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2008/4

Durante i giochi olimpici, a Pechino, incontreremo l’Honduras. Nessuno ricorda che divenne famoso per uno spareggio contro El Salvador per partecipare ai mondiali del 1970 in Messico. La partita di andata si svolge l’8 giugno 1969, a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras. La squadra del Salvador, arrivata il giorno prima, passa una notte insonne. Una folla di tifosi assedia l’albergo degli ospiti: sassi contro i vetri, chiasso assordante con lamiere e latte vuote, scoppi di petardi, strombazzate dei clacson. In America Latina è una prassi normale. Il giorno dopo l’Honduras batte l’insonnolito Salvador per 1 a 0. Quando Roberto Cardona, attaccante dell’Honduras, segna il gol della vittoria all’ultimo minuto, in Salvador la diciottenne Amelia Bolanos, seduta davanti al televisore, si alza, si precipita alla scrivania dove il padre teneva la pistola, e si spara al cuore. Ai suoi funerali, dietro la bara coperta dalla bandiera nazionale, sfila il presidente della Repubblica con tutti i ministri.

La partita di ritorno ha luogo una settimana dopo, a San Salvador. Stavolta è l’Honduras a non dormire. Tifosi inferociti lanciano all’interno dell’hotel quintali di uova marce e di topi morti. I giocatori ospiti sono portati allo stadio dalla prima divisione corazzata del Salvador: bisognava difenderli dalla folla che sventolava la fotografia dell’eroina nazionale Amelia Bolanos. Il Salvador vince per 3 a 0. Sempre su un carro armato la squadra dell’Honduras è trasferita direttamente dallo stadio all’aeroporto. Sorte peggiore tocca ai tifosi, costretti a scappare verso casa loro: si registrano due morti e una infinità di macchine bruciate. Alcune ore più tardi la frontiera tra i due paesi viene chiusa. È la guerra.

L’esercito del Salvador bombarda quattro città dell’Honduras e lo invade. Risponde l’Honduras radendo al suolo gli obiettivi strategici del Salvador. Si invoca l’intervento dell’ONU. Il calcio era diventato il detonatore di vecchie storie. Il Salvador, affacciato sul Pacifico, se avesse conquistato l’Honduras, posto sull’Atlantico, sarebbe diventato una potenza dai due oceani. L’Honduras è sei volte più grande del Salvador ma è spopolato. Molti contadini del Salvador si erano così stabiliti nell’Honduras, dando vita a una emigrazione silenziosa, illegale ma tollerata. La guerra obbligava trecentomila emigrati salvadoregni a ritornare in patria, ma il governo si rifiutava di accoglierli. Non li voleva più.

La guerra del football è durata cento ore. Seimila morti. Decine di migliaia di feriti. Centocinquantamila persone hanno perso casa e terra, molti villaggi sono andati distrutti. Il calcio, con una buona dose di cinismo, è andato avanti, come se nulla fosse successo. La bella fu giocata in campo neutro, in Messico. I tifosi dell’Honduras da una parte e quelli del Salvador dall’altra. In mezzo, cinquemila poliziotti messicani armati di manganelli. Vinse il Salvador per 3 a 2, qualificandosi per i mondiali del Messico. Giocherà tre partite, contro il Belgio, il Messico e l’URSS. Nessun punto, nessuna rete segnata, nove subite. Ma la vera sconfitta rimane quella guerra tra poveri. Si racconta che ai margini di un bosco, nella confusione più totale, arriva una barella, su cui è riverso un giovane che sta morendo. Un militare domanda all’infermiere: “È uno dei nostri o dei loro?”. “È di sua madre” gli risponde, impietosito. Quando si accorge che tutto è finito, aggiunge: “Adesso è di Dio”. Il soldato, rapidamente, toglie le scarpe al morto. “A Dio non servono.”