E&M

2008/3

Gianni Canova

Il reality show aziendale

Al centro di numerosi film italiani usciti in sala nelle scorse settimane, la questione del precariato irrompe finalmente sugli schermi. Ma nel film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti la condizione dei lavoratori precari in un call center romano diventa l’occasione per riflettere sulle nuove forme di organizzazione del lavoro nella società dello spettacolo e della comunicazione.

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Tutta la vita davanti

Regia: Paolo Virzì

Interpreti: Isabella Ragonese, Sabrina Ferilli, Massimo Ghini,

Italia, 2008

Si ritrovano tutte le mattine nell’open space aziendale. Sorridenti, cinguettanti, giulive. Pronte a iniziare la nuova giornata di lavoro con energica determinazione. Ma prima, per caricarsi, devono intonare tutte in coro una canzoncina motivazionale scandita con voce allegroandante dalla responsabile del personale (un’esuberante Sabrina Ferilli). Marta (interpretata con esattezza di toni dalla poco più che esordiente Isabella Ragonese) è una di loro: da poco laureata in filosofia (110 e lode), dopo aver inviato vanamente decine e decine di curricula, si è dovuta adattare e campa facendo a metà tempo la baby sitter e – sempre a metà tempo – l’operatrice nel call center di cui sopra, dove passa le ore attaccata al telefono nel tentativo di vendere improbabili, inutili e costosissimi apparecchi per la depurazione dell’acqua potabile a clienti che in condizioni “normali” non si sognerebbero mai di acquistare un simile prodotto.

In apparenza, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì mette in scena – con un registro che attinge alla miglior tradizione della commedia italiana – il problema epocale del precariato giovanile, sulla scia di altri film recenti che hanno affrontato il medesimo problema (poco prima o poco dopo il film di Virzì sono usciti infatti anche Riprendimi di Anna Negri, che ha per protagonisti due precari del mondo dello spettacolo; Parole sante, crudo documentario di Ascanio Celestini dedicato ai precari dell’Atesia, il più grande call center italiano – 300.000 telefonate al giorno, 4000 lavoratori solo nella sede di Cinecittà – e Cover Boy di Carmine Amoroso, operina sincera e graffiante sull’amicizia di due precari marginali – un profugo rumeno e un disoccupato italiano, ex dipendente da un’impresa di pulizie – che si sono conosciuti alla Stazione Termini di Roma). In realtà, Tutta la vita davanti è un’opera molto più complessa, che non solo evita i toni facili della denuncia finto indignata, ma che tratteggia un quadro più articolato e complesso sulle nuove forme di organizzazione del lavoro nella società postindustriale. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. La prima cosa che ritengo positiva nel lavoro di Paolo Virzì e dei suoi sceneggiatori è che finalmente siamo di fronte a un film italiano capace di cogliere e di dare rappresentazione a forme di organizzazione del lavoro che non sono più quelle della fabbrica fordista e che vanno ben oltre la questione, pur rilevante, della precarietà del rapporto contrattuale. Il call center attorno a cui ruota l’azione del film è un tipico esempio di organizzazione piramidale gestita attraverso un preciso rituale collettivo: le canzoncine motivazionali, il sistema di premi e sanzioni sempre gestito collettivamente e pubblicamente, i modi in cui si caldeggia la totale identificazione del lavoratore con l’azienda, con la sua mission, con il brand… Mi sembra che il film metta in luce con grande forza come il modello di intrattenimento da villaggio vacanze sia ormai diventato dominante anche nell’organizzazione aziendale.

G.C. È vero. Ma io trovo suggestiva anche l’idea di impegnare la protagonista nella stesura di un saggio filosofico in cui analizza le dinamiche relazionali del call center usando Heidegger ma soprattutto le forme del reality show: quasi a dire che l’organizzazione quotidiana del lavoro – sotto la guida di una Sabrina Ferilli sublime nella sua ingenua spietatezza – è strutturata esattamente come un reality, con tanto di sigla iniziale cantata collettivamente prima di iniziare la giornata, seguita da una valanga di conflitti, ritorsioni, gelosie e rivalità drammatizzate ad arte proprio dalla conduttrice. Quasi un gioco a eliminazione progressiva, nello stile del Grande Fratello televisivo: chi non raggiunge l’obiettivo prefissato viene prima nominato e poi eliminato, in un teatrino open space in cui ogni co.co.pro. è sottoposto al controllo visivo di tutti i suoi colleghi, e al rito di incentivi e sanzioni che la direzione distribuisce teatralmente ai vari dipendenti.

S.S. Certo. Ma è un modello davvero già diffuso in certe aziende. Potremmo definirlo il modello Weight Watchers: se sono particolarmente performante, più che dal premio materiale mi ritengo remunerato dall’approvazione del collettivo, dall’elogio pubblico che aumenta la mia reputazione e fa di me un esempio da emulare. In modo analogo, funzionano anche le sanzioni: penso anche solo alla scena straordinaria in cui il venditore interpretato da Elio Germano non raggiunge il target previsto, nonostante il suo training autogeno, e viene sanzionato dai colleghi che gli scrivono “sfigato” sulla fronte…

G.C. In questo senso, possiamo dire che il film di Virzì riesce finalmente a mettere in scena, in modo scanzonato e sofisticato, alcuni aspetti caratterizzanti di certe culture aziendali contemporanee, e di certi stili di direzione…

S.S. Senz’altro. Da un lato c’è lo stile macho, un po’ guascone e manipolatore, del personaggio di Massimo Ghini, dall’altro c’è lo stile rampante della Ferilli. Però, al fondo, sono tutti accomunati dalla condivisione di un universo di valori piccolo-borghesi, evidente per esempio nel modo in cui si vestono, o arredano le proprie case…

G.C. Insisterei molto sul concetto di condivisione. Vorrei soffermarmi un attimo sulla locandina del film, che presenta tutti i personaggi nell’inconfondibile disposizione prossemica del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo: la protagonista – abitino a righe orizzontali rosse e nere, borsa a tracolla – marcia fiera in primo piano, seguita dalla massa di tutti i suoi colleghi. Alla sua destra, come nel celebre quadro ottocentesco, c’è perfino l’amica ragazza madre, con la sua bimba fra le braccia. Tra i precari ci sono però anche i loro datori di lavoro, Ghini e la Ferilli. Come se il film di Virzì ipotizzasse fra le righe – al di là dell’ovvia necessità di presentare nella locandina del film tutto il cast – che nell’era della precarizzazione selvaggia anche i datori di lavoro siano esposti alle incertezze e all’instabilità del lavoro dipendente, senza più la rete di protezione garantita da un’organizzazione del lavoro stabile e dai profitti prevedibili come avveniva, in fondo, in epoca fordista.

S.S. È una lettura che condivido. Tutta la vita davanti va oltre la logica di una vecchia lettura “classista” delle dinamiche interne al mondo del lavoro, pur senza dimenticare l’esistenza delle classi. Mostra le contraddizioni tanto dei datori di lavoro quanto del sindacato. E, non ultimo, ha il pregio di scoprire un paesaggio italiano che ha il coraggio di lasciarsi alle spalle le bellurie stereotipate da cartolina per mettere in scena un’infinita periferia fatta di tangenziali, raccordi autostradali, centri commerciali, poli direzionali, shopping center, e scale mobili, passages, passerelle, facciate a specchio, cavi metallici, e ancora terre incolte, cespugli, arbusti, polvere e degrado. Siamo a Roma, ma potremmo essere in qualunque altro angolo del mondo globalizzato.