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05/10/2016 Davide Reina

A proposito delle velleità e della vanità

S’el mi nòn gh’aveva el tramvai, mi gh’avevi la perteghèta

(Se mio nonno aveva un tram, io avevo la manovella (per condurlo))

Questo proverbio milanese biasima la velleità. Vale a dire, e per riprendere la definizione che ne dà la Treccani:

«volontà imperfetta, e perciò inefficace e vana, o desiderio che non riesce a definirsi in volontà. Nell’uso corrente, aspirazione, desiderio o proponimento che non hanno effettive possibilità di realizzazione, in quanto non sussistono per lo più capacità adeguate o la volontà e l’impegno necessari».

Nelle imprese i progetti e i piani velleitari sono frequenti. Si riconoscono al volo perché possiedono alcune peculiarità: sono ciarlieri, superficiali, privi dell’analisi necessaria. In pratica: assomigliano a chi li propone. Per fortuna, non sono infrequenti anche dichiarazioni e progetti «risoluti». Anch’essi riconoscibili facilmente sulla base di alcune particolarità: sono concisi, approfonditi, fondati su un’analisi robusta. E anch’essi di solito assomigliano a chi li propone.

I progetti e i piani velleitari sono pensieri per il domani che finiscono nei cassetti. I progetti e i piani «risoluti» sono chiamate all’azione. Non per il domani, ma per oggi. Sovente, i grandi imprenditori sono uomini di poche parole. Ford era un eccentrico piuttosto scorbutico che andava molto d’accordo (era stato uno dei suoi migliori collaboratori) con Edison il quale, come lui, era un uomo piuttosto taciturno (forse anche perché era sordo da un orecchio). E Walt Disney credeva nella virtù del silenzio al punto da affermare che «The way to get started is to quit talking and begin doing».

Nell’uomo d’azione, la riflessione conduce a una risoluzione: un moto ad agire che è accompagnato da poche parole scarne, oppure che si compie in perfetto silenzio. Nel pensatore velleitario la riflessione è «a voce alta» e si contempla, si ascolta, si piace e basta a sé stessa. Dunque, che bisogno c’è di agire? Al contrario, un piano ben fatto è essenziale e va dritto alle cose da fare, per indurre all’azione. Mentre molti grandi piani strategici sono pieni di troppi paroloni privi di un vero significato. Belli, per carità, ma che tutto fanno fuorché spingere all’azione.

Un altro tratto caratteristico di un pensiero velleitario è la sua vanità. All’opposto invece, il pensiero risoluto è umile. La vanità (dal latino vanus «vano, vuoto») è una bella forma vuota. L’umiltà è sostanza piena. Per questo dovremmo diffidare quando, anche nelle imprese e nel contesto economico più in generale, la forma acquisisce troppa importanza. Quando non, addirittura, essa diventa rito a sé stante e svincolato dai risultati che produce.

Si pensi a questo proposito al rituale hollywoodiano che da Palo Alto si è diffuso, ahimè in quasi tutto il mondo, degli elevator pitch per le start-up presentati a giurie di (supposti esperti) investitori. Una sorta di soap opera che celebra il rito (cioè la forma), al di là del suo contenuto (cioè la qualità dell’idea da cui dipenderà, in gran parte, l’esito dell’iniziativa imprenditoriale) e che ha come attori protagonisti dei giovanotti ciarlieri i quali vendono le loro idee di fronte ai grandi sacerdoti di questo rituale: i venture capitalist. Come ogni buon mondo vano e vanitoso che si rispetti, anche questo ha una sua estetica inconfondibile. Che, come il suo pensiero, è unica: camicia bianca d’ordinanza, rigorosamente senza cravatta, per il venture capitalist; camicia bianca d’ordinanza, rigorosamente senza cravatta, anche per l’aspirante imprenditore. Per il quale a volte, ma in via del tutto eccezionale, sono ammesse la maglietta grigia o la camicia a scacchi da nerd.

Complice anche il tam tam quotidiano da parte dei media (giornali, televisioni, il web) sul tema start-up, abbiamo ormai l’impressione di vivere in un mondo pieno di venture capitalist e aspiranti imprenditori. Il fenomeno è, come si dice oggi, cool. Meno, molto meno, i suoi risultati. Gli Stati Uniti del XXI secolo sono un paese che crea molte meno imprese degli Stati Uniti degli anni Settanta del secolo scorso, dove tutti questi eventi per start-upper e relativi venture capitalist non c’erano. Nel 1978 il tasso di creazione di nuove imprese era il 15 per cento contro un tasso di chiusura del 10 per cento. Nel 2011 il rapporto era rovesciato: tasso di creazione di nuove imprese all’8 per cento (praticamente la metà di quello del 1978), e tasso di chiusura delle imprese al 10 per cento.

Come dice un vecchio proverbio genovese: scagni picìn travagi grandi (piccole scrivanie, grandi lavori). E i numeri sono lì a dimostrarlo. A ulteriore riprova del fatto che la vanità e la forma in economia a ben poco servono, c’è il «fenomeno-Israele». Una «start-up nation» che, da sola, porta a quotare in borsa un numero di start-up superiore a quello di Germania e Francia messe assieme. E dove un giovane con una buona idea e un possibile investitore preferiscono seguire il rito antico (e per questo pieno di contenuto) del sedersi uno di fronte all’altro per parlarsi, ascoltarsi e conoscersi con calma. Invece che celebrare il rituale moderno (e per questo, vuoto e vano) dei cinque minuti di elevator pitch. Questo rituale avrebbe certamente scartato un duro d'orecchio come Thomas Edison, o un eccentrico scorbutico privo di parlantina come Henry Ford. Parafrasando un pensiero del grande filosofo Ernst Jünger: «la modernità ci ha fatto diventare maestri della forma, ma abbiamo smarrito la sostanza». 

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