.

Altre volte l’idea imprenditoriale parte con l’intuizione di un bisogno e di uno spazio di opportunità, ma senza che vi sia già una formula imprenditoriale definita e sperimentata per l’unità di base. In questo caso, il primo passo consiste nel mettere a punto tale formula, secondo i canoni classici della strategia: a quale target di clientela ci si rivolge, con quale value proposition, con quale mix di prodotti o servizi (assortimento), con quale sistema di comunicazione per raggiungere il cliente, con quale processo produttivo e logistico ottenere quanto promesso, con quale modello di costi e ricavi. Nella distribuzione, questo passaggio consiste nella definizione dello store concept. Lo stesso ragionamento vale, però, per qualsiasi altro progetto imprenditoriale, sia esso una catena di ristoranti, una rete di centri di fitness o qualsiasi altra iniziativa. La messa a punto della formula dell’unità base può contare sull’analisi strategica, quale l’identificazione dei bisogni emergenti o insoddisfatti, la mappatura dei concorrenti attuali e potenziali, l’individuazione di inefficienze che possono essere superate con la nuova proposta, di vuoti di offerta rispetto alla domanda. Ma, per quanto affinate siano le analisi, solo la prova sul campo conferma la bontà dell’intuizione. Tale prova, nella maggior parte dei casi, obbliga ad aggiustamenti sicché solo attraverso la sperimentazione si giunge alla vera messa a punto del modello di base.

Il modello per la moltiplicazione delle unità produttive

Una volta messa a punto l’unità di base e accertata la sua validità, è necessario elaborare una strategia per la sua diffusione nello spazio. A dire il vero, la separazione delle due fasi è più concettuale che sequenziale, perché ove si voglia costruire una catena occorre avere ben presente fin dall’inizio quale fase o quale componente della catena del valore debba essere realizzata in seno alle singole unità e quale debba essere accentrata – eventualmente per aree geografiche – per cogliere i vantaggi delle economie di scala che su una funzione o sull’altra certamente ci sono. La stretta connessione fra l’idea imprenditoriale dell’unità di base e la formula per la sua moltiplicazione è ciò che rende difendibile il progetto imprenditoriale.

Mettere a punto il modello per la moltiplicazione comporta una serie di scelte. Anzitutto, occorre decidere se le varie unità debbano essere gestite in proprio o attraverso imprenditori indipendenti, sia pure all’interno di una cornice che ne definisce gli elementi predeterminati e quelli lasciati alla libera iniziativa del gestore, con contratti di franchising o di partenariato. In secondo luogo, occorre stabilire il raggio d’azione minimo e massimo e quindi la densità di tali unità nello spazio. In terzo luogo, occorre scegliere la localizzazione al fine di ottimizzare la capacità gravitazionale delle singole unità. In realtà, le scelte che si devono compiere per mettere a punto un modello di moltiplicazione sono molte altre: si pensi al sistema di amministrazione e controllo, al modello logistico per gestire la movimentazione delle componenti accentrate, ai sistemi per la formazione del personale e per la creazione di una cultura comune e via di seguito. Basti pensare che i soli manuali operativi che regolano il modo in cui le varie funzioni devono essere svolte per mantenere un grado di coerenza della catena possono essere veri e propri volumi, per la quantità delle funzioni da regolare e il livello di dettaglio al quale occorre spingere la progettazione per avere i risultati voluti. McDonald’s insegna, a tale riguardo.

Lo sviluppo per moltiplicazione, quando è interamente gestito in proprio e non nella forma del franchising o del partenariato, tende ad assorbire volumi consistenti di risorse. La velocità con la quale esso viene condotto determina i fabbisogni di cassa: quanto più è accelerato tanto più il sistema tende a entrare in crisi di liquidità. Ragione per cui il modello di moltiplicazione deve contenere una chiara e definita strategia finanziaria per non trovarsi senza risorse prima che il ciclo finanziario volga in positivo. La costruzione di una catena o di una rete pluricellulare è incompleta se non si propone di sfruttare anche le economie di scala nei costi per la comunicazione e la pubblicità. Ma proprio per questo presuppone necessariamente anche un lavoro di brand building senza il quale non si potrebbero ottenere tali vantaggi.

Gli investimenti relativi a questa attività sono purtroppo dei costi fissi, indipendentemente dal fatto che si capitalizzino o si spesino in conto economico. Ma lo stesso impianto delle singole unità operative è un costo fisso che non trova immediata copertura nei ricavi, stante la necessità di mandare a regime ciascuna di esse. Il fatto che vi siano costi fissi in misura spesso non trascurabile comporta che vi sia una fase più o meno lunga sotto break-even. Questo rende ancora più critica la strategia finanziaria perché per un certo periodo non è così chiaro ai finanziatori esterni se il progetto ha la possibilità di avere successo.

Questi cenni non rendono giustizia alla quantità e complessità delle scelte e delle azioni che occorre compiere per avviare e sviluppare una catena. Quanto detto è tuttavia sufficiente per indicare la difficoltà del compito. Il fatto che operazioni di questo genere siano ancora piuttosto rade nel nostro paese aggiunge altri elementi per spiegare quanto all’inizio affermato: per realizzare questi progetti è necessario assemblare competenze multiple, alcune delle quali molto scarse nel nostro paese. Si pensi ai retail manager, che sono quasi introvabili. Se progettazione e costruzione di una catena sono attività quanto mai complesse, altrettanto lo è la successiva gestione. Gestire una catena richiede la ricerca di un continuo equilibrio fra ottimizzazione delle funzioni centrali e attivazione di un’imprenditorialità regolata nelle singole unità. La realtà con la quale ognuna di queste deve misurarsi obbliga a trovare soluzioni che possono mettere in discussione il modello originario, indicando la strada da seguire per rispondere ai cambiamenti che via via si susseguono.