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2014/2

Gianni Canova Severino Salvemini

Il capitale umano. Il codice a barre della vita

Al di là delle polemiche spesso pretestuose, il nuovo film di Paolo Virzì Il capitale umano traccia un quadro fosco della borghesia di una delle zone più ricche e produttive del paese. E invita a interrogarci su come, quando e perché l’accumulo di capitale umano abbia perso ogni collegamento con la crescita sociale ed economica del paese.

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Tipo p aragrafo

Il capitale umano

Regia: Paolo Virzì

Interpreti: Fabrizio Gifuni,

Fabrizio Bentivoglio,

Valeria Bruni Tedeschi

Italia, 2014

 

Partiamo, una volta tanto, dalla locandina del film: sopra una foto “posata” dei protagonisti, disposti scenograficamente quasi a costruire un gruppo “marmoreo”, appare gigantesco un codice a barre. Come interpretarlo?

Il codice a barre – si sa – serve a identificare un prodotto nella sua natura di merce. Velocizza le operazioni di decodifica e memorizza il prezzo. Ricorrendo a questo simbolo grafico fin dalla locandina, il film vuole forse suggerirci che tutti quei personaggi vivono sotto il segno delle merci, e che tutti hanno un prezzo e un valore di scambio? Forse è così. Probabilmente è così. Anche perché pure il titolo del film va nella medesima direzione: nel gergo delle compagnie di assicurazione, Il capitale umano è il valore del risarcimento che va riconosciuto ai familiari di una persona deceduta per un incidente, e va calcolato tenendo presente una serie di variabili che vanno dalla prospettiva di vita alla presunzione del possibile guadagno che il defunto avrebbe potuto accumulare nella sua vita lavorativa, via via fino alla quantità e qualità della rete di relazioni su cui poteva contare.

Tra i personaggi del film, uno solo viene valutato per il suo capitale umano: è il ciclista di mezza età, cameriere di un catering, travolto e ucciso da un SUV in una notte d’inverno, mentre stava tornando a casa dopo una serata di lavoro. Una dida finale ci informa che il valore del suo capitale umano, per la compagnia di assicurazioni, era poco più che 200.000 euro. Non ci viene detto invece qual è Il capitale umano degli altri personaggi del film: quelli ritratti nella locandina, esponenti di una borghesia affarista che il suo capitale umano – quello che l’economista premio Nobel Gary Becker legava indissolubilmente alla crescita sociale ed economica delle comunità – l’ha usato e lo sta usando solo per fini brutalmente speculativi in vista di arricchimenti facili e immediati.

Nel film di Paolo Virzì – tratto dal romanzo di Stephen Amidon, ma con l’azione trasferita dal Connecticut alla Brianza – spiccano due personaggi: l’arricchito (lo speculatore dell’alta finanza che gioca pesante con i soldi degli altri nelle borse di Londra e Wall Street, interpretato da Fabrizio Gifuni) e l’impoverito (l’agente immobiliare strozzato dalla crisi che spera di entrare nelle grazie dello squalo e di poter azzeccare a sua volta una speculazione finanziaria redditizia, interpretato da Fabrizio Bentivoglio). L’uno e l’altro sono privi di valori, cinici e sprezzanti, come del resto il mondo che li circonda: attraverso la vicenda che li vede protagonisti, in quattro capitoli che rievocano ogni volta lo stesso episodio (la notte in cui il ciclista viene investito), ma inquadrandolo dal punto di vista di un personaggio diverso, Virzì tratteggia l’immagine di un paese che sembra sempre più al capezzale, divorato da dentro dai suoi stessi abitanti, vuoti e sostanzialmente privi d’anima. Non si salva nessuno. Tutti fingono di non vedere la corruzione, si voltano dall’altra parte e ne traggono vantaggi. Ma che posizione è indotto ad assumere lo spettatore nei loro confronti?

Ne discutono Gianni Canova e Severino Salvemini.

 

S.S. Bisognerebbe premettere che un ritratto così crudele era forse più coerente con gli anni precedenti l’ultima crisi economica, che ha di fatto riorientato alcuni atteggiamenti dell’alta borghesia. Comunque, il film sottolinea una diffusa volgarità morale e una prepotenza finanziaria: mal riposte aspirazioni di ricchezza, velleità di ascesa sociale, speranze nel grande salto con arricchimenti facili (“… si può fare un +30 o 40% all’anno”).

 

G.C. Non sono del tutto d’accordo. I personaggi di cosa sono veramente colpevoli? Di aver sognato di arricchirsi? Di aver speculato con la finanza? Se anche fossero colpevoli di qualche cosa, l’impressione che ne ricava lo spettatore è che restino comunque “brave persone”. Lo spettatore ne esce rincuorato. Il film non lo chiama in causa. E invece un film così dovrebbe chiamare in causa anche chi lo guarda, e ricordargli le sue (cioè le nostre…) responsabilità…

 

S.S. Non mi sembra che il film sia “assolutorio” come tu dici. Prendi anche solo il personaggio di Dino Ossola, l’immobiliarista con agenzia nella via principale del paese interpretato da Fabrizio Bentivoglio: un ingenuo stolto e credulone, pronto a giocarsi ciò che non ha per entrare in un fondo finanziario gestito dallo speculatore della zona. È un affarista straccione, viscido viscido: un pesce piccolo rispetto al pesce grande Bernaschi. Oppure un aspirante parvenu troppo poco furbo rispetto al grande furbo interpretato da Gifuni. Alzi la mano chi non ha tra le proprie conoscenze un amico che ricorda Dino Ossola…

 

G.C. È vero quel che dici, conosco anch’io qualche tipo alla Ossola. Ma ciò va appunto nella direzione che indicavo prima: per quanto viscido, il personaggio tutto sommato è un bonaccione, uno che ci prova, e non fa male a nessuno. Anche il ricatto finale è fatto per salvarsi, mette in luce la sua umana fragilità. Quando alla donna che sta ricattando, oltre ai soldi, chiede anche un bacio, diventa umanissimo. E tutti i personaggi hanno un momento di umano riscatto: chi con la decisione di ristrutturare il teatro con gesto filantropico, chi con la scelta di un diverso fidanzato e di una relazione basata sul “vero” amore invece che sulla visibilità di uno status...

 

S.S. Non puoi negare però che ci sono un paio di momenti davvero molto critici. Il primo è il colloquio tra Giovanni (Gifuni) e la moglie Carla (Valeria Bruni Tedeschi). Lei gli dice quasi con disprezzo: “Avete scommesso sulla rovina del nostro paese e avete vinto”. E lui giustamente la corregge, come se volesse indicare indirettamente tutti gli spettatori: “Abbiamo vinto, amore. Abbiamo vinto. E ci sei anche tu”. In questo senso, il film ritrae la decadenza della classe dirigente o dell’alta borghesia, sottolineando che essa è stata complice – se non addirittura collusa – col disastro di una nazione.

 

G.C. Se devo essere sincero, questa “scommessa sulla rovina” durante tutto il film non affiora mai. Io almeno non l’ho vista. Viene tirata fuori nel finale, peraltro in modo parecchio didascalico, quasi per offrire una morale di facile comprensione per ogni spettatore. Ma è una morale posticcia. I personaggi hanno scommesso non sulla rovina del paese, ma sul proprio successo personale. E qui sta il problema: il film non riesce a far vedere quel che enuncia. Quel che vorrebbe che si vedesse. In questo senso anche Il capitale umano sconta la cronica incapacità del cinema italiano di rappresentare adeguatamente, nelle sue luci e nelle sue ombre, la borghesia.