E&M

2008/6

Gianni Canova

L’insuccesso del genio

Ambizioso tentativo di rilettura critica della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, il film di Alessandro Baricco Lezione Ventuno offre numerosi spunti di riflessione e di discussione sulla natura della creatività. Ma anche su temi attualissimi quali il rapporto fra classico ed effimero, fra genio e mediocrità, fra successo e insuccesso.

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Lezione Ventuno

Regia: Alessandro Baricco

Interpreti: John Hurt, Noah Taylor, Leonor Watling

Italia, 2008

Non è un film facile né da definire né da descrivere, Lezione Ventuno di Alessandro Baricco. E questo, di per sé, potrebbe già essere un pregio: in un panorama produttivo in cui la maggior parte dei film (non solo italiani…) può essere definita, etichettata, catalogata e descritta quasi senza essere vista, Lezione Ventuno spiazza e sorprende. Se si concede per un attimo, subito dopo si sottrae. Cambia direzione. Rimescola le carte. È refrattario a ogni catalogazione. E, soprattutto, non trasmette la fastidiosa sensazione di rifriggere il già visto. Da un certo punto di vista, non c’è dubbio, si potrebbe dire che Lezione Ventuno è un film-saggio. O, forse, perfino un pamphlet. Alla sua base, infatti, c’è una tesi molto forte, enunciata più volte con estrema chiarezza: la Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, quella nota soprattutto per il celeberrimo Inno alla gioia, composta nel 1824 da un Beethoven ormai sordo e precocemente invecchiato, solo e rancoroso nei confronti del mondo, è tutt’altro che un capolavoro. È, piuttosto, un cedimento alla moda. Un estremo tentativo di arrestare il declino. Un colpo basso progettato a freddo per sorprendere e stupire. Magari inserendo, con una scelta spregiudicatamente trasgressiva, voci soliste e parole (quelle, appunto dell’Inno alla gioia di Schiller) in un impianto che non le prevedeva come quello codificato della sinfonia. “Nella Nona – sostiene l’eccentrico e geniale professor Mondrian Killroy (John Hurt), autore della Lezione Ventuno del titolo – c’è intelligenza e genio, ma c’è poca bellezza”. E questo – conclude l’anziano e solitario studioso – “è tipico dei vecchi.” La Nona Sinfonia non fu capita non perché era più avanti, ma perché era più indietro. Dopo i successi di dieci/quindici anni prima, Beethoven era come sprofondato in se stesso, mentre il mondo attorno a lui cambiava. La Nona – suggerisce dunque Baricco – è il tentativo mancato di restare in sintonia con il proprio tempo e con il mondo che cambia.

Non importa, in questa sede, discutere la plausibilità di questa tesi, né analizzare le modalità estetiche e comunicazionali – indubbiamente originali anche nel loro impianto simbolico e metaforizzante – con cui Baricco trasforma in film una complessa questione legata alla storiografia musicale e alla musicologia. Quel che importa qui, caso mai, è riflettere sulla nozione di creatività che emerge dal film e sull’idea del rapporto fra classico ed effimero, fra genio e mediocrità, fra successo e insuccesso, che il film problematizza e mette in scena. Provano a farlo, discutendone, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Io ho trovato di grande interesse e di grande – e perfino “drammatica” – attualità la riflessione che il film propone sull’incompatibilità fra creatività e vecchiaia. Quando Beethoven scrive la Nona – sostiene il film – è ormai troppo vecchio per essere ancora un “creatore” innovativo. Il meglio di sé l’ha già dato molti e molti anni prima, nel tempo della giovinezza. Ora può limitarsi al mestiere, alla tecnica, all’intelligenza. Ma non può più, o può solo raramente, attingere alla sfera della creatività e della bellezza. Trovo questa tesi molto in sintonia con tutti quegli studi sul ciclo di vita dell’artista che collocano il periodo di massima genialità (e anche di maggiore valore economico) nei primi decenni dell’attività, e non nella stagione più matura. David Galenson, economista di Chicago, nel suo libro intitolato Old Masters and Young Geniuses, analizza il valore degli artisti contemporanei sulla base dei prezzi d’asta, e arriva a sostenere che i profitti più rilevanti si ottengono all’inizio della carriera, e non nella fase terminale.

G.C. Per i profitti economici forse è così, ma certo non è così per quel “profitto simbolico” che è costituito dall’impasto di reputazione, riconoscimento, fama, dignità sociale e professionale, e così via. Questi arrivano (ammesso che arrivino) nell’età matura, e non potrebbe essere altrimenti. E comunque: a me sembra che l’inibizione della creatività scatti in Beethoven non tanto a causa della vecchiaia (in fondo, quando compone la Nona, ha poco più di cinquant’anni…), quanto piuttosto per un insieme di fattori convergenti e concomitanti: la sordità, prima di tutto; e poi la solitudine, il disamore, l’ossessione di tenere alta la sua reputazione difendendola dall’attacco di musicisti più giovani, ambiziosi e innovativi…

S.S. Questo è un altro aspetto molto interessante del film. Beethoven – nella lettura che ne dà Baricco – è ossessionato dal timore di perdere il successo. Guarda con sospetto Rossini e la generazione di musicisti che viene dopo di lui, e che sembra intenzionata a scalzarlo dal piedestallo su cui la sua musica l’aveva innalzato. La Nona è la sua risposta – o il suo tentativo di risposta – alle nuove tendenze che emergono nella scena musicale del suo tempo.

G.C. Nel film di Baricco c’è anche questo, non c’è dubbio. Ma a me sembra il punto debole di Lezione Ventuno. Tra le righe del film si legge una malcelata diffidenza nei confronti della categoria del successo, come se il suo raggiungimento implicasse necessariamente compromessi, cedimenti al gusto del pubblico, scarsa coerenza estetica ed espressiva. Rilevo però un problema, o una contraddizione: Baricco da un lato esalta la leggerezza di Rossini perché più moderno e popolare di Beethoven, ma dall’altro lato sembra dileggiare il Beethoven della Nona proprio per il suo intento di essere più popolare. Sento riecheggiare in questa posizione l’antico aristocraticismo elitario dell’intellettuale, che disdegna chi ottiene il successo, salvo quando il successo tocca a lui…

S.S. Nel film si dice e si mostra più volte come Beethoven non riuscisse a rassegnarsi all’idea che la Nona potesse essere un flop. Non ci credeva, non lo poteva né credere né accettare. È un atteggiamento che si riscontra spesso anche ai giorni nostri: la difficoltà di prendere atto dell’insuccesso è una sindrome molto più diffusa di quanto si creda, anche in ambito aziendale…

G.C. Non lo metto in dubbio. Ma la Nona può essere davvero considerata così facilmente un insuccesso? È vero, la prima esecuzione non fu entusiasmante, ma poi l’opera crebbe a poco a poco nell’immaginario collettivo fino a diventare uno dei brani musicali più noti e apprezzati a livello planetario. Tanto che l’Unione Europea ne ha fatto il suo inno, e Stanley Kubrick l’ha usata come brano imprescindibile della colonna sonora di Arancia meccanica, non a caso proprio al fianco di Rossini. Confesso che mi sorge un dubbio: non è che con la Nona Beethoven contribuisca a far transitare la musica classica nei territori della nascente cultura di massa? Non è un caso, ma noi oggi siamo ancora qui a occuparci di quella musica, e non di altre oggettivamente più “belle”. E lo stesso Baricco, per distruggere la Nona, deve farci un film sopra, e riproporla a più riprese nella colonna sonora, consapevole che è proprio sulla fama imperitura e sul fascino dell’opera che vuol mettere in discussione che si basano anche le chances del suo film di avere successo. Quando si dice la contraddizione…