Articolo 3

28/02/2018 Stefano Basaglia, Simona Cuomo, Zenia Simonella

Per una nuova idea di gestione della diversità

Abbiamo deciso di chiamare questo spazio dedicato alla gestione della diversità nelle organizzazioni Articolo 3 in onore dell’omonimo articolo della Costituzione della Repubblica Italiana. Abbiamo scelto questo nome per tre ragioni.

 

  1. La gestione della diversità, o forse sarebbe meglio dire «delle differenze», è stata giustificata, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, dalla retorica del profitto, ossia dal fatto che bisognasse adottare un insieme di politiche/pratiche per la gestione della diversità perché conveniva. Questa retorica era una diretta emanazione del Reaganismo e, al momento della sua disseminazione, non era supportata da evidenze empiriche. Inoltre, aveva spinto alla de-ideologizzazione delle «pari opportunità» promuovendo una visione manageriale, e quindi apparentemente neutra /di mercato, della gestione delle differenze, rimuovendo anche dalla riflessione temi quali il conflitto e il potere. Dopo trent’anni di studi, la ricerca scientifica ci dice che non siamo in grado di individuare un impatto causale chiaro e diretto tra adozione delle politiche di gestione della diversità e prestazione aziendali. Non si va al di là di correlazioni spurie. Per questo motivo, pensiamo sia giunto il momento di riportare in primo piano la dimensione etica delle origini e, quindi, di parlare di giustizia e di legalità: discriminare è illegale, gestire la diversità è giusto. Ciò non significa trascurare la valenza pratica delle politiche di gestione della diversità. Significa non dover a ogni piè sospinto giustificare economicamente con astrusi modelli matematici che non si può licenziare o trattare male un lavoratore per la sua identità.
  2. Il diversity management è nato negli Stati Uniti e da lì si è diffuso in Europa e in Giappone. Pensiamo sia giunto il momento di contestualizzare il diversity management rispetto alle caratteristiche culturali, sociali ed economiche del contesto italiano cercando il più possibile di evitare di importare modelli pensati da anglosassoni per anglosassoni e di utilizzare un gergo basato su anglicismi che sono sinonimo più di provincialismo e sciatteria culturale che non di visione internazionale. Il manager realmente internazionale è colui che conosce la cultura e i luoghi in cui lavora e sa muoversi tra i contesti cercando di indossare lenti diverse a seconda delle situazioni. Recentemente, ha fatto scalpore una sentenza del tribunale amministrativo italiano che ha chiesto al Politecnico di Milano di affiancare ai corsi insegnati in inglese i corsi insegnati in italiano. Questo non è provincialismo, ma incremento della diversità. Lo stesso programma Erasmus + incentiva gli studenti in scambio a seguire corsi nella lingua locale del paese ospite: italiano in Italia per i non italiani, tedesco in Germania per i non tedeschi, portoghese in Portogallo per i non portoghesi ecc. Nelle nostre aule abbiamo studenti non italiani che sono «obbligati» dalla loro università di origine a seguire i corsi insegnati in italiano. Questi studenti plurilingue saranno i futuri cittadini dell’Europa.
  3. L’articolo 3 della nostra costituzione è stato oggetto di attenzione nelle scorse settimana per la presenza del termine «razza». Anche nel campo della letteratura americana sulla gestione della diversità si trova spesso il termine race. Questo termine non va inteso in senso genetico/biologico che, per inciso, non ha alcun fondamento scientifico – ma in senso etnico-culturale, ossia come una delle tante categorie sociali attraverso cui le persone categorizzano gli altri, si identificano o meno, e generano una dialettica «inclusione-esclusione». Infatti, le categorie sono importanti: sono al tempo stesso fonte di senso e potenziale fonte di discriminazione. È vero che ogni individuo è diverso dagli altri: questo è lapalissiano. Spesso, però, accade che quell’individuo sia discriminato perché membro di un gruppo sociale stigmatizzato; non solo: può accadere anche che questa persona possa essere discriminata anche dagli stessi membri del suo gruppo di appartenenza nel momento in cui questi introiettano la visione del gruppo dominante. Tutto questo ci dice che la discriminazione è un fenomeno complesso. La Costituzione e la legge, però, ci dicono chiaramente che non si può discriminare in base all’identità e che bisogna attivarsi affinché non vi sia discriminazione («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale»): l’articolo 3, quindi, chiede un ruolo attivo della Repubblica e, per estensione, potremmo dire di tutti gli attori individuali e collettivi che vivono, lavorano e operano all’interno dei suoi confini. Infine, non bisogna dimenticare che la gestione della diversità non può essere confinata all’1 per cento dei cosiddetti talenti, ma deve essere estesa a tutti i lavoratori comprendendo anche le differenze legate alla posizione, al ruolo e alla remunerazione. Dal gioco delle diversità nessuno si può sentire escluso. 
Diversitylab