E&M

2013/1

Gianni Canova Severino Salvemini

The Way Back. Nel cuore del team

Nel nuovo film di Peter Weir ( The Truman Show, Master & Commander) un gruppo di evasi da un gulag siberiano, in fuga in alcuni dei luoghi più impervi del pianeta, deve costruire un team affiatato che garantisca maggiori possibilità di sopravvivenza. E scopre che ogni team, per funzionare, deve avere un cuore affettivo.

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The Way Back

Regia: Peter Weir

Interpreti: Colin Farrell, Ed Harris, Jim Sturgess

Australia, 2010

Negli anni settanta ha dato inizio alla new wave del cinema australiano con capolavori come Picnic a Hanging Rock e L’ultima onda. Negli anni ottanta ha invitato tutti a guardare le cose da prospettive diverse con un cult movie come L’attimo fuggente. Negli anni novanta ha firmato con The Truman Show il film più lucido e compiuto sulla morte della realtà e sulla sua trasformazione in reality televisivo. Dovrebbero bastare questi “titoli” per considerarlo a tutti gli effetti un maestro e per accogliere ogni sua nuova creazione con gli onori e il rispetto che ai maestri, appunto, sono dovuti. Invece no. Peter Weir torna alla regia sette anni dopo Master & Commander (2003) e il suo nuovo film The Way Back – almeno in Italia – viene fatto passare quasi inosservato. La distribuzione (01, quindi Rai) lo fa uscire con due anni di ritardo, a luglio inoltrato, in pochissime copie digitali, senza nessuna strategia di lancio e di promozione. Come se non ci credesse. Come se volesse sbarazzarsene al più presto. Come se volesse nasconderlo. Perché? La storia è molto “forte”: racconta di un giovane tenente dell’esercito polacco, Janusz, che nel 1939, accusato di spionaggio, viene condannato a venticinque anni di lavori forzati in un gulag siberiano. Qui Janusz incontra, tra gli altri prigionieri, un taciturno ingegnere americano, un attore russo, un criminale di strada, un polacco che soffre di cecità notturna, un sacerdote lettone, un ragioniere jugoslavo e un ragazzo artista. Esasperati dalla vita opprimente e disumana alla quale ogni giorno si devono adattare, tutti e sette coltivano il sogno della fuga e due anni dopo, nel 1941, durante una tempesta di neve, riescono a evadere dal campo di prigionia. Ma l’avventura, i problemi e i pericoli cominciano da quel momento, poiché l’eterogeneo gruppo deve attraversare a piedi la steppa russa, il Deserto dei Gobi, la Mongolia, il Tibet, fino all’India, patendo la fame, la sete e le malattie, attraverso situazioni climatiche insopportabili e territori impervi. Li aiuta l’insieme delle loro variegate competenze e la capacità di Janusz di tenere unita la squadra. È una battaglia contro gli elementi naturali, prima che contro i propri simili, che tira fuori le doti più insospettabili di ognuno, e che alla fine, dopo 6.500 chilometri di fuga, porta alcuni di loro – non tutti – a raggiungere l’agognata libertà in India (una delle poche nazioni non coinvolte nella Seconda guerra mondiale). Girato in alcuni dei luoghi più impervi del pianeta, The Way Back è un film paradigmatico sulla costruzione di un team e sulle relazioni che si formano all’interno di un gruppo i cui membri sono animati dal medesimo obiettivo. Ne discutono Severino Salvemini e Gianni Canova.

G.C. Il film mette in scena prima di tutto la brutalità delle condizioni di vita dei prigionieri in un gulag siberiano: non escluderei che l’ostracismo che il film ha subito da noi derivi almeno in parte anche da qui, da questo aver sfidato un tabù raccontando qualcosa che molti continuano a non voler raccontare. Accanto a questo, c’è anche il fatto che strapazza l’ecologismo politically correct mostrando una natura che sa essere matrigna, feroce e crudele.

S.S. Non c’è dubbio. I sette fuggiaschi devono combattere sia contro un’infamia socio-culturale come il gulag sia contro la brutalità della natura umana sia contro un nemico forse ancora più terribile che è la natura selvaggia: quella che non fa sconti a nessuno e che non ha pietà per le singole vite che essa si trova a distruggere e a sacrificare. All’inizio del film lo dicono chiaramente ai prigionieri: “Se anche riusciste a uscire da qui, dovreste poi sopravvivere alla Siberia. E se sopravvivrete alla Siberia, non sopravvivrete ai suoi abitanti. I locali ricevono una ricompensa per ogni testa di evaso recuperata”. In queste condizioni estreme, la creazione di un gruppo coeso è davvero indispensabile per avere quanto meno qualche chance di sopravvivenza.

G.C. Certo. All’inizio, subito dopo l’evasione, nessuno si fida dell’altro. Immersi in una dimensione primitiva, quasi non parlano nemmeno tra loro. Sono guidati dall’istinto di sopravvivenza, ciascuno pensa a sé e ai propri bisogni immediati. Ma poi, a mano a mano che la fuga prosegue, viene a galla la personalità di ognuno degli evasi. Quanto più si conoscono, tanto più si fidano. E capiscono di aver bisogno delle qualità degli altri per avere più probabilità di salvezza. Penso, per esempio, alla battuta che Mr Smith (un Ed Harris straordinario, volto scavato e barba bianchissima) rivolge a Janusz (Jim Sturgess) quando accetta di far parte del gruppo di fuggitivi: “Verrò con voi perché approfitterò di una tua debolezza: la tua gentilezza ti costringerà a venire in mio soccorso quando avrò bisogno di appoggiarmi a qualcuno”.

S.S. Il film mi ha ricordato un famoso aneddoto raccontato dallo studioso Chester Barnard. È l’apologo noto come “il masso di Barnard”: quattro individui, sulla strada di ritorno verso le loro case, devono spostare un masso che ostruisce il percorso e possono farlo solamente se tutti e quattro lavorano uniti, senza opportunismi e senza free riding. Come dire: l’unione fa la forza, solo se tutti sono mossi dal medesimo obiettivo. Una cosa analoga accade ai personaggi del film: pur essendo persone molto diverse tra loro e con storie personali molto differenti, stanno scappando insieme e capiscono che solo insieme ce la possono fare. Come quando decidono di mettere in comune le provviste individuali e di condividere tutto.

G.C. In questo processo va però sottolineato il ruolo di team builder svolto dal personaggio di Janusz. Ogni membro del gruppo ha le sue doti e le sue capacità (c’è chi sa cucinare, chi sa orientarsi, chi sa medicare le ferite, chi sa intrattenere gli altri con battute giocose ecc.). Ed è proprio Janusz che sa valorizzare queste doti e farne una caratteristica collettiva del gruppo.

S.S. Vero, ma con una differenza rispetto ad altri film che hanno raccontato una storia di team building. Penso, per esempio, a Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, con Lee Marvin nel ruolo dell’ufficiale che deve fare di un manipolo di galeotti refrattari alle regole e alla disciplina un team coeso e affiatato. Lì il team builder era tale per incarico “istituzionale”, qui invece emerge dal gruppo perché è quello più bravo a valorizzare i legami di interdipendenza che vanno affiorando nei singoli membri.

G.C. Io non sottovaluterei però l’importanza che nel film assume a un certo punto l’apparizione di una figura femminile. Nei pressi del lago Baikal i fuggiaschi incontrano una ragazza di nome Irena che si unisce a loro. Dopo l’iniziale diffidenza di alcuni membri del gruppo (“Ci rallenterà la marcia!”), sarà lei l’elemento coagulante e permetterà di sviluppare alcuni aspetti del carattere dei protagonisti che altrimenti sarebbero rimasti inespressi.

S.S. In un certo senso potremmo dire che Irena diventa il centro affettivo di quel manipolo di fuggiaschi. È il baricentro relazionale attorno a cui tutto ruota. Dopo che il team si è formato, è quasi più importante la sua funzione di quella del team builder iniziale. Ed è una figura, la sua, che ci deve indurre a riflettere sui profili necessari e indispensabili al funzionamento di qualsiasi gruppo. Senza un centro affettivo, un team ha molte meno possibilità di successo.