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2011/1

Tanto tuonò che piovve. Sulla scrivania dei presidenti di calcio è arrivato un fascicolo di novanta pagine fitte, in inglese. È il nuovo regolamento con cui l’UEFA ha deciso di attivare il famoso fair play finanziario che in sintesi suona così: non si può spendere più di quello che si guadagna. Cosa già notissima alle famiglie italiane ma sconosciuta ai magnati del calcio. A partire dal 2011-2012 tutte le società di calcio dovranno tendenzialmente raggiungere il pareggio nel loro conto economico. L’equilibrio sarà raggiunto progressivamente, con margini di tolleranza sempre più limitati sino a scomparire entro il 2017. Tutti i costi (in particolare stipendi al lordo, ammortamenti, oneri finanziari) dovranno essere completamente coperti dai ricavi (che consistono in gran parte in biglietteria, sponsor, diritti televisivi, plusvalenze attive). Prendiamo il caso dell’Inter. Dal 2007 al 2009 sono state ripianate perdite per 207 milioni, 148 milioni, 154 milioni di euro. Questo tipo di operazione non sarà più possibile perché le perdite di bilancio non possono più esistere. È finita l’epoca dei nababbi e degli sceicchi avventurieri.

Il fair play finanziario fa riferimento solo al conto economico, non allo stato patrimoniale. Si parla di deficit, non di debiti. Una società potrebbe ancora acquistare tre grandi stelle in una sola stagione (come fece il Real Madrid l’anno scorso) ricorrendo a un aumento di capitale o a un finanziamento. È chiaro però che ogni acquisto lussuoso comporta poi dei costi che gravano pesantemente sul conto economico: gli stipendi al lordo, gli ammortamenti e gli interessi passivi dei finanziamenti stipulati. Eliminato il deficit, si dovrebbero ridurre gli acquisti dispendiosi e tutto il sistema risulterebbe ridimensionato. Due sono le eccezioni permesse: per la contabilità UEFA non vengono presi in considerazione – anche se vanno pagati – gli oneri finanziari provenienti da investimenti per migliorare gli stadi e per potenziare il settore giovanile.

Il provvedimento è valido nel suo insieme, anche se ogni paese presenta criticità differenti. Noi certamente ci lamenteremo: alcuni godono di una tassazione minore, come la Spagna (svantaggio però in via di estinzione) e l’Inghilterra. Solo noi abbiamo l’IRAP, balzello pesante perché i costi del personale sono preponderanti. Il Portogallo ha approfittato degli Europei per rifarsi gratis tutti i suoi stadi mentre i nostri si avviano alla fatiscenza. In compenso saranno rispolverati vecchi trucchi: società che si scambiano scampoli di giocatori a prezzi esorbitanti per lucrare plusvalenze fasulle. E qualcuno troverà uno sponsor stranamente molto generoso.

Non riusciamo a fare il salto di qualità. I presidenti che ancora si strappano le vesti perché possono acquistare un extracomunitario in meno cercheranno giocatori già formati e con un antenato italiano. I nostri giovani, che esigono pazienza, restano parcheggiati nel limbo e il buon Prandelli non trova ricambi freschi per la sua nazionale. Guardate invece all’Inghilterra. Hanno operato una scelta coraggiosa: le rose sono di venticinque giocatori, otto dei quali devono provenire dal proprio vivaio. Il Manchester United di Ferguson è già in regola. Hai solo quattro giocatori che provengono dal vivaio? Nessun problema: la tua rosa sarà solo di ventuno giocatori. È il caso del Chelsea di Ancelotti. La situazione migliore è quella dell’Arsenal di Wenger: pesca a piene mani nel suo vivaio e nessun giocatore ha più di ventisei anni. Un miracolo genetico.