E&M

2011/3

Gianni Canova

Lotta di classe, scontro di sessi

Nel 1968 la lotta di 187 operaie della Ford in una fabbrica dell’Essex britannico pone le basi per la riforma legislativa che sancisce la parità giuridica e salariale fra uomini e donne. Il film di Nigel Cole We Want Sex ricostruisce con rigore storico e documentale quell’episodio sindacale, facendone però un “caso” utile a riflettere anche sul nostro presente e sul ruolo delle donne nelle organizzazioni contemporanee.

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We Want Sex

Regia: Nigel Cole

Interpreti: Sally Hawkins, Bob Hoskins, Miranda Richardson

Gran Bretagna, 2010

 

Dagenham, 1968. La fabbrica della Ford è il cuore industriale dell’Essex (Inghilterra) e dà lavoro a 55.000 operai. Mentre gli uomini lavorano alle automobili nel nuovo dipartimento, 187 donne cuciono i sedili in pelle nell’ala della fabbrica costruita nel 1920, che cade a pezzi corrosa dalla pioggia. Le condizioni di lavoro sono durissime e quando le lavoratrici si vedono classificate dalla direzione come “operaie non qualificate” perdono la pazienza e intraprendono una dura battaglia per far valere i loro diritti e fare ascoltare le loro ragioni. Guidate dalla loquace e battagliera Rita O’Grady, riusciranno a sfidare il management maschile dell’azienda, a ottenere l’appoggio di importanti esponenti politici come la ministra Barbara Castle (una strepitosa Miranda Richardson con chioma alla Thatcher) e a porre le basi della nuova legge sulla parità di diritti e di salari fra uomo e donna che verrà approvata in Inghilterra poco tempo dopo. Diretto dal regista britannico Nigel Cole, da sempre a suo agio con storie al femminile come dimostrano film quali L’erba di Grace e Calendar Girls, We Want Sex è un perfetto esempio di quelle commedie sociali di cui gli inglesi sono maestri. Ma al di là del garbo e dell’impeccabile ricostruzione storica (il film si ispira a una storia vera, e sui titoli di coda scorrono le immagini delle reali protagoniste della vicenda), We Want Sex pone con urgenza il tema del “genere” all’interno delle organizzazioni e offre spunti di assoluta contemporaneità per ragionare sul gender anche nelle aziende e nei conflitti dei giorni nostri.

Ne discutono, come di consueto, Gianni Canova e Severino Salvemini.

 

G.C. Vorrei partire dal fatto che il titolo originale inglese è – come dire – molto più “operaista”. Made in Dagenham evoca l’idea della fabbricazione, della fatica, della manifattura. Il titolo italiano, invece, nasce beffardamente da un equivoco: We Want Sex non indica un desiderio irrefrenabile delle signore in lotta, ma quanto si legge su uno striscione srotolato solo parzialmente dalle operaie in lotta davanti a Buckingham Palace: “We want sex equality”, c’è scritto. Se lo striscione fosse stato srotolato completamente, tutti avrebbero letto che le signore invocavano equità sessuale, invece quella visibilità parziale fa scattare il fraintendimento e il qui pro quo. Voglio provare a leggere questo dettaglio non solo come una maliziosa strizzata d’occhio allo spettatore, ma anche come indizio testuale di ciò che il film davvero suggerisce. Siamo abituati a guardare il mondo – soprattutto il mondo del lavoro – da un punto di vista e con un’ottica parziale. Non abbiamo mai srotolato fino in fondo lo striscione. Pensavamo fosse “lotta di classe”, e invece era “scontro di sessi”. L’abbiamo sempre rimosso, il conflitto fra i sessi. Anche qui, nei nostri dialoghi per Economia & Management – dialoghi fra maschi – abbiamo sempre lasciato tra parentesi la questione del gender, spesso trattando questioni e categorie come fossero di fatto, naturalmente, maschili. Questo film di Nigel Cole ci ricorda quanto questo atteggiamento sia non solo sbagliato ma anche fuorviante.

 

S.S. C’è un altro aspetto che mi pare vada rilevato con forza, ed è la capacità del film di valorizzare l’inesperienza come elemento vincente in un conflitto. Le protagoniste del film sono donne dalla vita modesta, donne che vivono nelle case popolari, ma risultano straordinariamente battagliere ed efficaci quando intraprendono la loro protesta. Sono donne inesperte di politica e se ne infischiano delle strategie sindacali (“quelli sono rituali di voi uomini”, sostengono di fronte al loro rappresentante sindacale che consiglia più moderazione e più gradualità nella negoziazione). Ma vanno dirette all’obiettivo, svestite per il caldo torrido dello stabilimento ma capaci di spaventare un maschio più di una truppa armata. Proprio perché “inesperte”, proprio perché ignare dei rituali codificati della negoziazione e della contrattazione aziendale, elaborano una strategia trasgressiva e sorprendente che spiazza gli interlocutori e risulta alla fine vincente.

 

G.C. Vincente non solo in fabbrica: guidate da Rita (Sally Hawkins), le operaie si confrontano con le loro paure e contraddizioni ma, soprattutto, col fatto che questa lotta coinvolge la loro vita personale di donne, i rapporti familiari, i mariti che si stancano delle loro assenze e che le colpevolizzano perché, fermando la produzione, mettono a rischio pure i loro stipendi. Un altro pregio del film di Nigel Cole sta proprio in questa capacità di mostrare come il conflitto dentro un’organizzazione si riverberi poi su tutta la realtà circostante e vada a modificare la vita concreta delle persone.

 

S.S. È vero. La forza e la consapevolezza con cui le donne non avvezze ai giochi del potere affrontano la materia politica ci fa riflettere sull’efficacia dei loro comportamenti. Ed è significativo che nel film il potere sia sempre coniugato al maschile (i dirigenti della Ford, i dirigenti sindacali, il governo inglese), a eccezione del ministro del Lavoro (Barbara Castle) che, guarda caso, esce dagli schemi dell’etichetta e si allea con il movimento dimostrando freschezza, irruenza e successo inaspettatamente popolare. Il potere maschile è quello che nel film mette in campo, uno dopo l’altro, i trucchi tradizionali per spegnere il dissenso: la derisione paternalistica, l’intimidazione, la corruzione di alcuni membri della comunità (l’abbandono della lotta in cambio di qualche vantaggio personale), le promesse invece di un impegno concreto.

 

G.C. Tra le donne, invece, scatta una forma di solidarietà istintiva. Lo si vede molto bene, per esempio, nell’episodio in cui la ricchissima moglie del grande capo della Ford, brillante laureata, ingioiellata e frustrata (serve gli aperitivi al maritino), scavalca d’un balzo le rigide differenze di classe britanniche per portare conforto alle operaie in sciopero. Tanto da andare a trovare la leader nella sua casa di ringhiera, prestandole perfino un tailleurino rosa di Biba, nome mitico di quegli anni, per non sfigurare con la ministra. Siamo nel 1968, e si sente. Anche da questa familiarità, impensabile sia prima sia dopo quell’anno così centrale nella storia recente della società occidentale.