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2009/3

L’Università di Cambridge nacque da una costola di quella di Oxford. La loro rivalità sportiva si impernia sul canottaggio, che anima da secoli regate magiche. Solo una volta la gara finì ex aequo e fu nel 1877 perché il giudice d’arrivo si era appisolato nella fase cruciale. Anche l’annuale sfida di rugby tra le due università è uno dei grandi eventi inglesi. Chi partecipa a questa sfida sarà un Blue a vita. La gara si svolge a dicembre, ma i preparativi iniziano a gennaio. Si parte con sessanta selezionati, ma un giocatore sa di essere convocato per la grande sfida solo all’ultimo momento. Il capitano attraversa tutta Cambridge in bicicletta e va a bussare alla porta di ogni giocatore prescelto. Un mese prima della partita viene organizzata una festa in cui tutti i candidati, in abito elegante e in compagnia di belle ragazze, si ubriacano di vodka. Dopo, per un mese, gli alcolici saranno proibiti sino a sfida conclusa quando le feste si sprecheranno. Non esiste partita di rugby che non conosca la sua apoteosi con i giocatori di tutte e due le squadre nello stesso ristorante. È il famoso terzo tempo, dal campo al convivio. Il rugby è molto legato al territorio: il 99% dei gallesi, maschi e femmine non fa differenza, lo ha giocato almeno una volta nella vita. Per questo la partecipazione del pubblico è avvolgente. Gli stadi sono un urlo, un muggito continuo. Cementano la squadra. Ogni giocatore, accanto a sé e dietro di sé, sa di avere tanti altri ragazzi uguali a lui, pronti a fondersi nelle mischie come un solo corpo. Tutti, alti e bassi, magri e grassi, trovano un ruolo nel rugby dove la complementarità è la vera forza. Stare con gli altri ti cambia dentro. Più il gruppo è numeroso e diversificato, maggiore è la crescita dell’individuo. In occasione del recente terremoto in Abruzzo il rugby è stato in prima linea. Il campo dove la squadra aquilana ha vinto cinque scudetti e due Coppe Italia, è stato aperto alla popolazione smarrita. Solo venti giorni dopo il terremoto, a San Donà del Piave è riapparsa sul campo da gioco la loro maglia nero e verde sulla quale spiccava il rosone della basilica di Collemaggio, danneggiata dalle scosse, simbolo della ripresa che abita nelle loro anime. Mancava all’appello un giocatore, rimasto sepolto sotto le macerie, Lorenzo Sebastiani, vent’anni, una vera speranza, che già aveva esordito nella nazionale italiana Under 19. Il rugby costituisce una enclave di forza e di cortesia in questo Abruzzo orgoglioso e tenace. Noi italiani, nel rugby, non siamo campioni ma ci difendiamo. Ci hanno ammesso al Torneo delle Sei Nazioni migliori d’Europa solo nel 2000. In tutto abbiamo vinto sei partite su cinquanta. Ci hanno rifilato quattro cucchiai di legno, il simbolo che spetta all’ultimo arrivato nel torneo. Negli ultimi dieci anni i tesserati italiani sono più che raddoppiati. Nonostante i primi tagli, i genitori continuano a portare i ragazzi al campo di rugby: sentono che questo sport è pervaso da grandi valori. Parafrasando Kipling, Francis Raout scrisse una lettera al figlio invitandolo a giocare a rugby: “Se vuoi costruire qualcosa nel solco dell’amicizia, se vuoi essere forte senza essere mai duro, se sai attaccare ma anche fermarti, se puoi abbattere l’avversario ma anche sollevarlo di cuore, se vuoi essere temuto senza essere cattivo, se dopo la partita vincitori e vinti vanno a festeggiare insieme, allora sarai Rugby, soprattutto se saprai conservare il tuo coraggio anche quando tutti gli altri lo perdono”. Messaggio che sembra scritto per l’Abruzzo di oggi.