E&M

2008/1

Gianni Canova Severino Salvemini

L’imprenditore disoccupato

Il nuovo film di Silvio Soldini, Giorni e nuvole , mette in scena il dramma di un imprenditore genovese di mezza età che viene all’improvviso fatto fuori dai soci e si ritrova senza reddito e senza lavoro, quasi incapace di fronteggiare la sua mutata condizione sociale e professionale.

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Giorni e nuvole

Regia: Silvio Soldini

Interpreti: Antonio Albanese, Margherita Buy

Italia, 2007

Michele ha gli occhi spalancati, la prima volta che lo vediamo. Sono le 3.58 di notte, e non dorme. Da qualche mese ha perso il lavoro, e non riesce ancora a capacitarsene. Sta lì, con gli occhi aperti nel buio, nell’illusione di riuscire a vedere un po’ più chiaro in quello che gli sta succedendo. Ma non vede nulla. Non riesce a visualizzare né quello che gli è successo né quello che gli sta per accadere. È sveglio, ossessionato da un pensiero fisso, e come cieco di fronte al mondo e alla realtà. È difficile cogliere a prima vista la catastrofe che ti precipita addosso, suggerisce Silvio Soldini, regista del film Giorni e nuvole, di cui il personaggio di Michele è il protagonista. Difficile prevederla, la catastrofe, e poi valutarla, e fronteggiarla. Michele – interpretato da un Antonio Albanese semplicemente straordinario, attonito, sballottato dagli eventi, incredulo e perplesso, tenero e inerte – continua a illudersi che la sua situazione sia transitoria, che sia ancora possibile per lui tornare al punto di prima. Ma intanto il conto in banca si assottiglia, una cena al ristorante diventa un lusso proibito, il rapporto con la moglie va in crisi e perfino la bella casa borghese nel centro di Genova deve essere venduta perché senza stipendio diventa difficile pagare le rate del mutuo. Con un linguaggio asciutto e sobrio, partecipe ma non giudicante, Giorni e nuvole affronta uno dei nodi più caldi e controversi dell’economia contemporanea (la ricollocazione sul mercato del lavoro di persone non più in giovane età) e offre, da più punti di vista, interessanti spunti di riflessione. Ne discutono, come di consueto, Severino Salvemini e Gianni Canova.

S.S. Il tema del precariato dei seniores è presente nell’economia e negli studi organizzativi da ormai almeno una decina d’anni. È un tema importante, radicato com’è nella concretezza del vissuto delle persone, e legato a forme di disagio e di insicurezza che hanno ricadute pesanti sul piano psicologico e sociale. Originariamente il problema era tipico in particolare dell’area anglosassone, ma ormai si è diffuso in maniera pervasiva e interessa un po’ tutte le aree geopolitiche dell’economia globalizzata. Ed è un problema tanto più grave quanto più le statistiche ci ricordano che da parecchi anni a questa parte, ormai, c’è una correlazione diretta fra l’espulsione di manodopera anziana e una previsione di redditività per l’azienda che decide di compiere questa operazione. Detto in altri termini: basta annunciare una riduzione di personale per veder salire il titolo in borsa…

G.C. C’è un piccolo lapsus significativo nel tuo ragionamento. Hai parlato di espulsione di manodopera anziana. In realtà, il protagonista del film di Soldini non ha nulla a che vedere con la manodopera. È un uomo di mezza età che è stato estromesso dall’azienda che aveva contribuito a fondare vent’anni prima. A prendere la decisione sono stati i suoi soci, che – a quanto pare di capire – a un certo punto l’hanno giudicato poco capace di “resettarsi” e di guidare la nuova fase di ristrutturazione di cui ritenevano che l’azienda avesse bisogno. Qui non siamo di fronte, insomma, a un dipendente che viene licenziato. Qui siamo di fronte a un imprenditore che resta, per così dire, disoccupato. Ed è proprio questo che ne fa un caso molto interessante.

S.S. Hai ragione. Io stavo facendo una riflessione di respiro più generale sul tema del precariato a quaranta-cinquant’anni, ma il film di Soldini aggiunge – come notavi – un elemento in più, e ci mostra la difficoltà che non solo un dipendente, ma anche un imprenditore si trova a dover affrontare se posto in una situazione di improvvisa inattività. In questa chiave, ho trovato molto interessante il modo in cui Soldini e Albanese mettono in scena l’abulia e quasi l’inerzia del personaggio. Michele non fa nulla per reagire. Non sfodera gli artigli, non reagisce in modo aggressivo, direi che è poco “imprenditore” nelle sue modalità di reazione all’espulsione dall’azienda. Ma questo atteggiamento, questo suo scivolare verso uno stato vegetativo (“Cosa hai fatto oggi?”, gli chiede la moglie. E lui, con lo sguardo nel vuoto: “Niente”) si spiega – ed è stato studiato – come difficoltà a gestire l’attesa da parte di persone abituate all’iperattività, e incapaci – quando vengono messe fuori – di adottare in fretta un altro ritmo, un altro rapporto con il tempo e con lo spazio.

G.C. Condivido senz’altro questa tua osservazione. E aggiungo che è proprio questo aspetto che differenzia il film di cui stiamo parlando da altri che hanno affrontato un tema simile (penso soprattutto a titoli come A tempo pieno di Laurent Cantet o Cacciatore di teste di Costa-Gavras, di cui ci siamo occupati in passato in questa rubrica): lì veniva raccontata la reazione di un consulente o di un dirigente alla notizia dell’espulsione dall’azienda, qui assistiamo invece all’inazione di un imprenditore che perde l’azienda di cui era stato cofondatore.

S.S. In realtà, l’unico tentativo concreto che vediamo fare al personaggio è la decisione di mettersi a fare lavoretti avventizi con due suoi ex dipendenti rimasti a loro volta senza lavoro. Come se in lui ci fosse comunque il desiderio di riunire una squadra, di organizzarla, in qualche modo di dirigerla. Il problema è che i due operai poco dopo trovano comunque un nuovo lavoro stabile, mentre lui resta solo, e non possiede il know-how necessario neppure per continuare a fare da solo l’idraulico o l’imbianchino. Il fatto è che il manager o l’imprenditore sono ontologicamente meno flessibili dei loro dipendenti: si sono abituati per tutta la vita a una serie di benefici e di status a cui è difficile rinunciare. A quel punto, o molli tutto e te ne vai a Puerto Escondido, oppure – restando nello stesso contesto sociale, addirittura nella stessa città – è molto arduo pensare di reinventarsi daccapo a quaranta o cinquant’anni…

G.C. … a meno che non abbiano visto giusto i soci che hanno deciso di farlo fuori. Stando a quel che si capisce dal film, sembra quasi che il personaggio di Michele abbia azzeccato una volta l’intuizione giusta e che poi abbia vissuto di rendita per tutti gli anni successivi. In questo contesto, io trovo interessante che alla fine si trovi a giudicare positivamente e a collaborare con il tentativo microimprenditoriale della figlia, che in precedenza aveva sempre guardato con estrema diffidenza. Come se il film lo rimettesse in gioco grazie a una sorta di turnover generazionale.

S.S. È così. Ma proprio in questo, paradossalmente, il protagonista del film mostra di essere ancora capace di imparare, di aggiornarsi, di confrontarsi con il nuovo. Tira fuori, cioè, proprio quelle qualità che gli ex soci sembravano volergli negare.